lunedì 13 gennaio 2020

DIFFERENZA TRA BRIGATE ROSSE E TERRORISTI

Il 30 aprile 1980 in qualità di docente di storia della filosofia presso la Facoltà di Magistero (ma provenivo da una laurea in Filosofia nella Facoltà di Lettere e filosofia) tenni nell'Aula Magna delle Facoltà di Lettere e Magistero una conferenza sul tema: "Marxismo, irrazionalismo e violenza: un nodo non risolto?" Si trattava di un ciclo di conferenze tenute in un giorno precedente al mio e nei giorni seguenti sino al 5 giugno impostate sul titolo: La violenza nei conflitti sociali e nella società. Intervenne l'8 maggio il deputato radicale Marco Boato sul tema "Movimento studentesco e nuova sinistra: violenza politica e rivoluzione nelle ideologie del Sessantotto". Dopo di lui il 15 maggio intervenne Giampiero Cella, ordinario di Sociologia economica nella Facoltà di Magistero di Cagliari sul tema "Dieci anni di conflittualità sociale; le lotte sindacali, i valori della solidarità operaia,la violenza in fabbrica". Dopo ancora il 22 maggio fu la volta del prof. avv. Luigi Concas, docentedi diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari sul tema: "Disgregazione economico-sociale, violenza politica, criminalità; il caso della Sardegna". Dopo di lui  il 29 maggio Luigi Bonanate ordinario di relazioni internazionali nella Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Torino sul tema: "Il terrorismo politico organizzato: radici, motivazioni, scopi". Per ultimo Salvatore Mannuzzu, magistrato e deputato al Parlamento sul tema "Terrorismo, società, istituzioni". 
Il mio intervento, pur non essendo io marxista, fu impostato sulla linea di confine e demarcazione tra terrorismo e marxismo. Potevano le Brigate Rosse essere considerate terroriste? NO. Esse non facevano attentati gettando bombe ma ferendo o uccidendo singoli individui ritenuti esponenti di uno Stato che essi combattevano politicamente con la violenza armata. Si astennero dal coinvolgere negli attentati persone che non fossero di un certo rilievo nello Stato evitando i veri e propri atti terroristici che, in quanto tali, potessero fare vittime nella folla (come la strage della Banca dell'agricoltura a Milano, quella di piazza della Loggia di Firenze o della stazione di Bologna, con decine di vittime o quella del treno Italicus). Pertanto in senso stretto non potevano definirsi terroristi. Tipico il caso del sequestro di Moro con l'uccisione della sua scorta e la successiva uccisione di Moro. Essi furono definiti da molti comunisti compagni che sbagliano. In che cosa sbagliavano? Potevano definirsi rivoluzionari? Nemmeno.                
Si tratta solo di una differenza di numero. Chi combatte con le armi contro lo Stato è nemico dello Stato costituito, a cui ne vuole sostituire un altro. Allora una delle due: o il nemico dello Stato riesce a vincere oppure è destinato a soccombere. Se vince è stato un rivoluzionario, se perde è considerato dallo Stato un assassino, pur paludato da motivazioni politiche, ma non può essere considerato alla stregua di un comune assassino che uccida per danaro. E tanto meno un terrorista. E' la somma che fa la differenza. I brigatisti si erano illusi di poter trascinare con essi  la classe operaia contro il capitalismo. Non la ebbero perché erano dei gruppi ristretti senza seguito nella società. Se avessero avuto un grande seguito nel popolo avrebbero dovuto essere considerati dei combattenti armati contro lo Stato, ma non dei comuni assassini o criminali, come se ci si riferisse alla criminalità organizzata. E avrebbero potuto pretendere dallo Stato di essere dei rivoluzionari. Perché è la forza armata che in politica garantisce la vittoria contro uno Stato. Ogni Stato si regge sulla forza. Come ben capì Benedetto Croce, anche se si riferiva alla criminalità comune organizzata, in teoria non vi è differenza alcuna tra lo Stato e una associazione a delinquere in quanto, dando bando anche alla illusione dell'esistenza di una democrazia pur fondata su una Costituzione che salvaguardi i diritti individuali del cittadino, la stessa Costituzione non avrebbe alcun valore se non si reggesse sulla forza delle armi per contrastare le criminalità organizzate che corrompono la democrazia tramite il controllo dei voti. E quando, come nelle Regioni del sud Italia, dominano le varie mafie armate, lì lo Stato è destinato a soccombere di fronte ad un tessuto sociale mafioso nonostante le decantate vittorie con gli arresti di vari capi mafia (morto un capo se ne fa un altro), quando addirittura non diventa connivente con esso per continuare ad esercitare un potere politico. Proprio allora ci si avvede che in tali casi, cioè in società permeate da tradizioni mafiose, è la stessa democrazia che diventa il bacino del potere delle mafie che possono introdursi nell'appato politico. Quale rimedio? Un potere più forte di quello delle mafie per impedire che la politica dipenda da esse. Questo potere non può essere democratico perché deve essere tanto forte da non dover dipendere da coloro che esercitano un potere sulla politica. La quale può sottrarsi alle mafie con la sospensione delle garanzie costituzionali e con la pena di morte. L'aveva capito lo stesso Beccaria in Dei delitti e delle pene, dove, pur prendendo posizione contro la pena di morte, tuttavia la giustificava in tutti quei i casi in cui ne andassero di mezzo le stesse istituzioni dello Stato con la perdita della libertà dei cittadini, costretti ad obbidire non alle leggi ma contro le  leggi. 
Lungi da qualsiasi considerazione filosofico-umanitaria l’illuminista Beccaria è indotto a chiedere per il carcere perpetuo “una schiavitù perpetua! “fra ceppi o le catene”, in cui “il disperato non finisce i suoi mali”, come, invece, con la pena di morte. Beccaria condanna lo Stato che compra le delazioni e impone taglie: “Chi ha la forza di difendersi non cerca di comprarla. Di più, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono…Invece di prevenire un delitto, ne fa nascere cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte”. D’altra parte, Beccaria (Dei delitti e delle pene, cap. XXVII) continuò a giustificare la pena di morte se “la morte di qualche cittadino diviene necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini tengon luogo di leggi”. 
Dunque Beccaria certamente non sarebbe stato contrario alla pena di morte per le organizzazoni mafiose come unico rimedio allo stato di anarchia che si genera quando le mafie fanno perdere ai cittadini la loro libertà perché esse "tengono luogo di leggi".  
In conclusione, mentre certamente non furono le Brigate Rosse a porre in pericolo le Istituzioni nella loro illusione di avere un appoggio popolare, cercato soprattutto nella classe operaia, che non li seguì (e senza appoggio popolare non vi può essere rivoluzione), le mafie, al contrario, cercano tuttora l'appoggio popolare, e in parte lo riscuotono o per convenienza o per timore della  propria vita, non per sovvertire lo Stato, come era nelle intenzioni delle Brigate Rosse, ma per sfruttarlo dal suo interno ai loro fini con le loro potenti armi della corruzione al livello politico. 

1 commento:

Pietro Melis ha detto...

DA Bambilu ho ricevuto un commento che non ho potuto pubblicare perché quando mi è arrivato nella posta per pubblicarlo avevo già cambiato il titolo.
Il commento suo diceva:
il fatto è che le leggi le fanno "loro" i governi che hanno usurpato lo Stato svendendolo ai privati [mafie]. Non abbiamo bisogno di "leggi" illeggibili ed incomprensibili per il popolo comune, appositamente rese indecifrabili [e che ci vuole per degli ignoranti analfabeti anche se laureati con lauree fasulle solo nozionistiche?] Le FFOO dovrebbero stare col Popolo NON CONTRO il Popolo, cioè le FFOO dovremmo essere Noi, come in Corea del Nord. Solo così si difende la Nazione, tutti i giorni dai nemici interni [i peggiori] e da quelli esterni.