martedì 5 agosto 2014

RESPONSABILITA' CIVILE DEI GIUDICI. LA MIA INCREDIBILE VICENDA GIUDIZIARIA CIVILE DA 17 ANNI.

Da sempre esiste l'art. 1 dei "Provvedimenti disciplinari" che prevede che il giudice sia responsabile quando faccia sentenze dettate da "ignoranza o vizi logici inescusabili". Ma non è mai stato applicato.
Cerco di sintetizzare la mia vicenda, che "giudici" che dovrebbero andare a zappare la terra hanno solo complicato per ignoranza e incapacità di ragionare (se non si tratta di peggio). 
Ero (e sono) titolare del 66% delle quote sociali di una società chiamata ancora Cinecorallo (anche se il cinema Corallo, in Cagliari, di 750 mq più galleria, è chiuso dal 1998). Ho il 66% perché ereditai una causa da mio padre e da mia madre che avevano costituito una società con altri due soci, risultati dei truffatori perché avevano gonfiato il costo di costruzione del cinema per porre in recessione i miei genitori con un aumento di capitale risultato fraudolento ed estrometterli dalla società. Mio padre (morto a 86 anni) impugnò l'aumento del capitale in quanto ritenne gonfiato il costo di costruzione del cinema e chiese la risoluzione dell'atto di vendita del terreno e dei magazzini (di cui era proprietario con mia madre) per inadempimento della società. Perse in Tribunale e in Corte d'Appello perché i giudici ritennero che la Società Cinecorallo fosse adempiente nell'avere attribuito (come da contratto) un terzo delle quote della società ai miei genitori per un valore di 25 milioni del 1961. ERA FALSO. Sia in Tribunale che in Corte i "giudici" non controllarono i bilanci, da cui risultava falsa l'attribuzione di un terzo ai miei genitori. L'importo di 25 milioni era stato ridotto arbitrariamente a 13 milioni, con lo scopo di estromettere i miei genitori dalla società dando ad essi 13 milioni in contanti e di rimanere essi soli padroni del cinema. Mio padre morì nel 1977 tra i dispiaceri sentendosi defraudato della sua proprietà. Ereditai la seconda domanda riguardante il risarcimento danni per mancato utilizzo del valore del terreno e dei magazzini apportati da mio padre e mia madre nella società. Due individui, due delinquenti che un destino amaro mi diede come fratelli anagrafici, credendo che la causa fosse persa anche sulla seconda domanda, fecero rinuncia all'eredità di mio padre e la fecero fare anche a mia madre, titolare di tutti gli altri beni immobili che mio padre aveva intestato a lei. Non volevano essere coinvolti in inutili spese giudiziarie. Io invece non mi arresi e proseguii sulla seconda domanda buttandomi su una montagna di fascicoli e ponendomi a studiare giurisprudenza, se pure limitatamente all'argomento di causa. Persi in Tribunale ma vinsi in Corte d'Appello dove finalmente incontrai un giudice intelligente ed onesto (la giustizia è una lotteria) di cui voglio fare il nome: OLIVIERO MIGHELA, scomparso qualche anno fa quando era già da alcuni anni in pensione. Il giudice Mighela capì finalmente che i miei genitori erano stati truffati malamente. Demolendo la perizia di ufficio riguardante il costo reale della costruzione (perizia fatta da un ingegnere, Iolao Farci,  connivente con i due soci truffatori), dimostrò che il capitale sociale (che doveva corrispondere al valore totale del cinema, cioè al costo di costruzione più il valore del terreno e di due magazzini, corrispondenti all'ingresso e all'uscita del cinema, apportati da mio padre e da mia madre) era stato gonfiato di 25 milioni di lire del 1961 perché era stato gonfiato nella stessa misura il costo di costruzione del cinema. I 25 milioni erano corrispondenti al valore apportato dai miei genitori in società. Vinsi anche in Cassazione e tornai in Tribunale per la quantificazione dei danni. I 25 milioni del 1961 divennero, rivalutati e con gli interessi, un miliardo di lire nel 1991, con sentenza del Tribunale relatrice Fiorella Buttiglione. A questo punto gli altri soci preferirono una compensazione: cedettero tutte le quote sociali agli eredi Melis a compensazione del miliardo.
A questo punto dopo i nemici esterni dovetti combattere contro nemici interni, due delinquenti di fratelli irriconoscenti di tutti i benefici da me ricevuti precedentemente e di una eredità inaspettata (quella del cinema).  Essi, che avevano ereditato ciascuno 1/3 dalla parte di mia madre, avendo fatto rinuncia all'eredità di mio padre che aveva intestato anche tutti gli altri immobili a mia madre, e giungendo così complessivamente al 34% delle quote sociali mentre io salii alla quota del 66%, fecero finta di avere interesse ad entrare in società e firmarono l'atto di transazione con i precedenti soci. Ma poi incomiciarono ad asserire inesistenti contrasti sociali con l'unico scopo di costringermi a vendere (avevano pronto un acquirente, proprietario di una catena di supermarket, Gesuino Fenu, disposto a rilevare tutte le quote per un miliardo e 800 milioni in contanti). Per me quell'immobile aveva ormai un valore più affettivo che economico. Non ero disposto a vendere la mia parte, mentre essi volevano coinvolgere la Cinecorallo nei loro debiti personali, rifiutando di fare domanda di recesso. L'uno aveva acceso nel 1991 un mutuo di 180 milioni con la banca Cariplo, mentre l'altro doveva ancora pagare alla BNL 100 milioni di lire relative ad un mutuo richiesto per comperare una casa all'amante, che da sempre divise con la moglie. Che per quieto vivere di fronte al figlio accettò sempre di vivere in un triangolo. La moglie è morta di cancro al seno nel 2004 e questo impostore ogni anno, il 30 ottobre, mette un lacrimoso e lungo necrologio di rimpianto per la moglie, invitando amici e conoscenti ad assistere alla messa di suffragio. Pur avendo sempre conservato l'amante, che un giorno, prima che iniziasse la disgraziata vicenda giudiziaria, con rottura definitiva di comunicazione verbale, mi aveva detto di preferire alla moglie per una questione di letto.  
La società, da sempre in attivo, conseguiva pacificamente il suo oggetto sociale con la continuazione del precedente contratto di affitto a terzi. Dunque non potevano esistere dissidi sociali essendo separata la proprietà dalla gestione.
A questo punto uno dei due delinquenti (più piccolo di me di cinque anni e crepato di cancro al mediastino nel 2003, associato con l'altro più grande di me di tre anni, uscito dalla società solo nel 2007 e purtroppo ancora vivo) chiese la nomina di un liquidatore. Qui inizia la mia paradossale e allucinante vicenda (descritta anche in un capitolo di un mio libro e trasformato in romanzo giallo in un altro). Il presidente del Tribunale Marco Onnis nomina il liquidatore DANDOMI COME CONSENZIENTE mentre dagli atti risultavo assolutamente contrario. Errore materiale imperdonabile. Il presidente del Tribunale può nominare un liquidatore solo se tutti i soci sono d'accordo (art. 2272, n.3 Codice Civile), altrimenti occorre un giudizio contenzioso. Salto alcuni passaggi per non essere oltremodo pesante nel racconto. Chiedo con ricorso la sospensione della nomina del liquidatore e in prosieguo di causa la sua revoca per chiara illegittimità. Con racc. A.R. avviso il promissario acquirente, un costruttore di nome Bruno Cadeddu, che ho inizato una causa per chiedere la sospensione e la revoca della nomina del liquidatore e gli illustro in 4 pagine tutti i motivi di nullità della nomina del liquidatore, in  modo che non potesse successivamente accampare una buonafede adducendo il motivo di non essere stato informato della causa in corso. E qui incontro un giudice, Tiziana Marogna, la quale emette un'ordinanza rigettando il mio ricorso con il dire che avevo sbagliato indirizzo: mi dovevo rivolgere alla Cassazione e non al Tribunale. E aggiunse che era stata ormai superata la giurisprudenza della Cassazione che diceva che mi dovevo rivolgere al Tribunale. ASSOLUTAMENTE FALSO. Costei ignorò che esisteva un diverso orientamento della Cassazione, maggioritario, che diceva che dovevo rivolgermi al Tribunale. E l'ultima sentenza di tale orientamento uscì proprio a ridosso dell'ordinanza. Poi la Cassazione a Sezioni Unite nel 2002 cancellò la giurisprudenza minoritaria a cui questa giudice si era appellata. Il liquidatore e il promissario acquirente (due della banda dei 4, compresi i due pseudo fratelli), trasformando arbitrariamente un'ordinanza in una sentenza passata in giudicato, non aspettarono nemmeno i 10 giorni previsti dal Codice di Procedura Civile entro cui potevo fare ricorso al Collegio a partire dalla comunicazione dell'ordinanza (20 novembre 1997), e cinque giorni dopo il deposito dell'ordinanza (8 novembre 1997) procedettero il 13 novembre alla vendita, anticipandola furtivamente di 9 mesi rispetto alla data del preliminare di vendita per pormi di fronte al fatto compiuto. Seppi della vendita una settimana dopo. Io, senza attendere i 10 giorni entro cui potevo fare reclamo al Collegio, inoltrai un'istanza al nuovo presidente del Tribunale Antonio Porcella per chiedere la revoca della nomina del liquidatore, il quale fu revocato l'11 dicembre 1997 con la motivazione che il suo predecessore non poteva nominare il liquidatore data la mia opposizione e che pertanto la nomina doveva ritenersi "ABNORME". Conseguentemente nel 1998 aprii un giudizio contenzioso per chiedere la nullità (e in subordine l'annullamento o inefficacia) della vendita e mi opposi al decreto ingiuntivo con cui l'ex liquidatore, pur revocato dalla sua nomina, chiedeva  166 milioni di lire (poi ridottigli con ordinanza in Corte d'Appello ad 1/3). Ma incontrai due giudici  (Mario Farina e Vincenzo Aquaro) che rispettivamente ritennero fondata la parcella di 166 milioni di lire del liquidatore (un assetato di danaro come un vampiro assetato di sangue) e la vendita del cinema per un miliardo e mezzo (meno la parcella del liquidatore). E con la stessa motivazione: il liquidatore e l'acquirente avevano venduto e comprato in BUONAFEDE. Mentre la malafede del liquidatore era documentata anche dal suo comportamento processuale, tenuto in violazione delle norme processuali, essendo obbligato per legge ad attendere la fine del procedimento in corso riguardante la richiesta della revoca della sua nomina, e la malafede dell'acquirente era documentata dal fatto di avere acquistato nonostante fosse stato informato con racc. A.R. del procedimento in corso contro la nomina del liquidatore e diffidato da me dall'acquistare. In tal caso la giurisprudenza è unanime nel considerare temerario l'acquisto. 
Non mi rimaneva che sperare di trovare dei giudici ragionanti in Corte d'Appello. Vana speranza. 
Prima di tutto bisogna sapere che in Corte d'Appello il Collegio dei tre giudici di fatto non esiste. Nessuno vuole perdere tempo occupandosi di cause per cui non è relatore. In pratica la sentenza, come in Tribunale, viene stesa da un solo giudice. E il terzo non ha nemmeno l'obbligo della firma. Firmano il presidente (per pura formalità) e il relatore. In Corte ho trovato un giudice, Donatella Aru, che con sentenza non definitiva (riguardante la parcella del liquidatore dopo che le due cause furono riunite in Corte) ha scritto una sentenza piena di contraddizioni esistenti persino in una stessa pagina. 
Faccio alcuni esempi. A p. 6 scrive che "il Melis ha promosso il 15 settembre 1997 azione giudiziaria cautelare volta a conseguire la revoca del provvedimento o quanto meno la sua sospensione, istanza rigettata con ordinanza 7 novembre 1997)".  Ma a p. 13 mi rimprovera di non aver fatto quanto prima ha riconosciuto che avevo fatto, perché scrive che il Melis "avrebbe dovuto proporre un giudizio in via ordinaria, con istanza per le misure cautelari che si fossero rese necessarie". INCREDIBILE. Ma se avevo fatto proprio questo!
Non basta. Riconosce illegittima la nomina del liquidatore da parte del presidente del Tribunale, e aggiunge che il rimedio era un giudizio ordinario volto alla rimozione del decreto di nomina. Ma era proprio ciò che avevo fatto. E cita la sentenza del 2002 della Cassazione a Sezioni Unite. Dunque avrebbe dovuto avere il coraggio di aggiungere che la collega Tiziana Marogna, anch'essa oggi in Corte d'Appello e parte del Collegio (almeno nominalmente) aveva sbagliato dicendo che mi dovevo rivolgere alla Cassazione e non al Tribunale con giudizio ordinario. Ma per non dare torto alla collega che fa la Aru? Scrive che all'epoca dell'ordinanza l'unico orientamento in Cassazione era "quello di ritenere che il decreto di nomina del liquidatore...avesse natura decisoria...e come tale ricorribile in Cassazione". FALSO! FALSO! FALSO!  Ho già detto che due erano gli orientamenti e non uno. E poi che cosa importava che l'orientamento della Cassazione all'epoca dell'ordinanza fosse uno o fossero due? Una volta riconosciuto che quell'ordinanza era errata alla luce della sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, doveva prenderne atto, invece di continuare a ritenere valida l'ordinanza con cui veniva rigettata la mia richiesta di sospensione e successiva revoca della nomina del liquidatore. Si può essere più sragionanti di così? Altrimenti che ci sta a fare la Corte d'Appello, che deve rimediare a precedenti errori? NON BASTA. 
Quando si tratta di considerare la revoca dichiarata in data 11 dicembe 1997 della nomina del liquidatore questo giudice, la Aru, si inventa cose che stanno solo nella sua testa. Scrive (sempre a p. 13) che "il presidente del  Tribunale non avrebbe potuto pronunciarsi sulla istanza di revoca del liquidatore". INCREDIBILE. Dove sta scritto? Da nessuna parte. L'art. 742 del C.P.C. dice che "I decreti possono essere IN OGNI TEMPO modificati o revocati, ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi".  Ma visto che questa donna era convinta che il presidente del Tribunale non avesse il potere di revocare il proprio decreto, per coerenza avrebbe dovuto chiudere qui il discorso sulla revoca e non andare oltre. Invece, per confermare la sua schizofrenia, aggiunge che la revoca ha valore ex nunc e non ex tunc. Ma allora, senza accorgertene, stai ammettendo il contrario, che il presidente del Tribunale ha il potere di revocare il proprio decreto! Si tratta solo di stabilire se la revoca abbia o non valore retroattivo (ex tunc). Orbene, tutta la giurisprudenza della Cassazione (che deve sempre sostituirsi agli articoli mal scritti o lacunosi dei Codici di epoca fascista, ma fatti anche da giuristi antifascisti come Carnelutti e Calamandrei) è unanime da sempre nel ritenere che la revoca, quando sia fondata su vizi di legittimità, abbia sempre valore retroattivo. Che dunque ha scritto questo giudice dicendo che la revoca aveva  valore ex nunc, cioè dalla data della revoca? Ha aggiunto che il presidente del Tribunale con la revoca non aveva dichiarato la nullità della nomina del liquidatore ma la sua "ABNORMITA'". Porca la miseria. Ma è andato mai questo giudice a cercare il significato di "abnorme"? "Abnormità" può significare più della nullità, configurandosi addirittura come inesistenza. Infatti "abnorme" significa fuori delle norme imperative, cosicché il giudice che abbia giudicato fuori delle sue competenze (come nella nomina del liquidatore quando non vi sia il consenso di tutti i soci) avrebbe violato le norme imperative che circoscrivono la sfera del suo potere giurisdizionale. In ogni caso questo giudice ha omesso di pronunciarsi sulla domanda di dichiarazione di nullità radicale della nomina del liquidatore per tutti i motivi che erano stati ampiamente espressi sin dall'atto d'appello.  
Per non darsi vinta, di fronte alla mia ulteriore domanda di disapplicazione del decreto di nomina del liquidatore, la Aru scrive (p.14) che "si rileva che pare (è o pare? n.d.r.) inconferente il richiamo all'istituto della disapplicazione, il cui ambito è quello degli atti amministrativi". Falso. La disapplicazione si estende anche al civile, e, comunque, costei non sa che i procedimenti di volontaria giurisdizione (come la nomina di un liquidatore da parte del presidente del Tribunale) sono assimilati ai procedimenti amministrativi.
Andiamo alla perla finale con cui la Aru ha giustificato, pur riducendone, ma di poco, l'importo, la parcella del liquidatore. Ha scritto (p.16) che "sono irrilevanti...gli atti compiuti dal liquidatore successivamente al provvedimento di revoca". Ma non aveva detto prima che il presidente del Tribunale non aveva il potere di revocare il proprio decreto? BOH! Comunque, se sono irrilevanti gli atti compiuti dall'ex liquidatore dopo la sua revoca giudiziale, come si giustifica il decreto ingiuntivo successivo fondato sul bilancio finale di liquidazione notificato alla società dopo che il liquidatore era stato revocato nella nomina? Se si riconosce che l'ex liquidatore (perché già revocato) non aveva più il potere di notificare il bilancio finale di liquidazione (come se la liquidazione si fosse compiuta e non fosse stata invece tolta con la revoca della nomina del liquidatore) a che titolo l'ormai ex liquidatore poteva chiedere di essere pagato se era venuto a mancare il titolo data la sua revoca? Doveva chiedere di essere pagato a diverso titolo, come amministratore della società per tutto il periodo in cui aveva rivestito la carica di liquidatore (revocata) e non come liquidatore, "per la contraddizion che nol consente" (Dante). A parte i danni procurati alla società avendo venduto in malafede, precedendo la conclusione del procedimento ancora in corso durante la vendita, procedimento che poi portò alla sua revoca. Qualche mese fa è defunto il suo avvocato, che per 16 anni ha scritto con veleno contro di me attribuendomi cose documentatamente false e prese per vere dai "giudici". Ma non ne scriverà più. 
Voglio terminare l'analisi di questa illogica sentenza con una perlina finale, che lumeggia bene anche una incredibile disattenzione. Nel calcolo delle voci di parcella riconosciute all'ex liquidatore si dice che debbono essere aggiunte a suo favore Lire 3.184. 500. Che fa la Aru? Confonde una somma con una sottrazione perché il predetto importo viene sottratto invece che essere sommato. Roba da matti (se pur a sfavore dell'ex liquidatore). 
Che senso aveva, inoltre, trattare prima, con sentenza parziale, una causa che per le sue conclusioni dipende dalla sentenza definitiva? Anche qui una totale mancanza di logica. E' come prendere una cosa per la coda invece che per la testa. Ma meglio così, altrimenti la Aru avrebbe deciso sulla domanda principale (che riguarda la nullità o annullamento o inefficacia della vendita) prima del ricorso in Cassazione contro la sentenza parziale. Sperando che la Cassazione, costringendola ad andare su un binario precostituito da una sentenza di riforma che gli impedisca di fare altri danni, dia una dritta a costei, da porre ancor prima di fronte al contenuto del ricorso per Cassazione.  
Infatti, poiché con questa sentenza parziale si affacciano argomenti che compromettono già la sentenza definitiva riguardante la nullità o annullameno o inefficacia della vendita (con conseguente risarcimento danni), sono costretto a non attendere la sentenza definitiva sperando che in Cassazione possa trovare qualche giudice che sappia ragionare per cogliere il cumulo di contraddizioni espressi da questa assurda sentenza, prima che venga fatta quella definitiva. Ma purtroppo anche in Cassazione si arriva per anzianità e non per merito. Pertanto non si è mai sicuri che anche in Cassazione non arrivino degli ignoranti o sragionanti.
Ecco perché è giusto che finalmente giudici simili paghino di tasca propria, come sempre ho scritto. Come? Assicurandosi, come fanno i medici, perché non sia lo Stato, cioè tutti noi, a pagare per essi. Ma nessun governo ha mai voluto ammettere una responsabilità civile diretta. E' lo Stato che deve pagare per tutte le conseguenze che hanno le scriteriate sentenze. Ora si dice che lo Stato si rifarà poi sui giudici nella misura della metà del loro stipendio. Ma come quantificherà i danni? Dovrebbe risarcire le vittime degli errori giudiziari restituendo prima di tutto le spese di giudizio (compresi gli onorari di avvocato), rivalutate e con gli interessi, oltre al maggior danno del tempo passato. E trattandosi di penale, basterà metà stipendio (per quanti anni?) per risarcire le vittime di sentenze sulla base delle quali uno ha subito il carcere? Quanti mezzi stipendi saranno necessari per risarcire chi da innocente ha fatto anni di galera? Non dovrebbe essere escluso il licenziamento di fronte a sentenze talmente aberranti da far pensare che i loro autori siano, non tanto ignoranti, quanto incapaci di ragionare. Che è molto più grave. Infatti continuerebbero a combinare disastri. E questa la chiamano giustizia.

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