lunedì 27 ottobre 2014

IL BIG BANG E IL SUO SOLITO SFRUTTAMENTO ILLOGICO DA PARTE DELLA CHIESA PER CERCARE DI SALVARSI INGANNANDO GLI IGNORANTI

E' la solita storia. Esiste un inizio assoluto dell'universo quale sarebbe il Big Bang e dunque esiste la creazione divina dell'universo. Ma la premessa non concorda con la conclusione. Andiamo per ordine. I cosmologi ci dicono che il Big Bang avrebbe avuto inizio circa 17 miliardi di anni fa. La Terra con il sistema solare avrebbe incominciato a formarsi circa 4 miliardi e mezzo di anni fa. Se la creazione è avvenuta dal nulla (creazione dal nulla introdotta per la prima volta nella storia da Filone l'ebreo e recepita dal cristianesimo) vi è da domandarsi: che faceva Dio prima del Big Bang? Agostino scrisse che preparava l'inferno per coloro che si fossero posti questa domanda. Da precisare che nel Genesi (e non la Genesi come dice il papa perché per Genesi deve intendersi il titolo del primo libro della Bibbia) non si dice affatto che Jahweh (detto anche Elohim) abbia creato il mondo dal nulla giacché al termine ebraico corrisponde il termine "fece" nel senso di "ordinò."  Dunque nel Genesi è esclusa la creazione dal nulla, in conformità con tutta la tradizione antica, dai miti mesopotimici (che influenzarono la Bibbia) alla fisica e alla filosofia greca. 
Alla famosa astronoma Margherita Hack dopo una conferenza nella Facoltà dove ero allora giovane assistente di ruolo e professore incaricato, non ancora di ruolo, di storia della filosofia (ma da allora già studioso di cosmologia) domandai circa 40 anni fa: e prima del Big Bang? Mi rispose: la domanda scientificamente non ha alcun senso. Le risposi che la domanda non poteva essere evitata. Stephen Hawking nel suo libro L'universo in un guscio di noce ha scritto che domandarsi che cosa vi sia stato prima del Big Bang equivale a domandarsi che cosa vi sia a nord del polo nord. Anche questa risposta lascia insoddisfatti perché non vuole affrontare di petto la domanda evitandola. Ciò che segue è tratto liberamente dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Eppure il cattolico Antonino Zichichi ha scritto in Il vero e il falso. Passaggiando tra le stelle e a casa nostra che dopo la fine dell'espansione per esaurimento della forza di esplosione avrebbe potuto prevalere la forza di gravitazione che avrebbe potuto portare ad una contrazione dell'universo sino al Big Crunch o grande implosione. Egli ha scritto: “Tra 50 miliardi di anni (forse), raggiunto il massimo di espansione, avrà inizio la compressione, che si concluderà con il collasso gravitazionale. E poi? Niente. Nessuno può fare previsioni”. Ma poi Zichichi cita l’astrofisico Efim S. Fradkin, secondo cui la carica gravitazionale nella fase della contrazione si spegnerebbe evitando il collasso gravitazionale. Allora si giustificherebbe una serie illimitata di espansioni cosmiche.1 Il che manderebbe Dio in soffitta. Questo modello – aggiungiamo noi - è oggi prevalente in considerazione della recente scoperta dell’esistenza della materia oscura, di cui quella visibile delle stelle sarebbe soltanto il 2%. Essa giustificherebbe la fase successiva di contrazione dell’universo per il prevalere della forza di gravitazione, una volta esauritasi quella di espansione dopo il Big Bang.
1 A. Zichichi, Il vero e il falso. Passeggiando tra le stelle e a casa nostra, IL Saggiatore 2003, pp. 290 sgg

Il modello della contrazione è uno dei tre modelli affacciati dal russo Alexandr Fridman sulla base della relatività generale di Einstein, che tuttavia aveva supposto un universo stazionario e non in espansione.
Era stato il fisico russo Alexandr Fridman (1885-1922) a ipotizzare, sulla base della relatività di Einstein, tre modelli di universo: 1) universo in espansione per eccesso della forza di espansione originata dal Big Bang rispetto alla gravità; 2) universo in espansione al limite della velocità di fuga rispetto alla forza di gravità, con velocità che rallenta senza mai annullarsi; 3) universo in contrazione per eccesso di forza di gravità. Nel secondo modello rientra quello di Einstein-De Sitter (1932).
Dell'errore del modello dell'universo stazionario Einstein fece ammenda quando Hubble sperimentò nel 1929 (effetto doppler della luce con spostamento sul rosso nello spettro della banda della luce) l'espansione dell'universo verificando quando già aveva presupposto teoricamente l'astronomo belga il prete Georges Lemaître . Già il fatto che sia stato un prete ad affermare l'espansione dell'universo ci dice che anche all'interno della Chiesa si erano affacciate delle idee che contrastavano nettamente con la Bibbia. Ma l'evoluzione dell'universo a partire da un inizio assoluto sembrava tuttavia non contrastare con un inizio assoluto coincidente con la creazione dal nulla. Pertanto non è il Big Bang che può mettere in crisi l'esistenza di una creazione divina (a parte la domanda che facesse Dio prima di 17 miliardi di anni fa).  
Il fatto è che la teoria del Big Bang è ormai superata dalla teoria del pluriverso o universi paralleli (Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti? Alla ricerca di altri universi). E non poteva non essere così se si voleva superare l'incomprensibile inizio assoluto di un universo. Il Big Bang spiega solo l'origine dell'universo visibile. Nel pluriverso si formano CASUALMENTE delle "bolle" o concentrazioni di energie che esplodono dando origine all'espansione.  E' possibile che il nostro universo visibile sia stato attraversato da un altro universo dato l'enorme spazio vuoto che si può riscontrare nella nostra galassia. 
Che la stessa formazione dell'universo visibile sin dal Big Bang sia contrassegnato da una CASUALITA' che demolisce qualsiasi interpretazione divina dell'universo è dimostrato dall'esistenza dell'antimateria (verificabile negli esperimenti dove le particelle vengono sottoposte ad alte energie). Già nelle prime frazioni del primo secondo del Big Bang non potevano non esistere sia la materia che l'antimateria (con protoni negativi ed elettroni positivi). Perché prevalse la materia sull'antimateria sino ad annullarne gli effetti? Nessuno lo può spiegare. Deve essere stato un fatto CASUALE. Se fosse prevalsa l'antimateria certamente non si sarebbe formato l'universo visibile così come si è formato dando origine sempre casualmente al nostro sistema solare. Vi è dunque la presenza DETERMINANTE di una casualità sin dall'origine dell'universo visibile. E la casualità demolisce qualsiasi interpretazione finalistica dell'universo, quasi che questo fosse il risultato di un progetto intelligente facente capo ad un Dio. Ma non basta. Le argomentazioni più forti contro ogni progetto intelligente dell'evoluzione scaturiscono dall'evoluzione biologica da una comune origine di tutte le forme di vita. Il papa ha detto che Dio ha creato l'universo lasciando che poi esso evolvesse secondo le sue leggi NATURALI. Quali leggi naturali? Se si tratta delle leggi della fisica queste non possono condizionare completamente la formazione degli organismi viventi sulla Terra. E' ormai oltre la teoria, per essere diventata verità scientifica, l'origine di tutti gli esseti viventi da una comune origine di tutti gli organismi, sia animali che vegetali.    
La natura, dopo almeno 3 miliardi di anni dalla comparsa delle prime cellule procariotiche (cioè dei batteri e delle alghe monocellulari che hanno prodotto l’ossigeno nell’atmosfera e che si riproducevano per gemmazione), ha prodotto la differenziazione sessuale, senza la quale non vi sarebbe stato il rimescolamento dei geni, con la conseguente possibilità di mutazioni che hanno dato origine a tutta l’evoluzione biologica. 

Che ogni forma di vita abbia avuto origine dalla simbiosi di tre diversi tipi di cellula procariotica – che hanno dato origine alla cellula eucariotica animale – e dagli stessi tre tipi in aggiunta ad un quarto tipo – che hanno dato origine alla cellula eucariotica vegetale – è oggi una teoria ormai accreditata scientificamente. 1 La stessa cellula umana conserva un residuo di tale origine nel DNA mitocondriale, deputato principalmente alla produzione della molecola ATP che fornisce energia alla cellula nel metabolismo ossidativo. Senza la casuale formazione della cellula eucariotica non sarebbe stata possibile l’evoluzione, perché il batterio era già destinato a veder fallire in partenza ogni tentativo di costituire un organismo pluricellulare, non potendo le sue dimensioni ridotte contenere nuove attività biosintetiche diversificate.


1 Tale teoria fu formulata dalla biologa Lynn Margulis. La teoria della Margulis è stata esposta in Simbiosi ed evoluzione, Le Scienze, settembre 1987. I tre procarioti della cellula animale sono il mitocondrio, il mycoplasma e la spirocheta, che si aggiungono ai cloroplasti nella cellula vegetale. Su questo argomento cfr. Freeman Dyson, Le origini della vita, Bollati Boringhieri 1985, pp. 27 sgg. 
Fine della citazione del mio libro.

Il papa, del tutto scriteriato, è giunto al ridicolo affermando che Dio alle leggi naturali avrebbe aggiunto la libertà per l'uomo. Ma come può dire una simile sciocchezza? Se l'uomo è derivato dall'australopithecus (più di 3 milioni di anni fa) vi è da domandarsi: aveva già l'australopithecus l'anima immortale pur non avendo alcuna capacità di pensiero che lo rendesse individuo moralmente responsabile e perciò libero? Perché senza la responsabilità morale non esiste peccato, e senza peccato non esiste differenza per la dottrina cristiana tra uomini ed altri animali.  Quando dunque l'uomo divenne individuo moralmene responsabile capace di distinguere il bene dal male? Forse soltanto con il sapiens sapiens? Cioè a partire da circa 150.000 anni fa? E come avvenne il salto dall'uomo puramente animale all'uomo dotato di responsabilità morale   coincidente con l'anima immortale (giacché solo all'anima immortale dell'uomo la Chiesa attribuisce responsabilità morale e viceversa)? Quando e come ad una certa fase dell'evoluzione della specie homo Dio avrebbe aggiunto all'uomo l'anima immortale separandolo da resto del mondo animale? Qui frana più che in ogni altro luogo ogni spiegazione teologica dell'origine dell'uomo. 
E' il caso di dire: o di tutti o di nessuno. Data la comune  origine di tutte le forme di vita o tutti gli organismi viventi hanno un 'anima immortale o non ce l'ha alcuno. Non basta. In che sarebbe consistito il peccato originale senza il quale cade tutta la cristologia. Già alcuni decenni fa i teologi cristiani, accettando l'evoluzione naturale, cercarono di superare questa enorme difficoltà ipotizzando che una comunità di uomini si fosse ribellata a Dio peccando e che il peccato si fosse esteso a tutta l'umanità per partecipazione ad una stessa natura di specie. Ma in che epoca sarebbe avvenuto questo peccato? Non lo si dice. Gli stessi teologi ammettono che si tratta solo di ipotesi. Ma è evidente che è un arrampicarsi sugli specchi.
Quando la religione vuole porre d'accordo le sue fantasie dottrinali con la scienza è costretta anche a contraddirsi cercando di nascondere le sue contraddizioni. E allora alla sua antiscientificità si aggiunge la disonestà, che è anche più grave. 

Anche l'uomo comune può essere indotto a pensare: è mai possibile che un Dio abbia creato un universo (pluriverso) infinito avendo come unico scopo quello di creare l'uomo su questa Terra facente parte di un sistema solare che nell'universo visibile fa parte di circa 200 miliardi di stelle in una galassia da ricomprendere in circa 300 miliardi di galassie?
Ciò che segue è tratto dal mio libro Io non volevo nascere. 
Di fronte a simile sproporzione
Roger Penrose, matematico di fama mondiale, nel suo libro di più di mille pagine intitolato La strada che porta alla realtà (2004) ha svolto anche riflessioni riguardanti il principio antropico, scrivendo: “Se la vita senziente è possibile, ci dobbiamo aspettare la sua presenza in un universo spazialmente infinito, anche se è estremamente improbabile che le condizioni per la sua esistenza siano soddisfatte in qualsiasi regione finita dell’universo. In un universo spazialmente infinito la nostra previsione è che vi dovrebbe essere qualche luogo nella sua infinita estensione dove appare la vita senziente, se non altro per una fortuita riunione di tutti gli ingredienti necessari. Ciò avverrebbe soltanto per caso, anche se in modo straordinariamente raro…È persino difficile immaginare che sia necessario qualcosa al di fuori della nostra galassia. Ma potrebbe essere che la vita intelligente sia molto rara e che quindi sia meglio avere a disposizione un più po’ di spazio. Cerchiamo di essere generosi, chiedendo che una regione che abbia come raggio un decimo della distanza fino al bordo dell’universo osservabile debba rassomigliare all’universo che conosciamo, non curandoci di ciò che avviene all’esterno di questa regione”.1 Prosegue Penrose osservando: “Vedete quale incredibile spreco sia stato per il Creatore il prendersi disturbo di produrre quest’altra parte dell’universo, di cui non abbiamo effettivamente bisogno – e di cui quindi non ha effettivamente bisogno il principio antropico – per la nostra esistenza…Sarebbe stato molto più economico in termini di probabilità avere mille di queste regioni più piccole che soltanto un universo più grande”. Tutto ciò serve a far capire come il Big Bang non possa essere stato “una sorta di scelta iniziale” dovuta ad un «atto di Dio», che sarebbe stato uno sprecone se avesse voluto creare il mondo in funzione della creazione dell’uomo. In sostanza: Penrose afferma che Dio è stato uno sprecone nel creare un universo così grande solo per far nascere la vita su un sistema solare. Nel calcolo delle probabilità gli sarebbe bastato un universo più piccolo per creare le condizioni necessarie e sufficienti perché si formasse casualmente un sistema solare come il nostro con un pianeta come la Terra che contenesse la possibilità della vita. Se avesse creato universi più piccoli avrebbe creato, sempre per il calcolo delle probalità, le condizioni perché la vita sorgesse anche in altri universi. Dunque Dio non è stato affatto intelligente, è stato uno sprecone se voleva creare una vita intelligente soltanto in un universo.    

 Tali argomenti possono essere integrati facendo riferimento alle ultime ricerche riguardanti le leggi del caos e della complessità esposte dal maggiore teorico della complessità e dell’autorganiz­zazione in campo biologico che è Stuart Kauffman, 2 il quale ha spiegato che in un regime ordinato al confine del caos, cioè in una condizione di non equilibrio di un sistema termodinamico aperto, dove vi è dissipazione di energia del sistema e acquisizione di energia dall’esterno, è assai probabile che si formi un ordine gratuito, secondo gli studi condotti da Ilya Prigogine (Nobel 1977 per la chimica).3 Allo stesso modo, presupponendo un numero di “miscele sufficientemente complesse di sostanze chimiche”, è assai probabile che si formino “dei sistemi dotati della capacità di catalizzare l’intricata rete di reazioni chimiche da cui sono formate le molecole stesse”, cosicché le protocellule sarebbero “il risultato non di una selezione naturale, ma piuttosto dell’ordine spontaneo di sistemi auto-organizzati”.4 Se si ammette che in origine, data un’enorme rete di reazioni chimiche, queste stesse reazioni fossero capaci di produrre anche una sola molecola, ogni milione di molecole, capace di fungere da catalizzatore per permettere una reazione chimica veloce, come fa l’enzima nella cellula, si sarebbe formato nell’enorme rete di reazioni chimiche un gruppo di molecole autocatalitico, cioè “capace di autogenerarsi mediante reazioni catalizzate” sì da rendere concepibile “l’origine della vita come proprietà prevista del mondo fisico”, 5 ancor prima della formazione degli acidi nucleici dell’RNA, che sono stati ritenuti sino ad oggi l’origine della capacità riproduttiva della cellula. Facendo riferimento alla capacità della materia non vivente di costituire casualmente dei composti organici con la capacità di riprodursi ancor prima della formazione dell’RNA non è più necessario postulare una sorta di miracolo per spiegare il passaggio dalla materia non vivente a quella vivente, mentre è possibile fare riferimento a leggi generali della fisica che siano comuni alla fisica e alla biologia. Poiché i sistemi viventi stanno tra l’ordine e il caos, in un equilibrio instabile, si spiega la loro capacità di evolversi anche per una piccola perturbazione del sistema di riproduzione. A questo punto sulla casuale evoluzione dei sistemi viventi ha agito sin dall’origine la selezione naturale darwiniana, che non serve a spiegare come abbia avuto origine la vita, ma come essa sia stata modellata nella coevoluzione dei sistemi viventi. “Spero di persuadervi del fatto che la vita è una proprietà naturale dei sistemi chimici complessi, del fatto che quando il numero di specie molecolari differenti in un brodo chimico supera una certa soglia, deve apparire improvvisamente una rete di reazioni che si autoalimentano – un metabolismo autocatalitico…Gli impressionanti sviluppi della biologia molecolare rendono ora possibile immaginare la creazione di sistemi molecolari in grado di auto-riprodursi – vita sintetizzata. Credo che questo traguardo verrà raggiunto entro uno o due decenni.”6 “La vita può essere una proprietà emergente prevedibile della materia e dell’energia…L’ordine spontaneo è stato altrettanto potente della selezione naturale nella creazione di un mondo vivente”.7 È questione di tempo: la biotecnologia riuscirà a riprodurre in laboratorio la vita producendo protocellule formantisi da una rete complessa di reazioni chimiche casuali. 8



I teologi, prima di interpretare finalisticamente l'evoluzione biologica, dovrebbero riflettere sulla casuale formazione della cellula eucariotica, comparsa dopo più di tre miliardi di anni dalla formazione dei protorganismi procariotici. 
 


Se ci si domanda perché siano quattro i nucleotidi (disposti in coppia) che formano la sequenza del DNA (Adenina-Timina, Citosina-Guanina), si può rispondere oggi che per un numero inferiore di nucleotidi il numero degli errori per gene (dovuti a mutazioni casuali nella sequenza nel processo di duplicazione delle due eliche del DNA e nel processo di trascrizione del DNA in RNA messaggero) sarebbe aumentato di molto. Sembra dunque che sia stato più vantaggioso un numero piccolo di nucleotidi, ma non ancor più piccolo, tale da causare una variabilità così alta da rendere allo stesso tempo impossibile la selezione naturale. Con due soli nucleotidi gli organismi non avrebbero avuto la capacità di adattarsi alle condizioni ambientali, mentre con più di quattro nucleotidi la complessità del processo biosintetico sarebbe stata troppo elevata. Anche in questo caso è intervenuta la selezione naturale sulla formazione di un numero superiore di nucleotidi prodottisi casualmente.

Se ci si domanda perché siano 20 gli amminoacidi che compongono la catena polipeptidica delle proteine e la natura abbia utilizzato soltanto questi tra tutti i possibili amminoacidi che si erano già originariamente e spontaneamente formati, la cui esistenza è documentata anche in base al ritrovamento di amminoacidi di origine extraterrestre, la risposta è che ciò dipende dal fatto che soltanto questi erano riconosciuti dai nucleotidi dell'RNAt (transfert), che ha il compito di disporre gli amminoacidi lungo l'RNAm (messaggero), che si richiude poi dando luogo alla proteina.

Tutte le malattie genetiche derivano dall'originaria costituzione casuale dello stesso DNA e dal casuale costituirsi del riconoscimento di soli 20 amminoacidi da parte dell'RNA.

“In origine vi era un solo gene che codificava per 110 amminoacidi. Successivamente il gene, replicandosi attraverso una serie di errori, diede luogo a sequenze indipendenti ciascuna dalle altre, con tassi di mutazione diversi. Si innescò in tal modo una serie di alternative costituite da catene (polimeri) di nucleotidi il cui numero non poteva essere limitato dal fatto di dover costituire dei polimeri misti con le catene di amminoacidi”.9 Ma poiché una proteina è costituita mediamente da 300 amminoacidi e questi sono 20, si può ritenere che nel “brodo primordiale” vi fosse la possibilità teorica di 20 elevato 300 amminoacidi, un numero superiore a quello dei protoni e dei neutroni dell'universo (10 elevato 80). In realtà si formarono solo la catene più stabili, “nell'esplosione di vie alternative”10, tenendo conto della selezione avvenuta in base alla necessità che ogni catena di amminoacidi si fissasse con una compatibile catena di nucleotidi tramite la catena dei nucleotidi (in polimeri misti di catene di DNA e di amminoacidi. Altrimenti sarebbe stato impossibile il sistema riproduttivo tramite la catena dei nucleotidi (del futuro DNA). Inoltre, catene di polimeri misti troppo lunghi sarebbero risultate troppo complesse per essere conservate.

1 Op. cit., Rizzoli 2005, pp. 760-63.

2 A casa nell’universo. Le leggi del caos e della complessità (1995), Editori Riuniti 2001.

3 La Nuova Alleanza. Metamorfosi della scienza (con Isabella Stengers), 1979, Einaudi 1981.

4 A casa nell’universo, op. cit., pp. 41-.43.

5 Ibid., p. 92.

6 Ibid., p. 72.

7 Ibid., p. 101.

8 Ibid., p. 203.

9 M. Ageno, Dal non vivente al vivente, Nuove ipotesi sull'origine della vita, Theoria 1991, p.204.

10 Ibid., p. 133.
La parte riguardante l'origine della vita era già compresa nel mio volume Biologia e filosofia. Origine della vita ed evoluzione biologica. Casualità e necessità, 1999, 518 pagine (Quaderno n. 43 degli Annali della Facoltà di scienze della formazione di Cagliari).
E' evidente, in conclusione, che il papa ha antiscientificamente rimosso la casualità che contrassegna l'evoluzione dell'universo sin dalla formazione delle galassie e delle stelle e ha rimosso la casualità anche nella formazione dei primi organismi. Ciò che appare guidato da un disegno finalistico è in realtà l'effetto di una selezione naturale, anch'essa rimossa sostituendola con una interpretazione teologica (finalistica) che va oltre ogni interpretazione scientifica dell'evoluzione. Rendiamo evidenti alcuni esempi di casualità determinante nella formazione della vita sulla Terra, che, se si fosse trovata ad una maggiore distanza dal sole (come Marte) sarebbe stata troppo fredda per consentire la vita, mentre, se si fosse trovata ad una minore distanza (come Venere), sarebbe stata troppo calda. Se si prescinde dalla casualità si arriva al ridicolo dell'attribuire a Dio la distanza giusta dal sole. Non basta. Circa 65 milioni di anni fa vi fu la scomparsa dei grandi rettili, senza la quale non vi sarebbe stata l'evoluzione dei piccoli mammiferi che vivevano infrattati e nascosti per non essere prede dei grandi rettili. La scomparsa dei grandi rettili fu dovuta alla caduta di un grande meteorite sulla penisola dello Yucatan (Messico) che sollevò un pulviscolo che oscurò tutta l'atmosfera rendendola quasi impenetrabile da parte della radiazione solare, con la conseguenza di una grande glaciazione. I rettili, animali a sangue freddo e privi di autotermoregolazione non furono in condizioni di sopravvivere al freddo, al contrario dei mammiferi, dotati di autotermoregolazione. E senza la scomparsa dei grandi rettili, pertanto, non vi sarebbe stata nemmeno l'evoluzione dei mammiferi sino all'uomo. Una concezione finalistica (teologica) della vita dovrebbe arrivare all'assurda affermazione che fu Dio a scagliare il meteorite sulla Terra per favorire l'evoluzione dei mammiferi. 
Di fronte a tale ridicolo è meglio che il papa taccia invece di fare brutte figure pur di ingannare gli ignoranti e gli incapaci di riflettere anche sulla base di nozioni comuni. 
L'estinzione di massa di molte specie a causa della selezione naturale è la migliore dimostrazione della mancanza di finalismo. Riporto qui quanto già scritto in Io non volevo nacere, che riprende le argomentazioni già esposte nel citato libro Biologia e filosofia        

“Che l'evoluzione non sia un processo prevedibile, deterministico, lo si desume dalle molte catastrofi che hanno ripetutamente interrotto il comodo procedere dell'evoluzione e hanno conferito agli eventi nuove direzioni...L'evoluzione segue sempre una precisa direzione: l'emancipazione dall'ambiente. Il fatto che questa direzione esista non significa però minimamente che siamo in presenza di un processo determinato. La via da seguire non era prescritta. Lo si desume anche dai molti e diversi 'tentativi' intrapresi dall'evoluzione. Non si può sicuramente desumere che l'uomo fosse il suo traguardo. Però il profilarsi dell'uomo sulla scena dell'evoluzione non è nemmeno il frutto di un puro caso, anzi nemmeno un qualcosa di equiparabile a quella che Gould ha definito 'contingenza'. Sono sempre sopravvissute nel corso dell'evoluzione quelle forme che hanno ottenuto i maggiori progressi in fatto di prestazioni del metabolismo e di capacità di affrancarsi dai condizionamenti dell'ambiente”.1 Il 99% delle specie che si sono formate si è estinto nel corso dell'evoluzione. Questo non è dipeso da catastrofi. L'estinzione è la regola, mentre la sopravvivenza è l'eccezione. Valutazioni prudenti dicono che 440 milioni di anni fa, e poi 80 milioni di anni dopo, le forme di vita marine furono ridotte del 70%. E 250 milioni di anni fa una percentuale di specie marine compresa tra il 75% e il 90% si estinse.2

Ha scritto Mario Ageno (che ebbe nel 1972 in Italia la prima cattedra di biofisica): “Ciò che emerge è la mancanza di un quadro progettuale, di un piano di lavoro predisposto. Una volta imboccata una certa strada, si va avanti comunque per essa, eventualmente mettendoci delle pezze. Se poi ciò si rivela non più sufficiente, non è che venga riprogettata completamente in modo razionale quella parte dell'organismo che è chiamato in causa: semplicemente la specie si estingue e il suo posto verrà preso prima o dopo da un'altra, che abbia tentato di far fronte agli stessi problemi in altro modo. Un'idea sicuramente sbagliata, ma ancora diffusa, è quella della straordinaria perfezione di tutti i fenomeni di adattamento biologico. Si tratta, come ormai è ben noto, soltanto di un mito. Gli esempi che si possono portare per dimostrare il contrario sono moltissimi e a portata di mano”. L'imperfezione della cellula si vede anche nei circuiti chimici, in cui si instaurano circuiti parassitari che ne riducono l'efficienza. Se ci si domanda come si sia potuto imporre uno stato imperfetto della cellula, la risposta è che, presa casualmente una certa direzione dall'evoluzione, quello era il migliore funzionamento che si potesse ottenere. 3

Come ha rilevato Gould, l'idea di progresso nell'evoluzione è un errore di interpretazione, perché, considerando l'evoluzione partendo dal batterio, paragonato ad un muro sinistro, l'evoluzione non poteva che avvenire a destra, senza escludere regressioni e involuzioni successive verso sinistra.4 E ciò esclude il finalismo a dispetto di tutte le interpretazioni antropocentriche.

Ha scritto Konrad Lorenz: “L'idea che l'uomo sia dall'inizio dei tempi la meta prestabilita di ogni evoluzione naturale mi sembra il paradigma della cieca superbia che precede la caduta. Se dovessi credere che un Dio onnipotente ha creato intenzionalmente l'uomo attuale, così come è rappresentato dall'esponente medio della nostra specie, allora sì che dubiterei dell'esistenza di Dio. Se questo essere, che spesso nelle sue azioni collettive è, non solo così malvagio, ma anche così sciocco, dovesse essere costituito a immagine e somiglianza di Dio, sarei costretto a dire: quale misero Dio".5 '


1J.H.Reichholf, op, cit., p.216.

2Ibid., pp. 134 sgg.

3 Mario Ageno, Le radici della biologia, Feltrinelli 1986, pp.205-6. Ho esposto il pensiero di Ageno, formulatore di una nuova teoria riguardante l'origine della vita, in Biologia e filosofia. Origine della vita ed evoluzione biologica. Casualità e necessità, in Quaderno n.43 (1999) degli Annali della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Cagliari (per comprensive 518 pagine).

4 Stephen Jay Gould, Gli alberi non crescono fino al cielo, Mondadori 1977, pp. 190 sgg.

5 Il declino dell'uomo, Mondadori 1984, p.232.

Il Papa sull'origine del mondo:
"Il Big Bang non contraddice
l'intervento di Dio nel creato"

IL PEDERASTA VENDOLA: GLI PIACE IL SANGUE DI MAIALE. SE FOSSE UN MAIALE AVREBBE UNA NATURA NORMALE

Inviato a segreteria.presidente@regione.puglia.it e a 
redazione@nichivendola.it
Ricevo da Franco Libero Manco.
Avvilente dichiarazione del Presidente della Regione Puglia riportata su L'osservatore Politico di giugno 2014.
L'"illuminato" Presidente pare che tra l'altro abbia detto: "La dieta vegetariana fa male alla salute" (si vede che in fatto di scienza alimentare è proprio a digiuno); "non capisco questa perversione a rovinarsi la salute.
Non sanno cosa ci sia di più buono nel mangiare una bella costoletta" (perché non la sua?) "o una salsiccia, accompagnata da un buon vino rosso.
Esco pazzo per il sanguinaccio. E' spettacolare. Il sanguinaccio si prepara con il sangue del maiale raccolto in un recipiente nel momento della macellazione. Si deve mescolare subito il sangue ancora caldo per evitare la coagulazione e poi conservarlo in un luogo fresco e asciutto. Dopo qualche giorno va colato e filtrato da eventuali coaguli che possono essersi venuti a formare".Ora, con questa dichiarazione, a parte che perde inevitabilmente credito nel mondo animalista e vegetariano,uno che ha propensione a nutrirsi del sangue di un maiale e chiama pervertiti coloro che mangiano vegan, cioè cibi incruenti, forse non è la persona più adatta a ricoprire la carica di Presidente di una Regione come la Puglia.

RENZI WANTED

O è un pazzo o è un lucido criminale. Nel primo caso deve essere ricercato per essere sottoposto a ricovero coatto in psichiatria. Nel secondo caso deve essere fatto fuori (sulle modalità si può discutere). In tutti e due i casi bisogna mettergli addosso una taglia.
Ha detto che è finito il mondo del lavoro a tempo indeterminato e che in caso di licenziamento lo Stato interverrà per sostituirsi con ammortizzatori sociali cercando altri lavori in alternativa. Solo  un pazzo o un criminale può dire queste cose. Quali lavori lo Stato possa offrire in alternativa non è stato detto perché non può essere detto. Non ve ne sono le condizioni economiche soprattutto a causa della legge di stabilità (che ha sostituito la vecchia dizione "legge finanziaria") che impone il rispetto del 3% come deficit massimo che impedisce investimenti statali e costringe a tagli lineari (il discorso sugli sprechi è diverso, come tutti gli sprechi delle Regioni, che dovrebbero essere abilite). Se non si esce dall'euro per tornare alla sovranità monetaria non vi potrà essere alcun miglioramento economico. 
Inoltre, l'alternativa lavoro a tempo indeterminato-lavoro a tempo determinato è una falsa alternativa. Si vuole imitare la Germania dove solo apparentemente vi è una piena occupazione, ottenuta con un trucco, cioè abbassando i salari in modo che tre salariati corrispondano ad un solo salariato. Ma in Germania, dove i salari erano già abbastanza alti, in compenso vi sono realmente assistenze sociali che permettono di offrire lavori alternativi in caso di perdita di lavoro e di avere un'offerta di servizi gratuiti che mancano invece in Italia. Per esempio, sono gratuiti gli asili nido, che il pazzo o criminale Renzi ha sostituito con la solita pezza di 80 euro al mese alle neomadri, quando si sa che un asilo nido costa circa 500-600 euro al mese. E' solo un esempio. In Italia non è possibile abbassare i salari perché sono già troppo bassi (non considero tutti i magnaccia della politica e delle imprese sia statali che private di cui è complice il Renzi). Dicevo che la suddetta l'alternativa è una falsa alternativa. Infatti un lavoro non può che essere a tempo indeterminato. Agevolare gli imprenditori sollevandoli per tre anni dal carico del pagamento dei contributi ai fini pensionistici  significa favorire il licenziamento dopo i tre anni (soprattuto per lavori che non comportino competenze acquisibili dopo anni di specializzazione). L'imprenditore non può essere uno che abbia come regola l'etica e non il profitto. Ed è giusto che un'impresa debba vivere sul profitto. Il problema però sta in questa domanda: quale profitto? Può un'impresa licenziare con il solo scopo di aumentare il già esistente profitto e senza che essa abbia necessità di licenziare per evitare un passivo di biliancio che porterebbe alla chiusura per fallimento? Qui dovrebbe intervenire la legge dicendo all'impresa: se dai tuoi bilanci (non truccati) risulta che non vi sono passività e vuoi licenziare per aumentare il profitto io te lo proibisco perché il lavoro non è una merce ma ne va della vita del dipendente. E il giudice del lavoro deve imporre il reintegro punendo severamente l'azienda. In questi termini non ha più senso parlare di lavoro a tempo determinato. Ogni lavoro deve essere sempre inteso a tempo indeterminato salvo il caso in cui l'azienda abbia delle passività (da dimostrare sulla base di una analisi dei bilanci), passività che mettano a rischio la vita dell'impresa. Ogni altro discorso è frutto di ignoranza o di disonestà. E soltanto un pazzo o criminale come il Renzi non può capire queste semplici cose. 
Il capitalismo sa produrre ma non sa distribuire, il comunismo sa distribuire ma non sa produrre. Ma vi è una via di mezzo. Il controllo statale dell'economia contro l'attuale dominio dell'economia sulla politica. E come si chiama tale sistema politico? Si chiama socialismo nazionale, e, anche se ciò può spaventare per il suo riferimento storico, nazionalsocialismo. Contro le falsità e le menzogne di una falsa sinistra bisogna riconoscere che oggi la vera sinistra può essere cercata e trovata in una destra sociale che si sottragga alla globalizzazione dell'economia.      
Infine, non ho mai sentito uno che dica con sicumera che governerà sino al 2023 e poi lascerà. Siamo veramente nelle mani di un pazzo o di un criminale assetato di potere ad ogni costo. E perciò bisogna liberarsene ad ogni costo. Con le buone o con le cattive.    

domenica 26 ottobre 2014

IL TRAGICO AFFAIRE REYHANED JABBARI. CONTRASTANTI VERSIONI DEI FATTI. MA UNA SOLA VERITA': LA GIUSTIZIA PAZZA DEL CORANO

Non si sa come siano andate veramente le cose. Se è vera la storia dell'sms l'omicidio sarebbe stato premeditato. Ma non si capisce se il tentativo di violenza, non compiuta, sia avvenuto in un precedente incontro nella casa dell'assassinato, copito alle spalle. Secondo la stessa accusa, che ha raccolto solo la versione della vedova e del figlio, Reyhaned avrebbe inviato l'sms ad un amico dicendogli che avrebbe ucciso colui che aveva tentato di usarle violenza. Accusa del tutto strampalata nella sua illogicità. Reyhaned disse che incontrò il futuro assassinato, Sarbandi, in un bar dove le era stato proposto di decorare una stanza del suo appartamento. Ma aggiunse che Sarbandi si era fatto accompagnare da un amico e che portandola a casa sua in auto si sarebbe prima fermato di fronte ad una farmacia per comprare dei preservativi. Sempre secondo la difesa di Reyhned il vero assassino sarebbe stato l'altro uomo che avrebbe pugnalato Sarbandi per difenderla dal tentativo di stupro. Ciò contrasta con l'accusa secondo cui Reyhaned girasse già da qualche giorno in strada con un coltello. Secondo l'accusa l'omicidio sarebbe stato premeditato.E' del tutto incomprensibile che l'omicidio sia stato premeditato qualche giorno dopo il tentativo di stupro e che per questo Reyhaned girasse in strada con un coltello. Se Reyhaned era già armata di un coltello vi è da domandarsi quando avrebbe colpito alle spalle il suo violentatore. Prima del tentativo di stupro non è possibile. Dopo il tentativo di stupro (non portato a termine) sembra troppo improbabile a causa di una reazione esagerata. Ma il fatto più importante è che non sia stata accolta la difesa di Reyhaned secondo cui non fu lei ad uccidere Sarbandi. Ma perché mai nel processo Reyhaned non ha mai chiesto che fosse portato come testimone colui che sarebbe stato il vero assassino di Sarbandi? Forse il vero assassino non volle fare da testimone per evitare di essere accusato lui di omicidio, ma Reyhaned perché non ha accusato di omicidio il vero assassino che avrebbe colpito alle spalle Sarbandi? Non si capisce. Il fatto fondamentale per smontare l'accusa contro Reyhaned sarebbe consistito, in ogni caso, nel controllare l'sms che, secondo l'accusa, Reyhaned avrebbe inviato ad un amico annunciandogli che avrebbe ucciso Sarbandi. Il controllo dell'sms è tecnicamente possibile, come tutti sanno. Perché non è stato fatto? Non si capisce. E ciò va contro l'accusa. Se fosse risultato inesistente l'sms sarebbe risultata falsa l'accusa contro Reyhaned, che avrebbe ucciso non subito dopo il tentativo di stupro ma un altro giorno. La famiglia della vittima ha sempre sostenuto questa versione per evitare l'accusa infamante di tentativo di stupro da parte di Sarbandi. Ma è una difesa che non regge affatto perché Reyhaned non avrebbe avuto alcun motivo per uccidere Sarbandi se questo non avesse tentato di violentarla. Vi sono troppi punti oscuri. Ma oscuri soltanto nel contesto di un processo da matti quale può esistere in uno Stato islamico dove prima di tutto deve essere difeso l'onore di un uomo, valendo la donna, secondo il Corano, la metà di un uomo. Alla luce di questa infame concezione allora tutto diventa chiaro pur nella oscurità dei fatti che si è voluta tenere oscura. 
Ma la colpa è stata certamente anche di Reyhaned. Mi spiego per non essere frainteso. Cerco di pormi nei suoi panni. Che cosa avrei fatto al suo posto?  Avrei da prima accettato come vera la versione falsa dei fatti della famiglia spregevole della vittima. Infatti in base al Corano ( e ci risiamo!) l'omicida ha il diritto di salvare la propria vita chiedendo (illogicamente, aggiungo io) il perdono ai parenti della vittima. Naturalmente se l'omicida è un islamico, altrimenti non vale la richiesta di perdono. In questo caso la vedova e il figlio della vittima dichiararono che erano disposti a perdonare Reyhaned se questa avesse ammesso di essere l'assassina di Sarbandi e che questo non aveva affatto tentato di usarle violenza. Capite l'assurdo dal punto di vista logico? Veniva infatti a mancare completamente il motivo per cui Reyhaned avrebbe ucciso.   Eppure un Tribunale di pazzi, fuorviati mentalmente dal Corano, pur di salvare la superiorità dell'uomo rispetto alla donna hanno accettato la farneticante versione dell'accusa, di fronte alla quale era inutile qualsiasi difesa di un pur bravo avvocato che sostenesse la versione di Reyhaned. La quale, tuttavia, se non fosse stata stupida con la vocazione del martirio, essendo anch'essa, se pur diversamente, fuorviata da una giustizia divina, ma non si sa se di Allah (cioè di un pazzo epilettico chiamato Maometto, che da analfabeta dettava ad uno scriba i versetti del Corano in stato di epilessia se non era un impostore) avrebbe potuto salvarsi riconoscendosi colpevole. Non so se a questo punto sarebbe stata liberata o la condanna sarebbe stata commutata in carcere (non so per quanti anni). In tutti e due i casi, una volta salvatasi la vita, avrebbe avuto o la possibilità di espatriare, se libera, ritrattando quanto aveva ammesso mettendo alle corde i suoi accusatori e sputtanando ancora di più la scellerata giustizia islamica oppure ritrattare egualmente dal carcere quanto era stata costretta ad ammettere sputtanando egualmente la giustizia islamica. Non credo infatti che sarebbe stata ripristinata la condanna capitale perchè si sarebbe dovuto instaurare un nuovo processo, dovendosi considerare concluso il primo con la richiesta di perdono, che non può essere revocato. Ha voluto conservare la coerenza della sua versione perché credeva in un'altra vita, dove avrebbe avuto giustizia. E' rimasta vittima di una asserita giustizia divina. Storia paradossale da ogni punto di vista. Se islamica doveva sapere che una simile giustizia divina era giustizia da pazzi. Il Corano fa diventari pazzi quelli che vi credono. Rimane un altro punto inspiegabile: come mai in tutta questa sporca e tragica storia non ho mai letto di altri gradi del giudizio? Si è risolto tutto in un solo grado e dopo ben sette anni? Incredibile. Tra gli innumerevoli articoli scritti su questa terribile e pazzesca storia ho scelto i seguenti.   



  1. Tg3 - Iran, Reyhaneh Jabbari è stata impiccata

    www.tg3.rai.it/dl/tg3/articoli/ContentItem-53fe129c-93dc-48ae-97d4-f5...
    4 giorni fa - ESTERI - Aveva ucciso il suo stupratore. Esecuzione nonostante gli appelli internazionali alle autorità iraniane.                     

    Long live, Reyhaneh Jabbari! – La storia di una vita e un ...

    rinabrundu.com › Attualità
    5 giorni fa - La storia di una vita e un omaggio. .... La pagina originale non ha una stesura semplice, è un sommarsi di capitoli ... Rina Brundu, in Dublino, 25/10/2014 ... Reyhaneh Jabbari era un'iraniana nata nel 1988 che ha sempre .Contiene l'ultima lettera alla madre 

    Informazione Corretta

    www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=4&sez=120&id=554...
    01.10.2014, Iran: uccide lo stupratore, condannata al patibolo, ecco la sua testimonianza. Cronaca di Vanna Vannuccini Testata: La Repubblica Data: 01 ottobre .
  1. Il Fatto Quotidiano ‎- 1 giorno fa
    La giovane iraniana Reyhaneh Jabbari è stata impiccata all'alba del 25 ottobre. La ragazza, di 26 anni, era stata condannata a morte per l'uccisione dell'u.
  2. Iran, cosa muore con Reyhaneh - Il Fatto Quotidiano

    4 ore fa - Fa impressione il coraggio di Reyhaneh Jabbari, la donna iraniana impiccata dal regime perché, avendo reagito e ucciso il suo stupratore, si è ...
  3. Iran, uccise il suo stupratore. Figlio della vittima: "Nega tutto ...

    www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/06/iran-verra.../1145208/
    06/ott/2014 - Per questo Reyhaneh Jabbari è stata condannata ad essere impiccata. ... principalmente nella vendita del quotidiano il Fatto Quotidiano nelle ...

sabato 25 ottobre 2014

POVERO CANE.NON POVERA DONNA

Mare mosso con onde alte due metri e questa imbecille si porta il cane in barca vela. Ma perché l'imbecillità arriva a certi limiti?



CORRIERE DEL VENETO

Donna si tuffa per salvare il cane
Muoiono annegati tutti e due

Usciti in barca a vela con il mare mosso. Inghiottiti dalle onde, ritrovati alle 2 di notte a Sottomarina di Chioggia

CHI HA CREATO LA PROTEINA BETA AMILOIDE?

Secondo il Catechismo della Chiesa (San Pio X)
Chi ci ha creato?
Ci ha creato Dio.
Chi è Dio?
Dio è l'essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra.
Che significa perfettissimo?
Perfettissimo significa che in Dio è ogni perfezione senza difetto e senza limiti, ossia che Egli è potenza, sapienza e bontà infinita.
Dio può far tutto?
Dio può far tutto ciò che vuole: Egli è l'Onnipotente.
Dio può fare anche il male?
Dio non può fare il male perché non può volerlo essendo bontà infinita, ma lo tollera per lasciar libere le creature, sapendo poi trarre il bene anche dal male.

Ma se Dio è perfettissimo e non può volere il male perché allora ha creato anche la proteina Beta Amiloide  che causa l'Alzheimer?
Questo non lo so.
Se l'Alzheimer è un male come può Dio ricavare da esso un bene?
Questo non lo so.
E allora se non lo sai vai affanculo
Ecco come si demolisce semplicemente ogni pretesa verità teologica e metafisica che voglia andare oltre le conoscenze scientifiche. Mentre lo scienziato non esercita alcuna violenza perché offre alla conoscenza fatti sperimentati il filosofo o il teologo che pretende di offrire o di imporre verità scaturenti solo da una sua fede alimentata da un suo particolare visione del mondo esercita una violenza sul pensiero scientifico come l'hanno sempre esercitata le religioni. Affermare che la natura sia il risultato di un progetto intelligente che fa capo a Dio significa rendere ridicolo Dio stesso, negando la presenza di una casualità determinante nell'evoluzione biologica e sostituendo alla casualità un finalismo che pone capo antiscientificamente all'antropocentrismo. Come se l'universo (oggi sostituito dal pluriverso)  fosse stato creato in funzione dell'uomo. Sommo ridicolo. E l'antropocentrismo, con la conseguente antropizzazione della natura dovuta ad un forsennato aumento demografico, è la malattia mortale della Terra, essendo anche la causa di tutti i dissesti ambientali che la stanno portando alla sua esaustione, come riconobbe persino Martin Heidegger, il filosofo meno antropocentrico tra tutti i filosofi antropocentrici del XX secolo, che vide la causa dei guasti ambientali nell'antropocentrismo, che "fa violenza alla terra e la trascina nell'esaustione", per porla "sotto il dominio della volontà di volontà che rende manifesta l'insensatezza dell'agire umano posto come assoluto" (Saggi e discorsi). Chi è accecato dall'antropocentrismo delle religioni è nemico della vita sulla Terra .   

Alzheimer, come la beta amiloide distrugge le sinapsi - Le ...

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venerdì 24 ottobre 2014

DIO NON PUO' ESISTERE. CONCLUSIONE RICAVABILE DAL SINODO DEI VESCOVI. LA GIUSTIFICAZIONE DELLA PENA DI MORTE DALL'ANTICHITA' AL PAPA PIO XII

Sinodo che si è spaccato riguardo al tema dell'omosessualità arrivando a conclusioni fumose e contraddittorie per nascondere la spaccatura. Una minoranza è rimasta giustamente sulle posizioni tradizionaliste della Chiesa, che ha impedito a questo papa di andare oltre una "comprensione" che tuttavia esclude l'accettazione. Io mi domando: dove stava lo Spirito Santo per illuminare la mente del papa, dei cardinali e dei vescovi? Era latitante o assente ingiustificato? 
Non basta. Riguardo alla pena di morte il papa, andando oltre la cancellazione della pena di morte già abolita nel 1999 dal Catechismo della Chiesa, ha detto che "l'ergastolo è una pena di morte nascosta". Gli si può dare ragione quando condanna il carcere preventivo anche nel caso in cui non vi siano prove certe o non indiziarie di condanna. E' il caso in cui uno sia accusato di omicidio. Invece si fa abuso anche in Italia del carcere preventivo con la scusa del pericolo di inquinamento delle prove. 
Ma per quanto riguarda la condanna della pena di morte la Chiesa ha rinnegato una tradizione che va da S. Paolo a PioXII e che, nel silenzio, non è stata rinnegata sino a Paolo VI. Ci è voluto Giovanni Paolo II per far togliere dal Catechismo la pena di morte. Espongo quanto pensavano al riguardo i maggiori pensatori tra cui molti esponenti della dottrina cristiana. Dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.

Sul diritto naturale si fonda la giustificazione della pena di morte. La condanna della pena di morte discende dalla solita confusione tra morale e diritto, che porta lo Stato a sostituirsi alla vittima innocente che non avrebbe voluto moralmente perdonare, con la conseguenza contraddittoria che l’assassino avrebbe un diritto naturale alla vita maggiore rispetto a quello della vittima. Coloro che, “allignando nella palude dell’emotivo”,1 gonfi di sentimento, ma privi di ragione, attribuiscono ipocritamente alla pena una funzione rieducativa (come si desume dall’art. 27 della Costituzione italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i sostenitori della pena di morte. 

Tra questi barbari dovrebbero essere inclusi allora anche il fondatore del cristianesimo, S. Paolo (che nell’Episola ai Romani riconobbe al governo, anche pagano, l’jus gladii, cioè il diritto di spada), nonché il maggiore Padre della Chiesa, S. Agostino, il maggiore dottore di essa, S. Tomaso, il padre del liberalismo moderno, Locke, il maggiore filosofo dell’Illuminismo, Kant, sino a giungere a Pio XII, che, proposto per la beatificazione da Giovanni Paolo II, difese una concezione vendicativa della pena e giustificò la pena di morte vedendo nel disprezzo dell’ordine pubblico un’opposizione a Dio (Acta Apostolicae Sedis 47, 1955). Pio XII. l’ultimo grande papa. Dopo di lui il caos nella Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, facendo visita ad un carcere, invitò i carcerati a sopportare la loro croce, come se i delinquenti di ogni specie potessero essere considerati vittime e non carnefici. Il buonismo che uccide la giustizia.

Platone nel Protagora afferma che è comando divino l’uccidere gli individui incapaci di giustizia, in quanto sono una piaga sociale. E nelle Leggi (L. IX) è prevista la pena di morte per gli omicidi volontari e l’esilio per due o tre anni per quelli involontari, essendo ritenuti tali quelli causati da uno stato d’ira motivato, che, tuttavia, non non vale come attenuante nel caso di patricidio o matricidio. Aristotele (Etica nicomachea, V, 5), pur sfiorando soltanto l’argomento, scrive che “alcuni ritengono che la legge del taglione sia assolutamente il giusto; e così affermarno i Pitagorici: essi infatti definirono in senso assoluto il giusto come il rendere agli altri il contraccambio. Ma la legge del taglione non si accorda con la giustizia distributiva né con quella regolatrice”, cioè compensativa del danno subito. Infatti subito dopo Aristotele spiega che è più grave colpire un magistrato perché in tal caso chi lo colpisce dovrà non soltanto essere colpito, ma anche punito. Dunque Aristotele, benché non accenni espressamente alla pena di morte, chiarisce che la legge del taglione è la base della giustizia. Rimane sottinteso che l’assassino merita la morte che egli ha inflitto ad altri.

Seneca, autore delle Lettere a Lucilio, che possono essere considerate il capolavoro della filosofia morale di ogni tempo, scrive nel De clementia che la legge nel punire i delitti può applicare anche la pena di morte, “estirpando i malfattori dal corpo sociale per assicurare la tranquilla convivenza degli altri”.

Il diritto romano consolidò la teoria che la giustizia dovesse ritenersi pubblica vendetta nei confronti di chi attentasse al bene comune, identificato con l’utilità sociale. Nell’età moderna il diritto romano fu elaborato da filosofi e giuristi secondo l’indirizzo del diritto naturale, per trovare in esso la giustificazione della libertà di pensiero, ma anche quella della pena di morte in difesa dell’ordine pubblico2

Nelle Lettere3Agostino evidenzia come il perdono possa avere conseguenze negative su chi, invece di correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua arroganza, oppure, correttosi nella sua condotta, induca tuttavia altri ad approfittare sperando in eguale impunità. Riprendendo il pensiero di S. Paolo, Agostino scrive: “Se fai il male, abbi paura, poiché l’autorità non senza ragione porta la spada; essa infatti è strumento per infliggere punizione ai malfattori in nome di Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De libero arbitrio che “se l’omicidio consiste nel distruggere o uccidere un uomo, talvolta si può si può uccidere senza commettere peccato; questo vale per il soldato col nemico, per il giudice o il ministro con coloro che fanno del male”.

In Agostino prevale la teoria della prevenzione come giustificazione della pena di morte. Una funzione prevalentemente retributiva, oltre che emendativa e di prevenzione, ha, invece, la pena di morte per S. Tomaso, che nella Summa theologica (II, II, q. 68, a.1) giustifica la pena come vendetta che si esercita sui malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio e nella Summa contra Gentiles (III, cap. 146), dopo aver scritto che la vita del delinquente deve essere sacrificata, allo stesso modo in cui “il medico taglia a buon diritto e utilmente la parte malata, aggiunge che “uccidere un uomo che pecca può essere un bene come uccidere un’animale nocivo. Infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo di un animale nocivo”. Vi è dunque da domandarsi quale credibilità possa avere oggi la Chiesa, che, rinnegando circa 2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha abolito nel 1999 dal Catechismo la pena di morte. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale (dettata dal sentimento), ma è di fatto espressione di inferiorità giuridica, causata dalla corruzione del diritto da parte della morale.

Montaigne nei Saggi (1580) scrive, giustificando la pena di morte, che “non si corregge colui che è impiccato; si correggono gli altri per mezzo suo”. Tale giustificazione prescindeva da una concezione retributiva, e perciò da diritto naturale, perché Montaigne, esprimendo un relativismo culturale, faceva discendere le leggi dal costume di un popolo, scrivendo che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono invece dal costume…Per cui accade che quello che è fuori dai cardini del costume lo si giudica fuori dei cardini della ragione”.4 Non si capisce pertanto come egli potesse pretendere di impiegare la ragione per giudicare i costumi. conseguiva Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (1749), dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei poteri, scrive che “la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è come il rimedio della società malata”.

Rousseau nel Contratto sociale (1762) considera la pena di morte entro una concezione retributiva sul presupposto che il cittadino è obbligato ad obbedire alla volontà generale (della maggioranza) quale condizione della conservazione del patto sociale, che implica la conservazione della vita dei contraenti. Ma chi vuole conservare la vita con il contributo degli altri deve essere anche disposto a morire dal momento in cui cessa di essere membro della società perché ne è divenuto nemico con il suo delitto. La conservazione della società in tal caso è incompatibile con quella del criminale.

Scrive Rousseau nel Contratto sociale che “è appunto per non essere vittime di un assassino che noi consentiamo a morire se diventiamo tali…Ogni malfattore diviene a causa dei suoi delitti nemico della patria; cessa di esserne membro; a questo punto la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca”.

Ha scritto Kant: “Se poi egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro surrogato che possa soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una vita per quanto penosa e la morte; e di conseguenza non esiste altra eguaglianza tra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale” (Metafisica dei costumi, parte II, sez. I, nota). 5

E Schopenhauer, utilizzando contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello stesso Kant (“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto come mezzo”, osservava, rincarando la dose, che essa era infondata alla luce della giustificazione della pena di morte: “A quella formula ci sarebbe da obiettare che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente, soltanto come mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile per confermare alla legge, se attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il suo fine”.6 In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte dell’umanità, e dunque la sua vita cessa di essere un fine per diventare solo un mezzo della forza deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da qualsiasi concezione utilitaristica della pena, come quella di Schopenhauer, che vedeva nella pena un mero mezzo per ottenere un bene per la società. Per Kant è lo stesso delitto che richiede una proporzionata pena come imperativo categorico non potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio che serva da deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte si giustifica sulla base della considerazione che l’uomo, anche quando è un criminale, non può mai essere considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe richiedere per sé la pena di morte per riscattarsi come uomo.

Verso la fine del ‘700 Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi del diritto penale (1791), considerando che il diritto penale trova la sua giustificazione nella difesa della società e nella salvaguardia dei cittadini, ritenne che la pena giusta fosse quella che meglio garantisse la conservazione dei cittadini. Pertanto qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria sulle pene capitali (1830) scrisse che “non si tratta più di vedere se esista il diritto di punire sino alla morte: ma bensì se esiste il bisogno di esercitare questodiritto…Chi commette un delitto commette un’azione senza diritto…Dunque il male irrogato per difesa necessaria al facinoroso è un fatto di diritto. Dunque se questo male dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso, questa morte sarebbe data con diritto…Voler poi negare indefinitivamente questo bisogno sarebbe lo stesso come dire in chirurgia non potersi dar il caso di dover fare l’amputazione di un membro”. Romagnosi riteneva che la galera, pur senza lavoro, fosse per molti non un castigo ma un premio.

Hegel vide nel delitto il prevalere della volontà del singolo sulla volontà universale, per cui la pena consiste nel rovesciare la volontà del reo restaurando la volontà universale, che non significa recuperare il delinquente.7

In Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Hegel espose, come Kant, una concezione retributiva della pena, che ha la funzione di restaurare l’ordinamento violato. Criticando anch’egli, come Kant, Beccaria, ricononobbe allo Stato il diritto di applicare la pena di morte, giacché “l’annientamento del diritto è taglione, senza per questo essere vendetta”.8

L’abolizionista si trova in compagnia di Robespierre, che, prima di cambiare idea pochi anni dopo, scriveva nei Discorsi sulla pena di morte, avvalendosi dell’argomento del possibile errore giudiziario, che la pena di morte era un eccesso di severità, e precisava: “un vincitore che tagli la gola ai suoi prigionieri è definito un barbaro”. Egli si poneva contro il Codice penale approvato dall’Assemblea costituente nel 1791, che riconfermava la pena di morte prevista dalle leggi dell’ancien regime. L’abolizionista si trova in compagnia anche dell’anarchico Max Stirner, che nell’opera L’unico e la sua proprietà 9 concepiva il diritto come come legato all’arbitrio del singolo, sì da poter scrivere: “Se tu riconduci il diritto alla sua origine, in te, esso diventerà il tuo diritto, e sarà giusto ciò che per te è giusto”. La conseguenza è che per Stirner il crimine esiste soltanto perché esiste il dominio della legge che si ammanta di sacralità, e non viceversa, e la punizione si giustifica soltanto perché lo Stato si arroga il diritto di esercitare una vendetta chiamata punizione. Si può vedere come il ragionamento degli abolizionisti nasconda le stesse premesse di una concezione anarchica dello Stato, il cui diritto di punire si fonderebbe unicamente su una pretesa sacralità della legge. Stirner non si avvide che, partendo dalla sua concezione anarchica dell’individuo, a difesa dell’unicità della vita, intesa come espressione di solo egoismo, avrebbe dovuto ritenere normale l’omicidio, e innaturale l’intervento della legge a difesa della vita dello stesso egoista. L’assolutizzazione dell’individuo porta a giustificare, contraddittoriamente, il suo annullamento sulla base di una concezione della legge intesa come espressione della forza, e non come difesa del diritto naturale all’autoconservazione.

Il famoso Dei delitti e delle pene (1764) di Beccaria nell’escludere la pena di morte esprime una concezione contrattualistica e utilitaristica della legge,10 e pertanto non può che escludere una concezione retributiva della pena. Secondo Beccaria dal contratto sociale non deriva il diritto dello Stato di applicare la pena di morte perché gli uomini non possono avere contrattato ciò, dando agli altri il potere di ucciderli. Ma si noti come l’affermazione di Beccaria sia, oltre che illogica, soltanto una petizione di principio. Infatti gli uomini che avessero escluso la pena di morte sin dalla fase del contratto sociale per timore di essere uccisi avrebbero ammesso di aderire contraddittoriamente (perché in malafede) al contratto, avendo già d’allora intenzione di uccidere, mentre il contratto nasceva perché nessuno potesse più rimanere vittima degli altri. Chi non avesse avuto intenzione di uccidere non avrebbe avuto paura di richiedere allo Stato la pena di morte, per maggiore tutela della propria vita, ma, al contrario, l’avrebbe impedita chi avesse avuto in animo di uccidere, pur aderendo al contratto. Perciò l’esempio di Beccaria giustifica solo la malafede.

Per Beccaria la pena ha la funzione di distogliere gli altri dal commettere eguale reato, mentre gli è estranea una concezione emendativa della pena, che serva al reo per redimersi. Ma si tratta di una giustificazione logicamente insostenibile, giacché 1) o tutti si dovrebbero sentire distolti; 2) o la pena non serve a tutti quelli che non si siano sentiti distolti, mentre per tutti gli altri sarebbe inutile.

La pena serve soltanto a quelli che non si sentano distolti. Ma questa è una tautologia che non spiega alcunché.

Le argomentazioni di Beccaria contro la pena di morte sono dunque risibili. Egli scrive: “Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi…Non è dunque la pena di morte un diritto…ma è una guerra della nazione con un cittadino, che giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere”. Quale enorme confusione di idee! Da una parte un assassino viene considerato moralisticamente simile alla vittima innocente, dall’altra si presenta come negativo ciò che è positivo, che lo Stato, come in una guerra, ritenga necessario o utile usare le armi da guerra contro il nemico. L’argomentazione di Beccaria si rivolge contro di lui. Ma lungi da qualsiasi considerazione filosofico-umanitaria l’illuminista Beccaria è indotto a chiedere per il carcere perpetuo “una schiavitù perpetua! “fra ceppi o le catene”, in cui “il disperato non finisce i suoi mali”, come, invece, con la pena di morte. Beccaria condanna lo Stato che compra le delazioni e impone taglie: “Chi ha la forza di difendersi non cerca di comprarla. Di più, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono…Invece di prevenire un delitto, ne fa nascere cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte”.11 D’altra parte, Beccaria (Dei delitti e delle pene, cap. XXVII) continuò a giustificare la pena di morte se “la morte di qualche cittadino diviene necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini tengon luogo di leggi”.

Bisognerebbe dunque concludere che Beccaria non sarebbe oggi contrario alla pena di morte almeno per i delitti di mafia, in cui “i disordini tengon luogo di leggi”, o contro i trafficanti di droga, cioè di morte, siano collegati o non con la mafia. La mafia non può essere combattuta democraticamente, ma sospendendo nelle regioni mafiose ogni forma di rappresentanza politica, esposta localmente ai ricatti mafiosi, e ogni forma di garanzia costituzionale nei confroni delle famiglie mafiose, a cui soggiace anche tutto l’apparato giudiziario, dalle guardie carcerarie ai direttori delle carceri sino ai magistrati che dovrebbero giudicare i criminali mafiosi, i quali smetterebbero di comandare e ricattare anche dal carcere soltanto se venissero giustiziati con la pena di morte. Soltanto da morti non potrebbero più comandere e ordinare altre uccisioni. Si sa quali sono le famiglie mafiose, e quando si peschi dentro di esse si pesca sempre bene, senza andare per il sottile. Uno Stato che non voglia intendere ciò è o buffone o connivente con questa feccia di specie soltanto biologicamente umana. Merito principale di Beccaria è l’avere evidenziato la necessità di “una proporzione tra i delitti e le pene”. Ma proprio tale proporzione sarà rivendicata da Kant contro Beccaria per giustificare la pena di morte.

Oggi nella dottrina penale americana prevale una concezione retributiva della pena che giustifica la posizione di Kant basata sul principio di eguaglianza. La legge del taglione (lex talionis) raccomanda di “fare agli altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della regola aurea secondo cui bisogna “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In base alla lex talionis si ripristina l’eguaglianza che è stata turbata dal crimine E’ questa la tesi di J. H. Reiman.12 In base a tale principio il crimine è un attacco alla sovranità dell’individuo che pone il criminale in una posizione di illegittima sovranità su un altro. La vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare la posizione del criminale riducendone la sovranità nello stesso grado. La vittima avrebbe avuto il diritto, ma non il dovere, di perdonare a chi ha attentato al suo diritto naturale, ma rispettando il principio che la vita della vittima non possa essere valutata come inferiore rispetto a quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo (che in Italia non esiste più) non sarebbe in accordo con il principio di umanità della pena e dell’ipocrita funzione rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un processo nel quale la vittima non può più udire la propria voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il suo delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno un po’ di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo priva di una parte della sua vitalità…L’esclusione della pena di morte per omicidio è un portato di maggiore civiltà o non è invece il segno di una minore sensibilità morale e di una meno chiara percezione del vero?…Chi con deliberato proposito uccide un uomo deve essere a sua volta ucciso dalla società costituita, che non può sottrarsi al suo obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che chi uccida non venga a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena di carcere che sarà mite in ragione di come saprà difendersi contro un morto”,13 grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo di turno pronto a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole spesso dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse incapace di intendere e volere. Ma poi riacquista sempre la lucidità! Si pretende assurdamente che il criminale si riconcili con la società senza tenere in alcun conto la vita dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che ipocritamente o disonestamente tengono in minor valore la vita umana, stando a difesa degli assassini. Questo discorso vale anche per Amnesty International, che, come direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del cuore” (Lineamenti di filosofia del diritto, pref. ): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono di avere un cervello migliore di quello di tutti i pensatori che abbiamo citato. E, a parte la giustizia che bisogna rendere alla vittima, anche se morta, vi è un superiore interesse della società a liberarsi degli assassini che a ritenere “sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita di un criminale.

T. Sellin14volle dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli Stati Uniti non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte per omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,15 che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre, avvalendosi di diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il periodo 1935-69 ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il verificarsi di sette o otto omicidi in più. Infatti il criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua condotta al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte diminuisce il desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono argomenti utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di quella della sua vittima.

Chi è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i mass media, operando una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità giuridica. Da notare come gli stessi mass media, essendo totalmente privi di alcuna capacità o volontà di discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale nasce soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la telecamera per far vedere il condannato che soffre o l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto che non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta che non esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha seri argomenti contro di essi.

Sia almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia disposto a perdonare il suo eventuale assassino, perché lo Stato non si sostituisca alla volontà della vittima innocente.16 E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad anticipare la vittima.17 Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una sentenza.
1 Carlo Nicoletti, Sì, alla pena di morte?, Cedam 1997, p. 60. L’autore soltanto per ragioni di cautela ha preferito aggiungere il punto interrogativo al titolo del suo testo. Egli ritiene che la concezione emendativa, cioè quella che pone come scopo della pena il recupero del colpevole, sia profondamente utopica e ipocrita perché non tiene conto delle condizioni e dei luoghi di pena, per cui “una carceraria città del sole costituisce niente di più che una contraddizione in termini” (p.9). Tale concezione è soltanto una dichiarazione di intenti, in quanto “il ravvedimento è sempre e comunque un fatto individuale” (p.11). Quanto alla concezione della pena come prevenzione, essa è cinica, perché, prescindendo da ogni implicazione morale, ha come fine quello di isolare chi costituisce un attentato all’ordine sociale. Tuttavia l’autore, professore di diritto processuale civile a Cagliari, ritiene che quest’ultima concezione “è quella che perfettamente si attaglia alla pena di morte” (p. 16), quando pare, invece, evidente che sia la concezione retributiva, per la corrispondenza che essa richiede tra il delitto e la sua punizione. L’autore precisa che la pena non può essere assimilata alla vendetta perché quest’ultima può essere accompagnata dal piacere di restituire il male. Ma allora dovrebbe escludersi anche il piacere della giustizia.



2 Sulla pena di morte nella storia occidentale cfr. di Alberto Bandolfi Pena e pena di morte. Temi etici nella storia, Edizioni Dehoniane 1985; di Italo Mereu La morte come pena. Saggio sulla violenza legale, Donzelli 1982. L’esame che quest’ultimo testo fa di tutti gli eccessi, non escluse diverse forme di tortura, nell’applicazione della pena di morte come uso politico per sbarazzarsi degli avversari non deve essere confuso con il discorso sui principi.

3 Agostino, Lettere, II, Città Nuova, 1971, pp. 541-47.

4 Saggi, Adelphi, 1982, p. 150.

5 Kant (ibid.) accusò Beccaria di “affettato sentimentalismo”.

6 Il fondamento della morale, op. cit., p. 164.

7 Filosofia dello spirito jenese, Laterza 1984, p. 139

8 E’ evidente che Hegel, distinguendo la legge del taglione dalla vendetta, considera quest’ultima soltanto come espressione di una punizione privata, che può non rispettare la proporzionalità tra delitto e pena. Ma in sostanza anche la pena comminata dallo Stato non può non essere considerata anch’essa una vendetta, se la pena rientra in una concezione retributiva come quella di Hegel.

9 In Gli anarchici, a cura di G.M Bravo, Adelphi 1970, pp. 510 sgg.

10 Il contrattualismo non implica necessariamente l’utilitarismo come negazione di un diritto naturale. In Hobbes, per esempio, la concezione contrattualistica si accorda con quella utilitaristica, ma anche con una concezione giusnaturalistica che vede la legge naturale non dipendere dal contratto ma precederlo. Così in Locke la concezione contrattualistica si accorda con il diritto naturale alla libertà e alla proprietà (Secondo Trattato del governo civile (a cura di Luigi Pareyson) , Utet 1982, pp. 229-63.

11 Oggi il riferimento fa all’impiego, da parte dello Stato, dei cosiddetti “pentiti”, premiati per le loro “confessioni”. E’ il risultato, direbbe Beccaria, di uno Stato che, non avendo la forza di difendersi, a causa del suo garantismo nei riguardi delle organizzazioni criminali, cerca di comprarla, mandando in rovina l’edificio dell’ordinamento giuridico, fondato sulla proporzionalità della pena al delitto.

12 Justice, Civilation and the Death Penalty, Justice 1991.

13 Carlo Cetti, Della pena di morte. Confutazione a Beccaria, Como 1960, pp. 12-13.

14 The Death Penalty, The American Law Insitute, Philadelphia 1959.

15 The deterrent effect of punishment: a question of life and death, American Economics Reviw, 65, 1975.

16 In questo senso si può ritenere ampliata la considerazione svolta da Platone nelle Leggi (IX, 869), dove è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) – il delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la madre) possa avere il tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso il patricidio (o matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto purificarsi.

17 Il nostro ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti (II Trattato del governo civile, II, 11), osserva, contro Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde il diritto alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo diritto si trasferisce da lui alla società. D’altra parte, non si aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la pena di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale. Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro cui si devono usare leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito equipaggiato al massimo con fucili da caccia. Poiché è impossibile estirpare la mafia con metodi democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte di altre regioni. Ha scritto Aristotele (Politica) che ogni popolo ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a comandare dal carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto significa corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà.