Zettel.3 - Filosofia in movimento - Perdono - Rai Filosofia
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Titolo Filmato.
La discalia sotto il filmato dice.
La puntata di Zettel è dedicata a un tema delicato, una categoria dell'esperienza umana: il perdono. Maurizio Ferrarsi
ci conduce in un percorso filosofico e culturale alla ricerca delle
origini e delle caratteristiche del dono più incredibile, iperbolico,
come conferma il valore etimologica del prefisso per.
Cominciamo dal peccato originale della modernità, il peccato
imperdonabile che leggiamo attraverso le parole di Primo Levi e del suo Se questo è un uomo: è possibile perdonare l'orrore del genocidio?
Ma chi è che perdona se le vittime non possono più perdonare?
A questa e ad altre domande cercheremo di rispondere provando a
chiederci in che modo il perdono sia legato alla memoria e alla
conoscenza trasparente e affidabile delle ferite dell'umanità.
Il mio commento è tratto dal mio volume Scontro tra culture e metacultura scientifica: l'Occidente e il diritto naturale, in cui avevo già trattato questo tema .
Secondo Eraclito il male è l'infrazione della norma naturale, che implica, non il bene, ma il ristabilimento dell'equilibrio, cioè la legalità, che è assenza di male. La giustizia non esisterebbe se non esistesse i suo contrario, ma il suo contrario non può essere il bene perché sopravenzerebbe verso l'alto, in senso opposto al male, l'equilibrio della giustizia, che è un riportare le cose su uno stesso piano.
E la giustizia è essenzialmene vendetta perché soltanto la vendetta, quando sia proporzionale al male, ristabilisce l'equilibrio. Alla giustizia si contrappone la morale, le cui norme riguardano la distinzione tra il buono e il cattivo, che sfugge al criterio della giustizia
in quanto implica un relativismo di valutazioni che dipendono dalla natura del soggetto.
La corruzione di questo
importante concetto avviene nella filosofia socratico-platonica,
ma non nell’ultimo
Platone, e per essa, tramite il neoplatonismo, si estenderà al
cristianesimo, che massimamente, con la morale del perdono, dando una
connotazione negativa alla vendetta, ha rappresentato, con
conseguenze tuttora evidenti, nella concezione della giustizia
penale, pur in contrasto con quella civile, dove rimane fondamentale
il risarcimento del danno, la massima corruzione del concetto di
giustizia, perché ha preteso di anteporre la redenzione del
colpevole al risarcimento della vittima, facendo dipendere
confusamente e pericolosamente il diritto dalla morale. Esempio di
tale confusione è la condanna della pena di morte, che dà
più valore alla vita dell’assassino che a quella della
vittima innocente.
Se Heidegger ha inteso la
filosofia socratico-platonica come inizio del mascheramento
dell’essere e del suo conseguente oblio, si può dire che con
l’oblio dell’essere è iniziato anche l’oblio della
giustizia, tesa non tanto ad impedire il male, quanto ad imporre
pericolosamente un certo concetto di bene. Il limite del
mascheramento è stata la tradizione giusnaturalistica
concretizzatasi nel corpus
delle leggi del
diritto romano nel III secolo con i quattro giureconsulti Papiniano,
Modestino, Paolo e Ulpiano. In tale tradizione rimane vivo il
concetto di legge naturale quale fondamento della legge civile, con
la finalità di difendere i diritti risarcendo il danno, e non
di redimere il colpevole per favorirne il reinserimento nella
società, essendo quest’ultima finalità estranea
all’ambito del diritto per il fatto di appartenere a quello della
morale.
Il
diritto romano consolidò la teoria che la giustizia dovesse
ritenersi pubblica vendetta nei confronti di chi attentasse al bene
comune, identificato con l’utilità sociale. Nell’età
moderna il diritto romano fu elaborato da filosofi e giuristi secondo
l’indirizzo del diritto naturale, per trovare in esso la
giustificazione della libertà di pensiero, ma anche quella
della pena di morte in difesa dell’ordine pubblico1
Nelle
Lettere2Agostino
evidenzia come il perdono possa avere conseguenze negative su chi,
invece di correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua
arroganza, oppure, correttosi nella sua condotta, induca tuttavia
altri ad approfittare sperando in eguale impunità. Riprendendo
il pensiero di S. Paolo, Agostino scrive: “Se fai il male, abbi
paura, poiché l’autorità non senza ragione porta la
spada; essa infatti è strumento per infliggere punizione ai
malfattori in nome di Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De
libero arbitrio che
“se l’omicidio consiste nel distruggere o uccidere un uomo,
talvolta si può si può uccidere senza commettere
peccato; questo vale per il soldato col nemico, per il giudice o il
ministro con coloro che fanno del male”.
In
Agostino prevale la teoria della prevenzione come giustificazione
della pena di morte. Una funzione prevalentemente retributiva, oltre
che emendativa e di prevenzione, ha, invece, la pena di morte per S.
Tomaso, che nella Summa
theologica (II, II,
q. 68, a.1) giustifica la pena come vendetta che si esercita sui
malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio e nella Summa
contra Gentiles
(III, cap. 146), dopo aver scritto che la vita del delinquente deve
essere sacrificata, allo stesso modo in cui “il medico taglia a
buon diritto e utilmente la parte malata, aggiunge che “uccidere un
uomo che pecca può essere un bene come uccidere un’animale
nocivo. Infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo
di un animale nocivo”. Vi è dunque da domandarsi quale
credibilità possa avere oggi la Chiesa, che, rinnegando circa
2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha abolito nel 1999 dal
Catechismo
la pena di morte. La condanna della pena di morte vuole essere
espressione di superiorità morale (dettata dal sentimento), ma
è di fatto espressione di inferiorità giuridica,
causata dalla corruzione del diritto da parte della morale.
1
Sulla pena di morte nella storia occidentale cfr. di Alberto
Bandolfi Pena e pena
di morte. Temi etici nella storia,
Edizioni Dehoniane 1985; di Italo Mereu La
morte come pena. Saggio sulla violenza legale,
Donzelli 1982. L’esame che quest’ultimo testo fa di tutti gli
eccessi, non escluse diverse forme di tortura, nell’applicazione
della pena di morte come uso politico per sbarazzarsi degli
avversari non deve essere confuso con il discorso sui principi.
2
Agostino, Lettere,
II, Città Nuova, 1971, pp. 541-47.
T.
Sellin1volle
dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli
Stati Uniti non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte
per omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,2
che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre,
avvalendosi di diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il
periodo 1935-69 ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il
verificarsi di sette o otto omicidi in più. Infatti il
criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua condotta
al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi
personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte
diminuisce il desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono
argomenti utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio
secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di
quella della sua vittima.
Chi
è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il
coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in Europa,
soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i
mass media, operando
una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di
morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili. La
condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità
morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità
giuridica. Da notare
come gli stessi mass
media, essendo
totalmente privi di alcuna capacità o volontà di
discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare soltanto
affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di morte, gonfi
di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale nasce
soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non
trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che
impiegare la telecamera per far vedere il condannato che soffre o
l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto che
non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino
quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le
immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non
verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità
dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono
misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta
che non esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente
timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti
arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso
civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha
seri argomenti contro di essi.
Sia
almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia
disposto a perdonare il suo eventuale assassino,
perché lo Stato non si sostituisca alla volontà della
vittima innocente.3
E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare
il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso
aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a
vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento
dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più
della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura,
ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si
capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita
dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad
anticipare la vittima.4 Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai
di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un
rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba
prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano
anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide
la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi
controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia
abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire
prima di una sentenza.
I parenti della vittima non possono sostituirsi ad essa nel concedere il perdono perché essi solo indirettamente sono parte in causa per le conseguenze negative che essi hanno subito affettivamente a causa della perdita di una persona cara.
I parenti della vittima non possono sostituirsi ad essa nel concedere il perdono perché essi solo indirettamente sono parte in causa per le conseguenze negative che essi hanno subito affettivamente a causa della perdita di una persona cara.
1
The Death Penalty,
The American Law Insitute, Philadelphia 1959.
2
The deterrent effect of punishment: a question of life and death,
American Economics Reviw, 65, 1975.
3
In questo senso si può ritenere ampliata la considerazione
svolta da Platone nelle
Leggi (IX, 869), dove
è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) – il
delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la
madre) possa avere il tempo, prima di morire, di perdonare il
figlio. In tal caso il patricidio (o matricidio) sarà
ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto
purificarsi.
4
Il nostro ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri
(Scienza della
legislazione,
1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke sullo stato di
natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti (II
Trattato del governo civile,
II, 11), osserva, contro Beccaria (Dei
delitti e delle pene,
1764), che nello stato di natura si perde il diritto alla vita
quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di
uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo
diritto si trasferisce da lui alla società. D’altra parte,
non si aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la
pena di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale.
Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a delinquere
come la mafia, contro cui si devono usare leggi di guerra, non di
pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando le quali
si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso.
Combattere la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo
delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa
cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria pesante con
un esercito equipaggiato al massimo con fucili da caccia. Poiché
è impossibile estirpare la mafia con metodi democratici,
nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto
l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte di altre
regioni. Ha scritto Aristotele (Politica)
che ogni popolo ha il governo che si merita. I capi mafia
continuano a comandare dal carcere ricattando guardie e direttori
del carcere. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a
dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la
pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di
morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto significa
corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano anche
l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di
Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà.
La
concezione antropocentrica del diritto si palesa anche laddove, in
contrasto con il diritto naturale, si pretenda di giudicare in nome
del popolo. Così in Italia il giudice emana, assurdamente, le
sentenze, sia civili che penali, in nome del popolo italiano. Come se
un popolo potesse essere il fondamento della giustizia e non
meritasse, invece, di essere, a sua volta, giudicato alla luce di una
giustizia universale (o naturale,
secondo la concezione di Platone e di Aristotele) che sovrasta le
particolarità storiche da cui nasce il diritto positivo.1
1
Diversamente si giustificherebbero tutte le sentenze emesse, per
esempio, dai tribunali nazisti in nome del popolo tedesco. Né
vale osservare che lo Stato nazista era uno Stato antiliberale. Qui
vale il principio, fatto valere da Kart, (Metafisica
dei costumi, Parte,
II, Sez. I, Nota) secondo cui nel sancire una legge si deve
considerare idealmente “la ragione pura giuridicamente
legislatrice”, a cui tutto il popolo, compreso il legislatore, è
sottomesso, non essendo il popolo fonte della ragione pura
legislatrice.
Se
il perdono fosse elevato a norma universale tutti i peggiori
criminali della storia dovrebbero essere perdonati, perché è
impossibile stabilire un limite al perdono, che rimane, comunque,
soggettivo, non potendo essere un concetto giuridico.Vi è stato un filosofo francese (di origine ebraica), Jacques Derrida, che ha preteso di sovvertire i termini del rapporto tra morale e diritto facendo riferimento ad un etica universale che che sovrasti il diritto, arrivando alla conseguenza assurda che il vero perdono deve perdonare l'imperdonabile.
Derrida
oppone all’etica del dovere “l’etica pura” come giustizia
superiore al diritto per promuovere un cosmopolitismo fondato sulla
presenza dell’altro che è in ciascuno. Soltanto decostruendo
ogni religione, privandola del significato connesso al verbo religare
(o legare) per sostituirlo con quello connesso a
relegere (o
raccogliere) si può, secondo Derrida, giustificare una
relazione tra differenze, superando i limiti tra ebrei, cristiani e
islamici.1
Derrida scrive che “i diritti umani non sono mai sufficienti…essi
non sono naturali, ma hanno una storia...La giustizia non si ferma al
diritto…L’etica pura comincia al di là del diritto”.
Derrida ritiene che il diritto sia fondato sulla violenza perché
fondato sull’autorità. Ma per giustificare tale conclusione
egli, giocando sul sofisma dell’equiparazione dell’illegalità
alla violenza, scrive che anche una Costituzione è fondata
sulla violenza perché i suoi principi, in quanto fondanti,
sono sempre fuori della legalità. Derrida non ha aggiunto che
da ciò deriverebbe assurdamente che anche il suo diritto alla
conservazione della vita e alla libertà di pensiero, se
considerato come diritto naturale, sarebbe fuori della legalità,
e pertanto fondato sulla violenza, mentre, al contrario, nessuna
legge, anche se ingiusta, potrebbe mai generare violenza. Dalla
giusta premessa che i principi non sono fondati sulla legalità,
dato che sono essi il fondamento della legalità, Derrida
conclude illogicamente che è impossibile un fondamento
razionale del diritto, perché, stando tale fondamento al di là
dell’opposizione tra legalità e illegalità,
esisterebbe soltanto “il fondamento mistico dell’autorità”,2
che può essere anche il terrorismo, che soltanto un confine
sottile separa dall’azione rivoluzionaria.3
Conclusione dettata dalla falsa premessa che al di là della
legalità vi sia soltanto la violenza, assunta solo come
fondamento del diritto e non come strumento della sua conservazione,
a causa della mancata considerazione che anche il diritto naturale
può richiedere la violenza come sua difesa. D’altra parte,
Derrida, dovendo condannare il terrorismo in quanto manifesta un
“disprezzo per la vita e per la legge…al servizio del fanatismo
religioso”,4
precisa che esso, al contrario della democrazia, manca di una
proiezione verso un futuro di perfettibilità.
Decostruendo il concetto di
giustizia con il contrapporlo al concetto di legge universale,
Derrida identifica l’etica con la giustizia, che non riguarda
l’universale ma il particolare, cioè gli individui nel loro
“relazionarsi all’altro nella sua piena alterità”.5
La giustizia non può essere costretta all’interno del
diritto, in quanto “un’azione che si accontenta di obbedire ad un
sapere non è che una conseguenza calcolabile…Il dovere è
dunque al di là del dovere, e si deve al di là del
diritto…Laddove vi è una regola determinabile so quello che
devo fare, e, visto che un tale sapere fa la legge…non c’è
più posto né per alcuna giustizia, né per la
responsabilità”.6
Dall’“etica
pura”7
Derrida fa discendere il concetto di “perdono”, che è tale
soltanto in quanto si perdona ciò che è imperdonabile,
e non si richiede al colpevole di fare ammenda del suo errore.
La
mancata considerazione del diritto naturale quale fondamento di uno
Stato liberale porta Derrida a confondere la giustizia con l’utopia
dell’etica. Pertanto sia la richiesta, formulata da Derrida, di una
riforma dell’ONU, perché nelle sue decisioni non dipenda
dagli Stati più ricchi e sia dotata di un’autonoma capacità
di intervento militare, sia la sua dichiarata preferenza per una
democrazia, in quanto capace di perfettibilità, non possono
essere, a loro volta, frutto della follia morale del
decostruzionismo, giacché sia l’una che l’altra
implicherebbero un concetto di diritto che non sia fondato sulla
ragione del più forte, e tanto meno sull’“etica pura”,
intesa come apertura incondizionata verso l’altro.
Di
Derrida – che ha smesso di predicare inganni nell’agosto del 2004
- si può dire che il suo decostruzionismo non può non
rivoltarsi coerentemente contro se stesso per decostruirsi a sua
volta, se è vero almeno che tutto è scrittura e nulla
vi è fuori del testo, per cui anche tutto ciò che
Derrida ha scritto è solo scrittura, che,
contraddittoriamente, vorrebbe porsi fuori del testo e pretendere una
normatività rivolgendosi al mondo, anche se entro una pura
utopia morale. E chi non è coerente con le sue premesse
dovrebbe soltanto tacere, invece di predicare inganni.
1
Fede e sapere,
in La religione.
Dizionario filosofico Europeo,
Laterza 1955.
2
Forza di legge. Il
fondamento mistico dell’autorità
(1994), Bollati Boringhieri 2003.
3
Giovanna Borradori, Filosofia
del terrore. Dialoghi
con Habermas e con Derrida,
Laterza 2003, op. cit., p. 179.
4
Ibid.
5
Forza di legge,
op. cit., p. 38.
6
Filosofia del
terrore, op. cit.,
pp. 143-4.
7
Ibid., p. 142.
Solo Dio puo' giudicare e punire.
RispondiEliminaNessun assassino agisce calcolando i costi e i benefici.
Niente ha più valore del pentimento nella promozione della morale comune. Non crede?
No. Altrimenti non avrei scritto ciò che ho scritto. Il perdono appartiene alla morale. Inoltre il morto non può perdonare. Nell'Antico Testamento Jahweh dice: A me la vendetta. E così gli ebrei si vendicavano in nome di Jahweh (dio degli esrciti). A parte ciò, non tiri fuori Dio,dovendo lei riferirsi anche agli atei. Di Dio non si conosce nemmeno l'esistenza e nessun credente ne conosce la natura. Dunque bisogna prescinderne.
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