giovedì 4 settembre 2014

IL MIGLIORE PERDONO E' LA VENDETTA

Ho preso spunto dalla trasmissione Zettel3 a cura di Maurizio Ferraris sul perdono.  

Zettel.3 - Filosofia in movimento - Perdono - Rai Filosofia

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Titolo Filmato.
La discalia sotto il filmato dice.
La puntata di Zettel è dedicata a un tema delicato, una categoria dell'esperienza umana: il perdono. Maurizio Ferrarsi ci conduce in un percorso filosofico e culturale alla ricerca delle origini e delle caratteristiche del dono più incredibile, iperbolico, come conferma il valore etimologica del prefisso per. 

Cominciamo dal peccato originale della modernità, il peccato imperdonabile che leggiamo attraverso le parole di Primo Levi e del suo Se questo è un uomo: è possibile perdonare l'orrore del genocidio?

Ma chi è che perdona se le vittime non possono più perdonare? 

A questa e ad altre domande cercheremo di rispondere provando a chiederci in che modo il perdono sia legato alla memoria e alla conoscenza trasparente e affidabile delle ferite dell'umanità. 

Il mio commento è tratto dal mio volume Scontro tra culture e metacultura scientifica: l'Occidente e il diritto naturale, in cui avevo già trattato questo tema . 
Il perdono è un concetto puramente morale che non può entrare nella sfera giuridica. 

Secondo Eraclito il male è l'infrazione della norma naturale, che implica, non il bene, ma il ristabilimento dell'equilibrio, cioè la legalità, che è assenza di male. La giustizia non esisterebbe se non esistesse i suo contrario, ma il suo contrario non può essere il bene perché sopravenzerebbe verso l'alto, in senso opposto al male, l'equilibrio della giustizia, che è un riportare le cose su uno stesso piano. 

E la giustizia è essenzialmene vendetta perché soltanto la vendetta, quando sia proporzionale al male, ristabilisce l'equilibrio. Alla giustizia si contrappone la morale, le cui norme riguardano la distinzione tra il buono e il cattivo, che sfugge al criterio della giustizia        
 in quanto implica un relativismo di valutazioni che dipendono dalla natura del soggetto. 

La corruzione di questo importante concetto avviene nella filosofia socratico-platonica, ma non nell’ultimo Platone, e per essa, tramite il neoplatonismo, si estenderà al cristianesimo, che massimamente, con la morale del perdono, dando una connotazione negativa alla vendetta, ha rappresentato, con conseguenze tuttora evidenti, nella concezione della giustizia penale, pur in contrasto con quella civile, dove rimane fondamentale il risarcimento del danno, la massima corruzione del concetto di giustizia, perché ha preteso di anteporre la redenzione del colpevole al risarcimento della vittima, facendo dipendere confusamente e pericolosamente il diritto dalla morale. Esempio di tale confusione è la condanna della pena di morte, che dà più valore alla vita dell’assassino che a quella della vittima innocente.

Se Heidegger ha inteso la filosofia socratico-platonica come inizio del mascheramento dell’essere e del suo conseguente oblio, si può dire che con l’oblio dell’essere è iniziato anche l’oblio della giustizia, tesa non tanto ad impedire il male, quanto ad imporre pericolosamente un certo concetto di bene. Il limite del mascheramento è stata la tradizione giusnaturalistica concretizzatasi nel corpus delle leggi del diritto romano nel III secolo con i quattro giureconsulti Papiniano, Modestino, Paolo e Ulpiano. In tale tradizione rimane vivo il concetto di legge naturale quale fondamento della legge civile, con la finalità di difendere i diritti risarcendo il danno, e non di redimere il colpevole per favorirne il reinserimento nella società, essendo quest’ultima finalità estranea all’ambito del diritto per il fatto di appartenere a quello della morale.


Il diritto romano consolidò la teoria che la giustizia dovesse ritenersi pubblica vendetta nei confronti di chi attentasse al bene comune, identificato con l’utilità sociale. Nell’età moderna il diritto romano fu elaborato da filosofi e giuristi secondo l’indirizzo del diritto naturale, per trovare in esso la giustificazione della libertà di pensiero, ma anche quella della pena di morte in difesa dell’ordine pubblico1

Nelle Lettere2Agostino evidenzia come il perdono possa avere conseguenze negative su chi, invece di correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua arroganza, oppure, correttosi nella sua condotta, induca tuttavia altri ad approfittare sperando in eguale impunità. Riprendendo il pensiero di S. Paolo, Agostino scrive: “Se fai il male, abbi paura, poiché l’autorità non senza ragione porta la spada; essa infatti è strumento per infliggere punizione ai malfattori in nome di Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De libero arbitrio che “se l’omicidio consiste nel distruggere o uccidere un uomo, talvolta si può si può uccidere senza commettere peccato; questo vale per il soldato col nemico, per il giudice o il ministro con coloro che fanno del male”.

In Agostino prevale la teoria della prevenzione come giustificazione della pena di morte. Una funzione prevalentemente retributiva, oltre che emendativa e di prevenzione, ha, invece, la pena di morte per S. Tomaso, che nella Summa theologica (II, II, q. 68, a.1) giustifica la pena come vendetta che si esercita sui malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio e nella Summa contra Gentiles (III, cap. 146), dopo aver scritto che la vita del delinquente deve essere sacrificata, allo stesso modo in cui “il medico taglia a buon diritto e utilmente la parte malata, aggiunge che “uccidere un uomo che pecca può essere un bene come uccidere un’animale nocivo. Infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo di un animale nocivo”. Vi è dunque da domandarsi quale credibilità possa avere oggi la Chiesa, che, rinnegando circa 2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha abolito nel 1999 dal Catechismo la pena di morte. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale (dettata dal sentimento), ma è di fatto espressione di inferiorità giuridica, causata dalla corruzione del diritto da parte della morale.

1 Sulla pena di morte nella storia occidentale cfr. di Alberto Bandolfi Pena e pena di morte. Temi etici nella storia, Edizioni Dehoniane 1985; di Italo Mereu La morte come pena. Saggio sulla violenza legale, Donzelli 1982. L’esame che quest’ultimo testo fa di tutti gli eccessi, non escluse diverse forme di tortura, nell’applicazione della pena di morte come uso politico per sbarazzarsi degli avversari non deve essere confuso con il discorso sui principi.

2 Agostino, Lettere, II, Città Nuova, 1971, pp. 541-47.  
T. Sellin1volle dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli Stati Uniti non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte per omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,2 che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre, avvalendosi di diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il periodo 1935-69 ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il verificarsi di sette o otto omicidi in più. Infatti il criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua condotta al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte diminuisce il desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono argomenti utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di quella della sua vittima.

Chi è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i mass media, operando una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità giuridica. Da notare come gli stessi mass media, essendo totalmente privi di alcuna capacità o volontà di discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale nasce soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la telecamera per far vedere il condannato che soffre o l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto che non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta che non esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha seri argomenti contro di essi.


Sia almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia disposto a perdonare il suo eventuale assassino, perché lo Stato non si sostituisca alla volontà della vittima innocente.3 E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad anticipare la vittima.4 Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide la giustizia.  Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una sentenza. 
I parenti della vittima non possono sostituirsi ad essa nel concedere il perdono perché essi solo indirettamente sono parte in causa per le conseguenze negative che essi hanno subito affettivamente a causa della perdita di una persona cara.     
 
1 The Death Penalty, The American Law Insitute, Philadelphia 1959.

2 The deterrent effect of punishment: a question of life and death, American Economics Reviw, 65, 1975.

3 In questo senso si può ritenere ampliata la considerazione svolta da Platone nelle Leggi (IX, 869), dove è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) – il delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la madre) possa avere il tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso il patricidio (o matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto purificarsi.

4 Il nostro ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti (II Trattato del governo civile, II, 11), osserva, contro Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde il diritto alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo diritto si trasferisce da lui alla società. D’altra parte, non si aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la pena di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale. Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro cui si devono usare leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito equipaggiato al massimo con fucili da caccia. Poiché è impossibile estirpare la mafia con metodi democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte di altre regioni. Ha scritto Aristotele (Politica) che ogni popolo ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a comandare dal carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto significa corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà.  
La concezione antropocentrica del diritto si palesa anche laddove, in contrasto con il diritto naturale, si pretenda di giudicare in nome del popolo. Così in Italia il giudice emana, assurdamente, le sentenze, sia civili che penali, in nome del popolo italiano. Come se un popolo potesse essere il fondamento della giustizia e non meritasse, invece, di essere, a sua volta, giudicato alla luce di una giustizia universale (o naturale, secondo la concezione di Platone e di Aristotele) che sovrasta le particolarità storiche da cui nasce il diritto positivo.1


1 Diversamente si giustificherebbero tutte le sentenze emesse, per esempio, dai tribunali nazisti in nome del popolo tedesco. Né vale osservare che lo Stato nazista era uno Stato antiliberale. Qui vale il principio, fatto valere da Kart, (Metafisica dei costumi, Parte, II, Sez. I, Nota) secondo cui nel sancire una legge si deve considerare idealmente “la ragione pura giuridicamente legislatrice”, a cui tutto il popolo, compreso il legislatore, è sottomesso, non essendo il popolo fonte della ragione pura legislatrice.

Se il perdono fosse elevato a norma universale tutti i peggiori criminali della storia dovrebbero essere perdonati, perché è impossibile stabilire un limite al perdono, che rimane, comunque, soggettivo, non potendo essere un concetto giuridico.Vi è stato un filosofo francese (di origine ebraica), Jacques Derrida, che ha preteso di sovvertire i termini del rapporto tra morale e diritto facendo riferimento ad un etica universale che che sovrasti il diritto, arrivando alla conseguenza assurda che il vero perdono deve perdonare l'imperdonabile.  

Derrida oppone all’etica del dovere “l’etica pura” come giustizia superiore al diritto per promuovere un cosmopolitismo fondato sulla presenza dell’altro che è in ciascuno. Soltanto decostruendo ogni religione, privandola del significato connesso al verbo religare (o legare) per sostituirlo con quello connesso a relegere (o raccogliere) si può, secondo Derrida, giustificare una relazione tra differenze, superando i limiti tra ebrei, cristiani e islamici.1 Derrida scrive che “i diritti umani non sono mai sufficienti…essi non sono naturali, ma hanno una storia...La giustizia non si ferma al diritto…L’etica pura comincia al di là del diritto”. Derrida ritiene che il diritto sia fondato sulla violenza perché fondato sull’autorità. Ma per giustificare tale conclusione egli, giocando sul sofisma dell’equiparazione dell’illegalità alla violenza, scrive che anche una Costituzione è fondata sulla violenza perché i suoi principi, in quanto fondanti, sono sempre fuori della legalità. Derrida non ha aggiunto che da ciò deriverebbe assurdamente che anche il suo diritto alla conservazione della vita e alla libertà di pensiero, se considerato come diritto naturale, sarebbe fuori della legalità, e pertanto fondato sulla violenza, mentre, al contrario, nessuna legge, anche se ingiusta, potrebbe mai generare violenza. Dalla giusta premessa che i principi non sono fondati sulla legalità, dato che sono essi il fondamento della legalità, Derrida conclude illogicamente che è impossibile un fondamento razionale del diritto, perché, stando tale fondamento al di là dell’opposizione tra legalità e illegalità, esisterebbe soltanto “il fondamento mistico dell’autorità”,2 che può essere anche il terrorismo, che soltanto un confine sottile separa dall’azione rivoluzionaria.3 Conclusione dettata dalla falsa premessa che al di là della legalità vi sia soltanto la violenza, assunta solo come fondamento del diritto e non come strumento della sua conservazione, a causa della mancata considerazione che anche il diritto naturale può richiedere la violenza come sua difesa. D’altra parte, Derrida, dovendo condannare il terrorismo in quanto manifesta un “disprezzo per la vita e per la legge…al servizio del fanatismo religioso”,4 precisa che esso, al contrario della democrazia, manca di una proiezione verso un futuro di perfettibilità.

Decostruendo il concetto di giustizia con il contrapporlo al concetto di legge universale, Derrida identifica l’etica con la giustizia, che non riguarda l’universale ma il particolare, cioè gli individui nel loro “relazionarsi all’altro nella sua piena alterità”.5 La giustizia non può essere costretta all’interno del diritto, in quanto “un’azione che si accontenta di obbedire ad un sapere non è che una conseguenza calcolabile…Il dovere è dunque al di là del dovere, e si deve al di là del diritto…Laddove vi è una regola determinabile so quello che devo fare, e, visto che un tale sapere fa la legge…non c’è più posto né per alcuna giustizia, né per la responsabilità”.6

Dall’“etica pura”7 Derrida fa discendere il concetto di “perdono”, che è tale soltanto in quanto si perdona ciò che è imperdonabile, e non si richiede al colpevole di fare ammenda del suo errore.

La mancata considerazione del diritto naturale quale fondamento di uno Stato liberale porta Derrida a confondere la giustizia con l’utopia dell’etica. Pertanto sia la richiesta, formulata da Derrida, di una riforma dell’ONU, perché nelle sue decisioni non dipenda dagli Stati più ricchi e sia dotata di un’autonoma capacità di intervento militare, sia la sua dichiarata preferenza per una democrazia, in quanto capace di perfettibilità, non possono essere, a loro volta, frutto della follia morale del decostruzionismo, giacché sia l’una che l’altra implicherebbero un concetto di diritto che non sia fondato sulla ragione del più forte, e tanto meno sull’“etica pura”, intesa come apertura incondizionata verso l’altro.

Di Derrida – che ha smesso di predicare inganni nell’agosto del 2004 - si può dire che il suo decostruzionismo non può non rivoltarsi coerentemente contro se stesso per decostruirsi a sua volta, se è vero almeno che tutto è scrittura e nulla vi è fuori del testo, per cui anche tutto ciò che Derrida ha scritto è solo scrittura, che, contraddittoriamente, vorrebbe porsi fuori del testo e pretendere una normatività rivolgendosi al mondo, anche se entro una pura utopia morale. E chi non è coerente con le sue premesse dovrebbe soltanto tacere, invece di predicare inganni.
1 Fede e sapere, in La religione. Dizionario filosofico Europeo, Laterza 1955.

2 Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità (1994), Bollati Boringhieri 2003.

3 Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Habermas e con Derrida, Laterza 2003, op. cit., p. 179.

4 Ibid.

5 Forza di legge, op. cit., p. 38.

6 Filosofia del terrore, op. cit., pp. 143-4.

7 Ibid., p. 142.
 

2 commenti:

  1. Solo Dio puo' giudicare e punire.
    Nessun assassino agisce calcolando i costi e i benefici.
    Niente ha più valore del pentimento nella promozione della morale comune. Non crede?

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  2. No. Altrimenti non avrei scritto ciò che ho scritto. Il perdono appartiene alla morale. Inoltre il morto non può perdonare. Nell'Antico Testamento Jahweh dice: A me la vendetta. E così gli ebrei si vendicavano in nome di Jahweh (dio degli esrciti). A parte ciò, non tiri fuori Dio,dovendo lei riferirsi anche agli atei. Di Dio non si conosce nemmeno l'esistenza e nessun credente ne conosce la natura. Dunque bisogna prescinderne.

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