domenica 13 agosto 2017

LE FARNETICANTI GIUSTIFICAZIONI DELLA MACELLAZIONE EBRAICA

Chi ci ha denunciato per avere manifestato “il completo disprezzo, l’odio e il discredito nei confronti dell’intera popolazione ebraica” avrebbe dovuto conoscere la frase da noi riportata in corsivo prima di scrivere che il Levitico è “un libro oggetto di studio da migliaia di anni per una vasta rappresentanza dell’intera umanità, ovvero oggetto di culto nelle funzioni religiose per tantissimi fedeli di diverse confessioni, così per gli ebrei oggetto di devozione e sentimento religioso profondo e radicato”.  Infatti quanto noi avevamo scritto, riferendoci agli ebrei credenti, non a tutti gli ebrei, è concettualmente identico al contenuto della suddetta frase. Chi ha mentito sapendo di mentire, cadendo nel ridicolo - perché da quanto abbiamo precedentemente esposto risulta unicamente il nostro lecito disprezzo per certi contenuti della Torah, come quelli del Levitico - è incapace, perché avente i sensi ottusi dal pregiudizio e dalla superstizione religiosa, di riconoscere almeno che le pratiche descritte nel Levitico appaiono assai datate e che da allora solo il fanatismo religioso potrebbe farle ritenere attuali pretendendo che nei mattatoi si pratichi ancora il barbaro rituale ebraico-islamico. Lo disse già l’ebreo Robert Kaplan, citato da Patterson: gli ebrei credenti hanno sofferto a causa dei nazisti quanto soffrono tuttora gli animali nei mattatoi a causa degli ebrei credenti. E degli islamici. Chi si assomiglia si piglia!

E quanto al rabbino di Roma, che ha provocato due interpellanze parlamentari contro noi, è bene che si sappia quanto questo individuo è stato capace di scrivere: “ Nel pensiero biblico mangiare carne è considerato non come un diritto scontato, e un fatto naturale, ma come un atto che comporta la violazione di un ordine e che può essere lecito solo a determinate condizioni…il permesso di mangiare carne segnala la posizione dell’uomo al vertice della scala del creato, dato che in natura ogni essere vivente si nutre di alimenti che sono rispetto a lui in una posizione gerarchicamente inferiore. In armonia con questa spiegazione un principio rabbinico vieta agli ignoranti di mangiare carne; come a dire che soltanto l’uomo che con la ragione dimostra la superiorità sugli animali ha diritto di sfruttare (sic!) il mondo animale”.[1]

Si dovrebbe commentare dicendo che il rabbino capo di Roma per coerenza non dovrebbe mangiare carne, avendo dimostrato di essere troppo ignorante nel suo appellarsi ancora ad una concezione gerarchica, e perciò antiscientifica, della natura ricavata dal testo nefando della Torah. All’ignoranza si aggiunge una perfida e smaccata ipocrisia tipica dell’ebreo osservante che può giungere anche ad affermare che “l’uccisione di qualsiasi essere vivente viene vissuta con un senso di colpa. Lo stesso sacrificio, alle sue origini, avrebbe questo senso di colpa come uno dei suoi moventi fondamentali. L’offerta dell’animale alla divinità non è il fine ultimo dell’azione, ma il mezzo per consentire all’uomo il consumo delle carni dell’animale”. Infatti, “se la morte dell’animale è un dono alla divinità, non dà più origine ad un senso di colpa. Successivamente il sacrificio avrebbe acquisito significati più ampi, di espiazione non solo dalla morte dell’animale sacrificato, ma di tutte le colpe commesse; ed è con questi significati che fu accolto e celebrato dagli ebrei”.

 Ciò significa, incredibilmente, che l’ebreo osservante può persino convincersi di soffrire meno delle sue colpe, scaricandole sul povero animale, che certamente non soffre meno se viene immolato al dio sanguinario dell’ebreo credente. A parte ciò, se nel terribile passo citato non dominasse una spietata ipocrisia, che dominò sempre il culto esterno nella ritualità degli ebrei osservanti, tanto da costringere Gesù ad inveire contro di loro chiamandoli “sepolcri imbiancati”, perché credevano di purificarsi la coscienza dal peccato sacrificando animali, invece di rigenerarsi moralmente, varrebbe, in alternativa, la buona fede degli uomini primitivi, che, come si dirà meglio appresso, dopo avere ucciso un animale o un nemico, giungendo anche a forme di cannibalismo, credevano di poter farsi perdonare adorando gli spiriti delle loro vittime. All’origine della Torah vi è la stessa prassi del primitivo. Ciò che stupisce è che l’ignoranza ancor oggi possa far credere che la Torah sia un testo degno di rispetto nonostante le sue nefandezze. 

Seguiamo ora le istruzioni da macellatore del rabbino capo di Roma. Egli scrive, sapendo di mentire, che la recisione delle arterie carotidi e delle vene giugulari (senza previa perdita della coscienza da parte dell’animale) “sospende immediatamente (sic!) la maggior parte del flusso cerebrale e determina entro 5-6 secondi una brusca caduta della pressione arteriosa;…La perdita della coscienza, che rende impossibile la sensazione del dolore, si verifica quando il flusso cerebrale è del 50%. La pressione nei ventricoli cerebrali si abbassa ancor più rapidamente iniziando dalle aree corticali; entro 8-10 secondi dalla shechitah (cioè dal “rituale” colpo di coltello) i centri regolatori dell’equilibrio, che hanno sede nel cervelletto, cessano le loro funzioni; la percezione del dolore, che è controllata dalla corteccia cerebrale, cessa ancor prima. Per l’uomo si decide che l’anossia (mancanza di ossigeno) nel cervello è un modo piacevole di perdita di coscienza”. 

Di fronte a simile sconcertante considerazione dovrebbe ritenersi, allora, che sarebbe stata altrettanto piacevole per il rabbino di Roma, come per tutti gli ebrei osservanti, la perdita di coscienza nelle camere a gas in meno di un minuto. Non contento di ciò il rabbino di Roma fa riferimento ai “potenziali elettrici cerebrali” che sarebbero stati misurati con l’elettroencefalogramma (EEG) subito dopo la shechitàh, per concludere che essi “perdono il loro aspetto normale e continuano per un certo periodo; ma lo stesso avviene con altri metodi di macellazione, compresi quelli che ledono direttamente il cervello…Alcuni valutano che la mancanza di coscienza si verifichi dopo 7,5 secondi (notare la precisione!) dalla shechitàh”.  Ma stupidamente egli riconosce che “i potenziali evocati – registrati in aree particolari del cervello in risposta a determinati stimoli, visivi tattili, etc.) – persistono dopo la shechitàh almeno per 20 secondi, talora fino a 120”. E di fronte alla possibilità che qualcuno ritenesse crudele tale pratica anche nel caso di una perdita di coscienza che durasse, per dissanguamento, 2 minuti, l’ineffabile rabbino capo si appresta a precisare che “la presenza di una risposta (tattile e visiva) – e, aggiungiamo noi, con disperati tentativi di movimento del povero animale legato per terra su un fianco destro, come impone l’altra barbarie, purtroppo più frequente, degli islamici, assai più numerosi in Occidente, ed eredi anch’essi della barbarie della Torah – non significa necessariamente presenza di coscienza, né tanto meno di percezione del dolore…oggi non c’è alcun metodo scientifico per poterla accertare o negare con sicurezza”. E così il rabbino crede di salvarsi con il beneficio del dubbio, credendo di rivolgersi a degli idioti.






[1] Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, Ed. Lamed Roma 2000. Le pagine illustranti la sconcertante difesa della macellazione ebraico-islamica, tratte dal testo citato del rabbino di Roma,  sono comprese nella documentazione giuntaci dall’associazione Animalisti italiani.        


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