martedì 17 febbraio 2015

GIORDANO BRUNO MARTIRE DELLA LIBERTA' DI PENSIERO. OGGI RICORRE IL 415° ANNIVERSARIO DEL SUO MARTIRIO

Premetto che Giordano Bruno secondo me fece male a non ritrattare ciò per cui venne tenuto prigioniero in Vaticano per circa 8 anni. In questi anni non ebbe più la possibilità di leggere e di scrivere. Anni buttati via. Di fatto la sua attività di filosofo terminò all'età di 44 anni, essendo stato condannato al rogo a 52 anni nel 1600. Prima ritrattò, poi cercò di arrivare ad un compromesso, poi si pentì del compromesso e decise di non ritrattare più una sola frase di tutti i suoi scritti. Fece bene o fece male? Secondo me fece male. Io al suo posto avrei ritrattato tutto ciò per cui era stato accusato. Per una considerazione opportunistica. Ormai i suoi scritti erano stati stampati tutti anche fuori d'Europa e dunque non vi era il pericolo che di essi non rimanesse memoria. E poi si sarebbe potuto rifugiare in uno Stato europeo dove non avrebbe corso il pericolo di essere condannato al rogo una volta lasciata l'Italia. Avrebbe continuato a leggere e a scrivere altre opere, nonostante ne abbia lasciate così tante da indurre a pensare che ormai avesse espresso compiutamente il suo pensiero e non avesse più altro da aggiungere.
Galileo fece bene a ritrattare. Si salvò la vita e visse altri 10 anni che utilizzò per scrivere il suo capolavoro Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze. Si trattava della statica e della dinamica.

Quando nel mese di febbraio del 2000 pagai per mettere un necrologio in occasione del quarto centenario della morte di Giordano Bruno L’unione sarda, quotidiano di Cagliari, mi censurò una parte del contenuto perché conteneva un riferimento alla responsabilità della Chiesa cattolica. Non vi è libertà di pensiero in Italia.
Ciò che segue è tratto dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.

Nel libro di Giosuè si legge che Jahweh adempì alla richiesta di Giosuè di fermare il sole per un giorno perché gli israeliti avessero il tempo di portare a termine il massacro dei nemici (10, 12 sgg.). Sulla base di questa frase fu condannato Galileo. Se si contestualizza questo dio nel racconto del libro di Giosuè vi è da rimanere sconcertati nel domandarsi come si sia potuto credere per secoli, e si creda ancor oggi, che lo stesso dio che appare in detto libro quale ispiratore e mandatario di tutti i terribili massacri descritti nella Torah dagli israeliti per prendere possesso delle terre e delle città ad essi promesse dal loro dio – quello stesso dio che, mentre ordinava al sole di fermarsi, faceva cadere pietre contro i nemici degli israeliti (la scena è tragicomica) - potesse avere titolo per essere considerato Dio anche dai cristiani ed opposto come capo di accusa contro Galileo. La Chiesa cattolica ha dimostrato di essere stata ancora più ridicola del dio ebraico. Il racconto mitologico dell’arresto del sole ha arrestato in Occidente anche la conoscenza scientifica.

Non basta che la Chiesa abbia recentemente chiesto perdono per avere condannato Galileo,1 che comunque continuò a vivere, a studiare e a scrivere per altri dieci anni, anche se gli fu proibito di continuare a professare la teoria eliocentrica per salvare l’immagine ridicola di un dio di sangue che, mentre fermava il sole perché si compisse la strage attuata dagli ebrei, lasciava cadere pietre contro popolazioni che si difendevano. Si aspetta ancora che la Chiesa chieda perdono soprattutto per avere condannato al rogo per accusa di panteismo Giordano Bruno nel 1600 e Giulio Cesare Vanini nel 1619, a Tolosa, all’età di 34 anni, dopo che aveva pubblicato il De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis.

Allo stesso modo in cui i protestanti calvinisti dovrebbero chiedere perdono per avere mandato al rogo, nel 1553 a Ginevra, all’età di 42 anni, lo spagnolo Michele Serveto, a cui gli storici della scienza2 attribuiscono il merito di avere spiegato per la prima volta, nel Christianismi restitutio (1553), anche se per intuizione e non per pratica medica, l’effettiva circolazione del sangue ancor prima della trattazione scientifica che ne diede l’inglese Harvey del De motu cordis (1628), e a cui non fu perdonato di avere negato nella stessa opera la trinità. Come dovrebbero i calvinisti vergognarsi di avere decapitato a Berna, nel 1566, l’antitrinitarista Valentino Gentile, esule calabrese. Tralasciamo di nominare altri perseguitati meno noti. A questi pensatori non è stato ancora chiesto perdono perché o non sono famosi come Galileo, o perché, pur essendo famoso, Giordano Bruno non era uno scienziato. Eppure fu lui che - andando oltre Galileo, che riteneva ancora che il mondo fosse finito - concepì un numero infinito di sistemi solari, oltre l’antropocentrismo perdurante di Galileo.
1 Va ricordato che Copernico, di cui Galileo difese il sistema eliocentrico (esposto nel De rivolutionibus orbium coelestium, 1543), era un parroco polacco cattolico, che aveva studiato per circa 10 anni a Padova. La condanna ufficiale del sistema eliocentrico iniziò con la successiva Controriforma.
2 Cfr. per esempio Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450-1530 (1962), Feltrinelli 1973, pp. 226-30: A. Rupert Hall, La rivoluzione scientifica 1500/1800 (1954), Feltrinelli 1976, pp. 137-39. Su Serveto e su Socino, come su tanti altri cosiddetti eretici, cfr. per tutti Massimo Firpo Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna, Loescher 1993 (1978).,con antologia di testi degli “eretici” e con amplia bibliografia.

Ancor oggi non si capisce come Agostino non sia stato mai considerato un eretico dalla Chiesa cattolica. Egli avrebbe meritato il rogo più di Giordano Bruno, che, panteista, poteva essere considerato solo un nemico esterno alla Chiesa, non un eretico, e dunque non pericoloso, mentre è pericoloso l’eretico, che agisce dall’interno di una certa dottrina minandola in qualche suo presupposto dogmatico. La Chiesa cattolica, di fronte agli eccessi di Agostino - che erano gli stessi eccessi di S. Paolo – si limitò a moderarli con S. Tomaso, secondo cui la “grazia” è un aiuto in più che l’uomo ha ricevuto tramite il sacrificio della croce per operare il bene e meritare la salvezza con le opere. In realtà S. Tomaso era agli antipodi della concezione agostiniana, che privava Dio della razionalità del Verbo, che la Chiesa, da Nicea in poi, considerò coeterno con la volontà del Padre, per cui il Padre, la volontà, la potenza, non poteva, dall’eternità, decidere alcunché senza l’Intelletto del Figlio. Era la rivincita, ancora una volta, del razionalismo neoplatonico, filtrato attraverso Aristotele, di S. Tomaso, contro l’irrazionalismo ebraico di Agostino e di una faccia, quella irrazionalistica, dell’ebreo S. Paolo. E sarà la Controriforma cattolica che, ispirandosi a S. Tomaso, salverà la dottrina cristiana dall’irrazionalismo di Agostino e della Torah.

Ma in compenso, la vittoria della Torah con la Riforma protestante - che separò di principio la religione dalle sue commistioni con lo Stato, anche se di fatto i principi tedeschi riformati si fecero attivamente paladini della Riforma per ragioni politiche, cioè per rendersi indipendenti dal papato – si ritorse contro la stessa Torah, portando alla formazione dello Stato laico. 1 Come. d’altra parte, la vittoria del razionalismo cristiano vincente a Nicea salvò la ragione occidentale della filosofia greca - specialmente di Platone e di Aristotele - dall’irrazionalismo ebraico, ponendo le premesse delle due più grandi eredità che l’Occidente ha ricevuto dall’antichità classica tramite il cristianesimo: la rivoluzione scientifica del ‘600 e il diritto naturale del giusnaturalismo moderno entro la concezione di uno Stato laico.


1 Cfr. sull’argomento la classica opera di Roland H. Bainton, La Riforma protestante (1952), Einaudi 1958. 

Dalla verità scientifica, e perciò metaculturale, della discendenza dell’uomo da altre specie animali e della comune origine di tutte le forme di vita la “verità” del cristianesimo deve trarre coerentemente le conseguenze, avendo riconosciuto, con un intervento pubblico di Giovanni Paolo II nel 1996 la verità scientifica del darwinismo.1E da tale verità scientifica discende che, se esiste un diritto naturale, questo non può essere attribuito alla sola natura umana. Con le conseguenze di questa verità scientifica la Chiesa cattolica rifiuta ancora di confrontarsi sul piano dei diritti, con la conseguenza che il Dizionario di teologia morale del cardinale Francesco Roberti ripete la nauseante concezione secondo cui “l’ordine gerarchico delle creature, voluto dal Creatore, ha posto l’uomo re e quindi proprietario ed usufruttuario di tutti gli esseri inferiori. Gli zoofili perdono troppo di vista lo scopo per cui gli animali, creature irragionevoli, sono stati da Dio creati, cioè a servizio ed uso dell’uomo”.2

A questa concezione si può rispondere con una considerazione di Konrad Lorenz: “Neppure le conoscenze che fanno epoca, quelle di cui siamo debitori ad un Giordano Bruno o un Galileo Galilei, hanno avuto un profondo influsso sulla nostra concezione del mondo...Con troppa facilità gli uomini si considerano il centro dell’universo, qualcosa di estraneo e di superiore alla natura...Le grandi scoperte delle scienze naturali inducono l’uomo a un senso di umiltà: proprio per questo vengono avversate...La cosa più detestabile per l’uomo è sapere di non essere altro che un’escrescenza del grande albero della vita...”3
1 La divulgazione scientifica sull’evoluzione si è espressa recentemente nel volume di 764 pagine di Piero e Alberto Angela (La straordinaia storia della vita. Dalle prime molecole organiche all’uomo d’oggi, Mondadori 1999). Si tratta di un volume di facile lettura che espone con linguaggio piano difficili argomenti. Ma è un testo che, dovendo essere di divulgazione, offre solo indirettamente, e al lettore pienamente capace, motivi di riflessione filosofica. Gli autori, per esempio, citano la teoria di Ageno sull’origine della vita (p.40), ma si astengono dal riportare le considerazioni di Ageno sulla mancanza di un progetto nell’evoluzione. Quando viene citato Monod si sfiora appena l’incidenza del caso sull’evoluzione (p. 213). Tutte le più importanti fasi dell’evoluzione sono sempre ben correlate dagli autori con i mutamenti climatici della Terra. In tali occasioni gli autori sfiorano appena l’argomento della casualità, domandandosi: “Nel caso non si fosse verificata la catastrofe della fine del Cretaceo (con la loro conseguente estinzione di massa), i dinosauri avrebbero potuto dar luogo a una linea <>? (p. 310). Sarebbero stati capaci di trasformarsi in animali sempre più intelligenti, in un sapiens sapiens che avesse “una forma sostanzialmente equivalente a un Australopiteco” ? (p. 311). Gli autori avrebbero dovuto domandarsi anche che cosa sarebbe successo prima della formazione dei grossi rettili se, all’inizio del Triassico (240 milioni di anni fa) l’evoluzione dei terapsidi (cioè dei rettili che ormai avevano assunto la forma dei mammiferi) non fosse stata interrotta dai mutamenti climatici che hanno portato la Pangea – che aveva avuto precedentemente una diminuzione della temperatura tra la fine del Permiano e l’inizio del Giurassico (250 milioni di anni fa), favorendo l’espansione dei mammaliani - da un clima freddo ad un clima caldo e arido a causa dello scioglimento delle calotte polari ( p. 262), dando luogo ad un clima che, interrompendo l’evoluzione ulteriore dei terapsidi, riducendo i mammiferi a poche specie di piccola taglia, sopravvissute al margine dell’evoluzione dei dinosauri, ha favorito l’evoluzione dei rettili, meglio predisposti al clima caldo.

Né gli autori omettono che il nostro più lontano antenato può essere trovato nel Purgatorius (risalente a 70 milioni di anni fa), uno dei primi mammiferi, contemporaneo dei dinosauri, una specie di ratto piccolissimo che viveva sugli alberi, mangiava foglie, cortecce e granaglie (p.434).

Ma, come vi era da aspettarsi, gli autori preferiscono, per quanto riguarda l’uomo, la teoria secondo cui il sapiens sapiens non si sarebbe evoluto direttamente dall’erectus, già presente dall’Europa all’estremo Oriente, ma si sarebbe sovrapposto all’erectus partendo dall’Africa circa 100 mila anni fa, evitando di rispondere alla domanda riguardante la fine che avrebbero fatto tutti gli erectus,i cui ritrovamenti fossili giungono sino a 300 mila anni fa e che, bene adattati su tutta la Terra, erano capaci ormai di dominare con la loro intelligenza sotto tutti i climi. Gli autori si limitano a scrivere che le popolazioni di sapiens sapiens “si sostituirono alle antiche popolazioni, là dove esistevano, cancellandole geneticamente” (p. 695). Che significa “cancellandole geneticamente”? E’ impossibile pensare che i sapiens sapiens abbiano eliminato fisicamente tutti gli erectus, dati i grandi spazi dall’Europa all’Asia e data la scarsa popolazione di allora. E’ stato calcolato da Edward S. Deevy che “300 mila anni fa nel mondo vivevano circa un milione di individui e che 25 mila anni fa la cifra, secondo le sue stime, era salita a oltre 3 milioni e 300 mila” (p. 672). Si potrebbe pensare che si siano fusi geneticamente con gli erectus. Ma anche in tal caso vi sarebbe stata un’evoluzione <> del sapiens sapiens, con evoluzioni locali. Gli autori non hanno tenuto presente nel loro testo (privo di bibliografia) che sono stati trovati a Petralona (Grecia) e a Steinheim (Germania) crani di homo sapiens arcaico risalenti rispettivamente a 350 mila e 200 mila anni fa. Crani simili sono stati trovati in Cina (Niles Eldredge e Iam Tattersall, I miti dell’evoluzione umana, Boringhieri 1982, pp. 158 sgg.). Più in generale, il sapiens arcaico copre abbastanza bene, sia in Europa che in Asia, la distanza tra l’erectus e il sapiens sapiens. Se ne deduce (op. cit., p. 164) che “le fluttuazioni climatiche del tardo Pleistocene devono aver fornito condizioni ideali per la frammentazione e l’isolamento delle popolazioni ominidi di tutto il globo, con successive differenziazioni locali tra popolazioni, che possono essere accompagnate o non da speciazioni”. D’altra parte, come spiegare l’assenza in Africa dell’uomo di Neanderthal e la sua presenza in Europa e nel Medio Oriente se non supponendo che l’evoluzione dall’erectus fosse già iniziata fuori dell’Africa? Contro la teoria del “collo di bottiglia”, formatosi in Africa, che avrebbe dato luogo al sapiens sapiens (teoria dell’Eva nera) si era già espresso il genetista Theodosius Dobzhansky (L’evoluzione della specie umana, 1962, Einaudi 1965, pp. 192 sgg.), che definisce “ le razze reliquie dello stato preculturale dell’evoluzione” (p. 275). Ma gli Angela preferiscono riferirsi alle conclusioni del genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, che, sulla base dell’analisi delle mutazioni (tra il 2% e il 4% ogni milione di anni) del DNA mitocondriale, che si trasmettono solo alla femmina, avrebbe dedotto che il ceppo ancestrale di tale DNA sia africano e debba risalire ad un periodo tra i 140 mila e i 200 mila anni fa. Conclusione che contrasta con gli studi di paleontologia di Carleton Coon ( Origin of Races, 1962), secondo cui il sapiens sapiens deriverebbe da distinte evoluzioni dell’erectus nei diversi continenti.

Ma anche sul piano dell’analisi genetica è risultato che le conclusioni di Cavalli Sforza non siano attendibili se si considera l’evoluzione che hanno subito alcune sequenze di amminoacidi, dopo che fu applicato lo stesso metodo di analisi che Frederick Sanger (premio Nobel) applicò per definire la sequenza dei 51 amminoacidi dell’insulina. Risultò che gli uomini differiscono dagli scimpanzé dello 0, 3, dai gorilla dello 0, 6, dagli oranghi del 2, 8, dai macachi del 3, 9 e dai cappuccini del 7, 6 (Sherwood L. Washburn e Ruth Moore, Dalla scimmia all’uomo, Zanichelli 1984, pp.10 sgg.). Non si vede dunque perché una lunga sequenza di DNA mitocondriale accertata in tutti i gruppi umani attuali, isolando quei geni che si ritiene presiedano soltanto ai caratteri secondari, debba far ritenere fondata un’origine comune dell’uomo moderno da un gruppo ancestrale africano, più di quanto una comunanza tra lo scimpanzé e l’uomo moderno abbia fatto ritenere comune la loro origine. Appare dunque ideologica l’affermazione di Cavalli Sforza (riportata dagli Angela) secondo cui il sapiens sapiens si sarebbe diffuso dall’Africa circa 60 mila anni fa. Dopo tale data, dicono gli autori, vi sarebbero state le prime costruzioni di zattere, con cui l’homo sapiens sapiens avrebbe incominciato a navigare tra le isole dell’Indonesia circa 40 mila anni fa. Ma agli autori è certamente sfuggita la notizia data da Michael L. Moorwood dell’Università del New England (Australia), e riportata da Angela M. H. Schuster in una pagina del domenicale Corriere della scienza del Corriere della sera del 1998 (di data che non siamo in condizioni di precisare), del ritrovamento di utensili nell’isola di Flores (Indonesia, gruppo delle isole Wallaca) risalenti a 800 mila anni fa, e perciò attribuibili all’erectus. Da tale ritrovamento risulterebbe documentata la capacità dell’erectus di navigare, con la conseguente smentita della convinzione che le prime imbarcazioni dovessero risalire ad un periodo compreso tra i 60 e i 40 mila anni fa, giacché l’isola di Flores rimase sempre separata dal resto dell’arcipelago per circa 19 km. La scoperta avvalora la teoria di Paul Sondar secondo cui gli uomini furono responsabili dell’estinzione degli elefanti nani (stegodonti). Questa notizia renderebbe infondata anche l’affermazione secondo cui le differenze razziali debbano essere fatte risalire ad un periodo successivo alla diffusione del sapiens sapiens dall’Africa a partire da 60 mila anni fa (p. 694).

Se l’origine del sapiens sapiens non fu policentrica, ma dovuta alla sua diffusione dall’Africa, come mai il sapiens sapiens africano è rimasto sempre alla cultura della capanna dei raccoglitori-cacciatori sino alla colonizzazione europea dell’Africa negli ultimi due secoli? Questa domanda attende ancora una risposta.

Inoltre abbiamo tratto noi alcune riflessioni dall’esposizione riguardante gli erectus. Gli autori scrivono che “le noci raccolte in una sola giornata forniscono energia per ben tre giorni. Mentre l’energia che si ottiene statisticamente da una giornata di caccia vale per un solo giorno” (p.597). Si aggiunge che “certe osservazioni fatte oggi sui Boscimani mostrano che il 70% della dieta proviene dalla raccolta, con sole dodici ore settimanali di lavoro da parte delle donne, mentre per ottenere il restante 30% con la caccia gli uomini debbono impiegare oltre ventun ore” (p. 606). Si può dire che l’uomo odierno sotto questo aspetto non sia diventato più intelligente dell’erectus e dei Boscimani, se si considera che preferisce destinare un ettaro di terreno a pascolo o a coltura di mangime per trarne 250 kg di proteine di carne piuttosto che trarre dalla stessa estensione 2500 kg di proteine vegetali per uomini e se si considera che per produrre una tonnellata di carne bovina occorre 70 volte più acqua di quanta ne occorra per produrre una tonnellata di cereali.

A parte quest’ultima nostra considerazione, gli autori non hanno messo in correlazione l’incongruenza del comportamento dell’erectus e dei Boscimani con il rilievo, da essi stessi fatto, che gli Australopiteci (sia africanus che robustus) erano vegetariani, come dimostrato dai grossi molari funzionali alla masticazione dei vegetali. L’homo abilis non fu mai cacciatore, ma integrò la dieta vegetariana con quella carnivora raccogliendo i resti di animali già morti. E ciò al fine di sopravvivere. Fu con l’erectus, e perciò con le prime manifestazioni culturali della specie homo, che l’uomo divenne carnivoro ponendosi in competizione con gli stessi carnivori nella caccia. Se ne dovrebbe dedurre che il passaggio dalla dieta vegetariana a quella anche carnivora fu un fatto culturale, e non naturale. L’organismo non era predisposto, anche considerando la dentatura, alla dieta dei carnivori. Ma fu questo un fatto casuale, che non è stato evidenziato dagli autori, nonostante essi abbiano ben evidenziato che l’evoluzione dell’uomo fu conseguente ad un fenomeno fisico casuale: l’essersi prodotta 10 milioni di anni fa una spaccatura, per attività vulcanica, che portò al sollevamento della terra lungo la linea dei grandi laghi, che percorre verticalmente l’Africa. Conseguentemente la zona orientale si inaridì, mentre quella occidentale rimase coperta da foreste. Questa divisione portò ad adattamenti diversi, perché ad ovest rimasero le scimmie, mentre ad est, nella zona arida delle savane emersero i primi ominidi ( p. 436). Se è così, anche questo fatto dovrebbe denotare l’incidenza della casualità sulla formazione dell’uomo. Ma gli autori hanno taciuto su questo aspetto, pur apparendo chiara la casualità dalla loro stessa esposizione.

E tuttavia, nel considerare tutti i possibili fattori che hanno favorito l’evoluzione dell’uomo, gli autori hanno ritenuto che essa non sia stata la conseguenza dell’instaurarsi dell’abitudine di procurarsi carne con la predazione, come conseguenza, a sua volta, dell’uso di strumenti necessari per tagliare la carne (questa era la spiegazione che Engels aveva dato, come si è visto, dell’evoluzione del cervello umano, facendola dipendere dal consumo della carne), ma, giustamente, dal precedente sviluppo del cervello per l’aumentato volume e per la maggiore quantità di connessioni neurali, anche se si può riconoscere un processo di feedback.

Sarebbe stato interessante ed educativa la promozione da parte degli autori, famosi personaggi della TV per le loro benemerite trasmissioni di divulgazione scientifica, di un dibattito in TV, su questi argomenti, con i teologi. A tale dibattito dovrebbero partecipare anche dei cosmologi, considerando la questione essenziale dell’origine dell’Universo. Gli autori, infatti, hanno scritto che il modello cosmologico del Big Bang, in base al secondo principio della termodinamica, dovrebbe condurre l’espansione attuale dell’Universo alla sua fine, con lo spegnimento di tutti i soli (p. 392). “ A meno che ... l’ Universo finisca per concentrarsi nuovamente in una condizione di altissima densità e temperatura, forse dando luogo a un’altra esplosione, a un altro Big Bang. E’ solo un’ipotesi, ma è ovvio che è molto più attraente della prima”. Gli autori hanno mancato di aggiungere (come prevedibile) che soltanto questo modello, da noi esaminato ampiamente nel testo, potrebbe spiegare l’espansione attuale dell’Universo senza ricorrere alla creazione divina. E’ infatti incontrovertibile che una fine dell’Universo implica, come premessa, un inizio assoluto di esso. Da parte nostra proponiamo ai possibili partecipanti al predetto dibattito di porre in correlazione l’incidenza fondamentale della casualità sull’evoluzione biologica con il modello cosmologico. Ed è evidente il motivo. I cosmologici e gli astronomi atei (come Margherita Hack) che non accettano il modello della successiva contrazione dell’Universo non possono sottrarsi alla domanda “e prima del Big Bang?” se non dando spazio ad un inizio assoluto dell’espansione dell’Universo, e perciò alla creazione divina. Né possono i cosmologi nascondere la testa sotto la sabbia limitandosi ad affermare che la domanda è priva di valore scientifico, come la stessa Hack ha affermato in una conferenza a Cagliari (fine anni ’80) di fronte alla domanda da noi stessi posta. Un inizio assoluto dell’espansione dell’Universo comporterebbe una interpretazione finalistica dell’evoluzione della vita. Non si può negare che gli argomenti siano filosoficamente, oltre che scientificamente, correlati. Ma un’interpretazione non finalistica dell’evoluzione, che è l’unica scientificamente accreditata, sarebbe in contrasto con il modello cosmologico dell’inizio assoluto dell’Universo, senza ritorno ad un nuovo Big Bang. Tranne che in futuro si trovi un modello che superi quello facente capo al Big Bang e alla conseguente espansione dell’Universo.

La necessità di una correlazione tra il tema dell’evoluzione della vita sulla Terra e quello riguardante l’inizio dell’espansione dell’Universo non è mai stata sinora percepita, e perciò non è mai stata affacciata. Sono questioni che, invece, appaiono connesse.

Quali siano i motivi che abbiano impedito sinora un simile dibattito alla TV è facile immaginare. Così si continua ad alimentare quella sorta di schizofrenia in cui vive oggi, pur non a livello di coscienza, la persona di media cultura, a causa della scissione tra scienza e religione. Il libro di Piero ed Alberto Angela è una mancata occasione per far valere chiaramente una concezione della natura che non sia antropocentrica, per tutti i riflessi negativi che ha avuto ed ha l’antropocentrismo, alimentato soprattutto dalle religioni, sulle condizioni della vita sulla Terra. Basti pensare al problema demografico. Ma il termine “antropocentrismo” non appare nemmeno una volta nel libro, pur essendo esso, in tutta la sua esposizione, un manifesto, se pur sottinteso, contro l’antropocentrismo.

2 Ediz. Studium, Roma 1961. Nessun progresso rispetto a questa concezione è stato fatto nella rivista dei gesuiti Civiltà cattolica ( 7 novembre 1992) né nel Catechismo della Chiesa cattolica (1999), pp. 342-43.

3 Das Wirkunsgefuge der Natur und das Schicksal des Menschen, Munchen, p. 42.
 
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