giovedì 13 febbraio 2014

SARDEGNA SERVA DI DOLORE OSTELLO, NAVE SENZA NOCCHIERE IN GRAN TEMPESTA, NON DONNA DI PROVINCE MA BORDELLO

Ho adattato nel titolo 3 versi di Dante (Purgatorio, VI, 76-78)

Mi fanno tutti schifo i candidati al Consiglio regionale della Sardegna. Esercito di assalto a 60 poltrone di parassiti che inondano le cassette della posta con i loro santini o con lunghe pubblicità vantando meriti inesistenti, aprono uffici elettorali a pian terreno e poi scompaiono. Basti fare un esempio:Michela Murgia, una che, dopo avere scritto tre libercoli, tra cui Accabbadòra, di effimero e fugace successo, ha pensato di sfruttare la sua immeritata notorietà (ma solo in Sardegna: pinta la legna e mandala in Sardegna, dice un proverbio) si è inventata un partito chiamato Sardegna possibile. Con cui crede di incantare gli imbecilli che si fanno suggestionare dagli slogan, vuoti di significato. Che cavolo significa Sardegna possibile? Non si rende conto del vuoto che vi è dentro il possibile. Tra il possibile e il reale vi è di mezzo il mare. Costei non si è domandata da dove dovrebbero venire i soldi per realizzare il Paese di Bengodi che promette. E questo vale per tutti i candidati. Vi è poi uno, Ignazio Artizzu, che cerca di raccogliere voti presso quella categoria di subanimali che sono i cacciatori. Altri cercano di sfruttare la categoria dei disabili, rivelatasi un pozzo di voti. Ma senza spiegare da dove prenderebbero i soldi per una migliore assistenza a questi sfortunati, se non aumentando l'assistenzialismo finanziato dal governo di Roma. Nessuno ha il coraggio di dire che senza i trasferimenti dal governo di Roma i sardi morirebbero di fame dopo un mese. Adesso poi si danno tutti a rincorrere il mito della zona franca, che significa pagare meno tasse per aumentare i consumi. Ma con quali soldi si aumenterebbero i consumi se non aumentano i redditi pro capite? L'imbecillità impedisce di far capire questo. La Sardegna è una Regione che vive ed è vissuta sempre di assistenzialismo. Con la zona franca diminuirebbero le tasse e dunque diminuirebbero anche quelle poche entrate che, se pure in misura quasi irrisoria, servono per finanziare i servizi pubblici, e la conseguenza sarebbe che dovrebbe aumentare l'assistenzialismo finanziato con i trasferimenti dal governo di Roma, che, a sua volta, li trae dalle regioni del nord. La zona franca servirebbe solo a far pagare meno, per esempio, l'energia, la benzina, rendendo perciò meno costosa la produzione. Ma questo è il problema. Chi poi sarebbe capace di produrre a minor costo manufatti da esportare? Non certamente i sardi, privi da sempre di capacità imprenditoriale, che nella loro storia hanno saputo fare bene solo una cosa: mungere pecore nella loro atavica "cultura" pastorale, che è la causa maggiore della loro miseria. Ancor oggi vi sono 7 milioni di pecore per una popolazione di circa un milione e 600 mila abitanti. "Cultura" pastorale che è anche all'origine di una storia di faide tra famiglie e tra paesi vicini e lontani. Lo dimostra la storia dei Giudicati, che sparirono a causa delle lotte che vi furono tra essi e che li rese deboli di fronte agli invasori, pisani, genovesi, aragonesi. L'ultimo Giudicato, quello d'Arborea, ebbe fine anche a causa degli altri sardi, che invece di tenersi uniti contro gli invasori, giunsero a mettersi al soldo degli stessi invasori, come fecero i sardi del cagliaritano che si misero al soldo dell'esercito aragonese di Martino il giovane per combatte contro i sardi dell'esercito d'Arborea, con 5000 morti sardi nella battaglia di Sanluri (1409).                              La pastorizia è stata ed è la maggiore disgrazia della Sardegna, la causa maggiore di tutti gli incendi estivi causati dai pastori per distruggere non solo la macchia mediterranea, ma anche zone boschive per far crescere prima l'erba per le pecore. E la pastorizia è stata sempre la nutrice del banditismo sardo. Ma questo da nessuno degli assalitori delle poltrone del Consiglio regionale viene detto. Debbono continuare a leccare il culo agli elettori per racattare voti. E' da più di 60 anni che fanno promesse prendendo ancora per il culo i sardi, che tuttavia se lo meritano. La zona franca servirebbe solo ad industrie non sarde che verrebbero qui con i loro capitali (che in Sardegna mancano) e con società aventi sede fuori della Sardegna, per trasferire altrove il loro profitto e pagare altrove le tasse, non investendo certamente i profitti in Sardegna, dove l'occupazione non migliorerebbe di molto, e dunque non aumenterebbe nemmeno la capacità di consumo. E non è nemmeno certo che con la zona franca si favorirebbero investimenti in Sardegna, data la difficoltà dei trasporti via mare, convenendo delocalizzare le industrie in altri Stati europei dove la mano d'opera e l'energia costano molto meno che in Italia.                    Quella che sarebbe stata la maggiore industria della Sardegna, il turismo, è in mano a capitali non sardi, se non stranieri. Basti fare l'esempio della Costa Smeralda, di Forte Village, del Villaggio Tanka, del Villaggio Telis, del Club Mediterrané di Caprera, e via dicendo. In passato  fu istituito l'ESIT (Ente Sardo Industria Turistica). Si rivelò un carrozzone regionale, destinato dunque a fallire perché serviva solo come ufficio di collocamento per la clientela politica. Scrisse Aristotele (Politica, VIII) che "Ogni popolo ha il governo che si merita". E i sardi si meritano il Consiglio regionale di 80 parassiti, per di più rivelatisi quasi tutti ladroni (circa 60 sui 80) che utilizzavano i contributi ai partiti per fare feste e regali. E molti di questi indagati hanno persino la faccia tosta di ripresentarsi come candidati. Avevano istituito altre 4 province come se non bastassero le quattro già presenti. Evidentemente con un doppio fine, aumentare il parassitismo politico ed avere mani più libere per saccheggiare il territorio favorendo interessi  localistici.       I sardi si sono presentati sempre come vittime degli altri, ritenuti sfruttatori, mentre, a causa delle ataviche faide tra loro, sono stati e sono tuttora vittime di se stessi, nutriti da un'invidia distruttiva. Invece di imitare quei pochi che riescono a migliorare la loro esistenza anche a beneficio di altri sanno soltanto, per invidia, metter loro delle bombe. Un popolo che nel secolo scorso ha rivendicato l'autonomia politica non per favorire un autonomo spirito imprenditoriale, ma per mangiare autonomamente con i soldi del nord Italia.                                     Naturalmente non voterò. O meglio, mi presenterò al seggio elettorale per iscrivermi e poi rifiuterò la scheda. A me questi aspiranti a fare i parassiti ladroni del Consiglio regionale per il culo non mi prendono. Ben 60 futuri parassiti (prima d'ora erano sempre stati 80) per un milione e 600 mila abitanti compresi i neonati. Con stipendi netti di più di 13 mila euro al mese. Ma che vadano a lavorare! L'assemblea siciliana (un altro carrozzone) ne ha 90, ma in una regione di circa 5 milioni di abitanti. Il fatto è che, non soltanto le province, ma anche le Regioni dovrebbero sparire perché sono soltanto fonte di maggiore corruzione e di maggiore spesa politica  (e dunque pubblica) a favore di arrivisti del potere. Basterebbe un commissario o una giunta commissariale nominata direttamente dal governo centrale perché i localismi regionali non siano più fonte di corruzione e di leggi che favoriscono solo la parcellizzazione del potere con contrasti frequenti tra leggi regionali e leggi statali. Bastano i ladri di Roma. Non ne occorrono altri.          

  L'Inno del Mannu? Era servile

Francesco Cesare Casula

S iamo talmente abituati all'autocolonizzazione culturale che l'applichiamo anche ai simboli identificativi, senza nemmeno badarci. Quando i reduci della Prima guerra mondiale fondarono nel 1920 il Partito Sardo d'Azione, di tutte le rappresentazioni grafiche, che fin dal 1300 davano la bandiera del Regno di Sardegna formata da quattro teste di moro inquartati senza bende o con la benda sulla fronte o addirittura con la corona, in segno di regalità, i nostri sardisti scelsero come emblema del loro movimento i Quattro Mori con la benda sugli occhi, in segno di sottomissione e schiavitù.
Nel 1795 in pieno clima rivoluzionario francese che faceva piazza pulita dei nobili, Francesco Ignazio Mannu, giudice aggiunto nella Sala civile della Reale Udienza, scriveva l'inno intitolato "Il Patriota sardo contro i feudatari" (Su patriottu sardu a sos feudatarios), che comincia: "Procurad'e moderare, Barones, sa tirannia..." ("Cercate di moderare, o Baroni, la [vostra] tirannia ...").
Non è stato mai musicato e non è stato mai cantato durante le sommosse angioyane. A me non piace perché è indice di totale sottomissione. Non si chiede ai baroni di ieri e di oggi di scomparire dalla faccia della terra ma di attenuare la loro tirannia. È come dire: violentateci ma non fateci troppo male. Anche allora, fin da subito, nel 1796, qualcuno - un anonimo - si accorse dell'insulsaggine dell'inno del Mannu e scrisse il documento davvero rivoluzionario intitolato: "L'Achille della sarda liberazione" articolato in 37 proposizioni in cui, contro la tendenza dei vassalli a piatire la moderazione dei baroni, incitava alla completa liberazione dalla "schiavitù feudistica".
Leggetelo, è bellissimo. Termina con l'esortazione: "… eterna guerra al feudalesimo, ed ai suoi fautori, come nemici della Patria". Forse sarebbe il caso di rivedere, oggi, le nostre scelte d'identità.
Francesco Cesare Casula, ordinario emerito di Storia medievale nella falcoltà di Lettere e Filosofia dell'università di Cagliari, risponde al direttore Anthony Muroni, che nei giorni scorsi ha scritto a proposito dell'Inno "de su patriotu sardu a sos feudatarios", composto a fine '700 da Francesco Ignazio Mannu.

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