Premetto che Giordano Bruno secondo me fece male a non ritrattare ciò per cui venne tenuto prigioniero in Vaticano per circa 8 anni. In questi anni non ebbe più la possibilità di leggere e di scrivere. Anni buttati via. Di fatto la sua attività di filosofo terminò all'età di 44 anni, essendo stato condannato al rogo a 52 anni nel 1600. Prima ritrattò, poi cercò di arrivare ad un compromesso, poi si pentì del compromesso e decise di non ritrattare più una sola frase di tutti i suoi scritti. Fece bene o fece male? Secondo me fece male. Io al suo posto avrei ritrattato tutto ciò per cui era stato accusato. Per una considerazione opportunistica. Ormai i suoi scritti erano stati stampati tutti anche fuori d'Europa e dunque non vi era il pericolo che di essi non rimanesse memoria. E poi si sarebbe potuto rifugiare in uno Stato europeo dove non avrebbe corso il pericolo di essere condannato al rogo una volta lasciata l'Italia. Avrebbe continuato a leggere e a scrivere altre opere, nonostante ne abbia lasciate così tante da indurre a pensare che ormai avesse espresso compiutamente il suo pensiero e non avesse più altro da aggiungere.
Galileo fece bene a ritrattare. Si salvò la vita e visse altri 10 anni che utilizzò per scrivere il suo capolavoro Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze. Si trattava della statica e della dinamica.
Galileo fece bene a ritrattare. Si salvò la vita e visse altri 10 anni che utilizzò per scrivere il suo capolavoro Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze. Si trattava della statica e della dinamica.
Quando
nel mese di febbraio del 2000 pagai per mettere un necrologio in occasione del
quarto centenario della morte di Giordano Bruno L’unione
sarda, quotidiano di
Cagliari, mi censurò una parte del contenuto perché conteneva un
riferimento alla responsabilità della Chiesa cattolica. Non vi
è libertà di pensiero in Italia.
Ciò che segue è tratto dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Nel
libro di Giosuè
si legge che Jahweh adempì alla richiesta di Giosuè di
fermare il sole per un giorno perché gli israeliti avessero il
tempo di portare a termine il massacro dei nemici (10, 12 sgg.).
Sulla base di questa frase fu condannato Galileo. Se si
contestualizza questo dio nel racconto del libro di Giosuè
vi è da rimanere sconcertati nel domandarsi come si sia potuto
credere per secoli, e si creda ancor oggi, che lo stesso dio che
appare in detto libro quale ispiratore e mandatario di tutti i
terribili massacri descritti nella Torah dagli israeliti per
prendere possesso delle terre e delle città ad essi promesse
dal loro dio – quello stesso dio che, mentre ordinava al sole di
fermarsi, faceva cadere pietre contro i nemici degli israeliti (la
scena è tragicomica) - potesse avere titolo per essere
considerato Dio anche dai cristiani ed opposto come capo di accusa
contro Galileo. La Chiesa cattolica ha dimostrato di essere stata
ancora più ridicola del dio ebraico. Il
racconto mitologico dell’arresto del sole ha arrestato in Occidente
anche la conoscenza scientifica.
Non
basta che la Chiesa abbia recentemente chiesto perdono per avere
condannato Galileo,1
che comunque continuò a vivere, a studiare e a scrivere per
altri dieci anni, anche se gli fu proibito di continuare a professare
la teoria eliocentrica per salvare l’immagine ridicola di un dio di
sangue che, mentre fermava il sole perché si compisse la
strage attuata dagli ebrei, lasciava cadere pietre contro
popolazioni che si difendevano. Si aspetta ancora che la Chiesa
chieda perdono soprattutto per avere condannato al rogo per accusa di
panteismo Giordano Bruno nel 1600 e Giulio Cesare Vanini nel 1619, a
Tolosa, all’età di 34 anni, dopo che aveva pubblicato il De
admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis.
Allo
stesso modo in cui i protestanti calvinisti dovrebbero chiedere
perdono per avere mandato al rogo, nel 1553 a Ginevra, all’età
di 42 anni, lo spagnolo Michele Serveto, a cui gli storici della
scienza2
attribuiscono il merito di avere spiegato per la prima volta, nel
Christianismi
restitutio (1553),
anche se per intuizione e non per pratica medica, l’effettiva
circolazione del sangue ancor prima della trattazione scientifica che
ne diede l’inglese Harvey del De
motu cordis (1628), e
a cui non fu perdonato di avere negato nella stessa opera la trinità.
Come dovrebbero i calvinisti vergognarsi di avere decapitato a Berna,
nel 1566, l’antitrinitarista Valentino Gentile, esule calabrese.
Tralasciamo di nominare altri perseguitati meno noti. A questi
pensatori non è stato ancora chiesto perdono perché o
non sono famosi come Galileo, o perché, pur essendo famoso,
Giordano Bruno non era uno scienziato. Eppure fu lui che - andando
oltre Galileo, che riteneva ancora che il mondo fosse finito -
concepì un numero infinito di sistemi solari, oltre
l’antropocentrismo perdurante di Galileo.
1
Va ricordato che Copernico, di cui Galileo difese il sistema
eliocentrico (esposto nel De
rivolutionibus orbium coelestium,
1543), era un parroco polacco cattolico, che aveva studiato per
circa 10 anni a Padova. La condanna ufficiale del sistema
eliocentrico iniziò con la successiva Controriforma.
2
Cfr. per esempio Marie Boas, Il
Rinascimento scientifico 1450-1530 (1962),
Feltrinelli 1973, pp. 226-30: A. Rupert Hall, La
rivoluzione scientifica 1500/1800
(1954), Feltrinelli 1976, pp. 137-39. Su Serveto e su Socino, come
su tanti altri cosiddetti eretici, cfr. per tutti Massimo Firpo Il
problema della tolleranza religiosa nell’età moderna,
Loescher 1993 (1978).,con antologia di testi degli “eretici” e
con amplia bibliografia.
Ancor
oggi non si capisce come Agostino non sia stato mai considerato un
eretico dalla Chiesa cattolica. Egli avrebbe meritato il rogo più
di Giordano Bruno, che, panteista, poteva essere considerato solo un
nemico esterno alla Chiesa, non un eretico, e dunque non pericoloso,
mentre è pericoloso l’eretico, che agisce dall’interno
di una certa dottrina minandola in qualche suo presupposto dogmatico.
La Chiesa cattolica, di fronte agli eccessi di Agostino - che
erano gli stessi eccessi di S. Paolo
– si limitò a moderarli con S. Tomaso, secondo cui la
“grazia” è un aiuto in più che l’uomo ha ricevuto
tramite il sacrificio della croce per operare il bene e meritare la
salvezza con le opere. In realtà S. Tomaso era agli antipodi
della concezione agostiniana, che privava Dio della razionalità
del Verbo, che la Chiesa, da Nicea in poi, considerò coeterno
con la volontà del Padre, per cui il Padre, la volontà,
la potenza, non poteva, dall’eternità,
decidere alcunché senza l’Intelletto del Figlio. Era la
rivincita, ancora una volta, del razionalismo neoplatonico, filtrato
attraverso Aristotele, di S. Tomaso, contro l’irrazionalismo
ebraico di Agostino e di una faccia, quella irrazionalistica,
dell’ebreo S. Paolo. E sarà la Controriforma cattolica che,
ispirandosi a S. Tomaso, salverà la dottrina cristiana
dall’irrazionalismo di Agostino e della Torah.
Ma
in compenso, la vittoria della Torah con la Riforma protestante - che
separò di principio la religione dalle sue commistioni con lo
Stato, anche se di fatto i principi tedeschi riformati si fecero
attivamente paladini della Riforma per ragioni politiche, cioè
per rendersi indipendenti dal papato – si ritorse contro la stessa
Torah, portando alla formazione dello Stato laico.
1
Come. d’altra parte, la vittoria del razionalismo cristiano
vincente a Nicea salvò la ragione occidentale della filosofia
greca - specialmente di Platone e di Aristotele - dall’irrazionalismo
ebraico, ponendo le premesse delle due più grandi eredità
che l’Occidente ha ricevuto dall’antichità classica
tramite il cristianesimo: la rivoluzione scientifica del ‘600 e il
diritto naturale del giusnaturalismo moderno entro la concezione di
uno Stato laico.
1
Cfr. sull’argomento la classica opera di Roland H. Bainton, La
Riforma protestante
(1952), Einaudi 1958.
Dalla verità scientifica, e perciò
metaculturale, della discendenza dell’uomo da altre specie animali
e della comune origine di tutte le forme di vita la “verità”
del cristianesimo deve trarre coerentemente le conseguenze, avendo
riconosciuto, con un intervento pubblico di Giovanni Paolo II nel 1996 la verità scientifica
del darwinismo.1E
da tale verità scientifica discende che, se
esiste un diritto naturale, questo non può essere attribuito
alla sola natura umana.
Con le conseguenze di questa verità scientifica la Chiesa
cattolica rifiuta ancora di confrontarsi sul piano dei diritti, con
la conseguenza che il Dizionario
di teologia morale
del cardinale Francesco Roberti ripete la nauseante concezione
secondo cui “l’ordine gerarchico delle creature, voluto dal
Creatore, ha posto l’uomo re e quindi proprietario ed usufruttuario
di tutti gli esseri inferiori. Gli zoofili perdono troppo di vista lo
scopo per cui gli animali, creature irragionevoli, sono stati da Dio
creati, cioè a servizio ed uso dell’uomo”.2
A
questa concezione si può rispondere con una considerazione di
Konrad Lorenz: “Neppure le conoscenze che fanno epoca, quelle di
cui siamo debitori ad un Giordano Bruno o un Galileo Galilei, hanno
avuto un profondo influsso sulla nostra concezione del mondo...Con
troppa facilità gli uomini si considerano il centro
dell’universo, qualcosa di estraneo e di superiore alla natura...Le
grandi scoperte delle scienze naturali inducono l’uomo a un senso
di umiltà: proprio per questo vengono avversate...La cosa più
detestabile per l’uomo è sapere di non essere altro che
un’escrescenza del grande albero della vita...”3
1
La divulgazione scientifica sull’evoluzione si è espressa
recentemente nel volume di 764 pagine di Piero e Alberto Angela (La
straordinaia storia della vita. Dalle prime molecole organiche
all’uomo d’oggi,
Mondadori 1999). Si tratta di un volume di facile lettura che espone
con linguaggio piano difficili argomenti. Ma è un testo che,
dovendo essere di divulgazione, offre solo indirettamente, e al
lettore pienamente capace, motivi di riflessione filosofica. Gli
autori, per esempio, citano la teoria di Ageno sull’origine della
vita (p.40), ma si astengono dal riportare le considerazioni di
Ageno sulla mancanza di un progetto nell’evoluzione. Quando viene
citato Monod si sfiora appena l’incidenza del caso sull’evoluzione
(p. 213). Tutte le più importanti fasi dell’evoluzione sono
sempre ben correlate dagli autori con i mutamenti climatici della
Terra. In tali occasioni gli autori sfiorano appena l’argomento
della casualità, domandandosi: “Nel caso non si fosse
verificata la catastrofe della fine del Cretaceo (con la loro
conseguente estinzione di massa), i dinosauri avrebbero potuto dar
luogo a una linea <>? (p. 310). Sarebbero
stati capaci di trasformarsi in animali sempre più
intelligenti, in un sapiens
sapiens che avesse
“una forma sostanzialmente equivalente a un Australopiteco” ?
(p. 311). Gli autori avrebbero dovuto domandarsi anche che cosa
sarebbe successo prima della formazione dei grossi rettili se,
all’inizio del Triassico (240 milioni di anni fa) l’evoluzione
dei terapsidi (cioè dei rettili che ormai avevano assunto
la forma dei mammiferi) non fosse stata interrotta dai mutamenti
climatici che hanno portato la Pangea – che aveva avuto
precedentemente una diminuzione della temperatura tra la fine del
Permiano e l’inizio del Giurassico (250 milioni di anni fa),
favorendo l’espansione dei mammaliani - da un clima freddo ad un
clima caldo e arido a causa dello scioglimento delle calotte polari
( p. 262), dando luogo ad un clima che, interrompendo l’evoluzione
ulteriore dei terapsidi, riducendo i mammiferi a poche specie di
piccola taglia, sopravvissute al margine dell’evoluzione dei
dinosauri, ha favorito l’evoluzione dei rettili, meglio
predisposti al clima caldo.
Né
gli autori omettono che il nostro più lontano antenato può
essere trovato nel Purgatorius
(risalente a 70 milioni di anni fa), uno dei primi mammiferi,
contemporaneo dei dinosauri, una specie di ratto piccolissimo che
viveva sugli alberi, mangiava foglie, cortecce e granaglie (p.434).
Ma,
come vi era da aspettarsi, gli autori preferiscono, per quanto
riguarda l’uomo, la teoria secondo cui il sapiens
sapiens non si
sarebbe evoluto direttamente dall’erectus,
già presente dall’Europa all’estremo Oriente, ma si
sarebbe sovrapposto all’erectus
partendo dall’Africa circa 100 mila anni fa, evitando di
rispondere alla domanda riguardante la fine che avrebbero fatto
tutti gli erectus,i
cui ritrovamenti fossili giungono sino a 300 mila anni fa e che,
bene adattati su tutta la Terra, erano capaci ormai di dominare con
la loro intelligenza sotto tutti i climi. Gli autori si limitano a
scrivere che le popolazioni di sapiens
sapiens “si
sostituirono alle antiche popolazioni, là dove esistevano,
cancellandole geneticamente” (p. 695). Che significa
“cancellandole geneticamente”? E’ impossibile pensare che i
sapiens sapiens
abbiano eliminato fisicamente tutti gli erectus,
dati i grandi spazi dall’Europa all’Asia e data la scarsa
popolazione di allora. E’ stato calcolato da Edward S. Deevy che
“300 mila anni fa nel mondo vivevano circa un milione di individui
e che 25 mila anni fa la cifra, secondo le sue stime, era salita a
oltre 3 milioni e 300 mila” (p. 672). Si potrebbe pensare che si
siano fusi geneticamente con gli erectus.
Ma anche in tal caso vi sarebbe stata un’evoluzione
<> del sapiens
sapiens, con
evoluzioni locali. Gli autori non hanno tenuto presente nel loro
testo (privo di bibliografia) che sono stati trovati a Petralona
(Grecia) e a Steinheim (Germania) crani di homo
sapiens arcaico
risalenti rispettivamente a 350 mila e 200 mila anni fa. Crani
simili sono stati trovati in Cina (Niles Eldredge e Iam Tattersall,
I miti dell’evoluzione
umana, Boringhieri
1982, pp. 158 sgg.). Più in generale, il sapiens
arcaico copre abbastanza bene, sia in Europa che in Asia, la
distanza tra l’erectus
e il sapiens
sapiens. Se ne deduce
(op. cit., p. 164) che “le fluttuazioni climatiche del tardo
Pleistocene devono aver fornito condizioni ideali per la
frammentazione e l’isolamento delle popolazioni ominidi di tutto
il globo, con successive differenziazioni locali tra popolazioni,
che possono essere accompagnate o non da speciazioni”. D’altra
parte, come spiegare l’assenza in Africa dell’uomo di
Neanderthal e la sua presenza in Europa e nel Medio Oriente se non
supponendo che l’evoluzione dall’erectus
fosse già iniziata fuori dell’Africa? Contro la teoria del
“collo di bottiglia”, formatosi in Africa, che avrebbe dato
luogo al sapiens
sapiens (teoria
dell’Eva nera) si era già espresso il genetista Theodosius
Dobzhansky (L’evoluzione
della specie umana,
1962, Einaudi 1965, pp. 192 sgg.), che definisce “ le razze
reliquie dello stato preculturale dell’evoluzione” (p. 275). Ma
gli Angela preferiscono riferirsi alle conclusioni del genetista
Luigi Luca Cavalli Sforza, che, sulla base dell’analisi delle
mutazioni (tra il 2% e il 4% ogni milione di anni) del DNA
mitocondriale, che si trasmettono solo alla femmina, avrebbe dedotto
che il ceppo ancestrale di tale DNA sia africano e debba risalire ad
un periodo tra i 140 mila e i 200 mila anni fa. Conclusione che
contrasta con gli studi di paleontologia di Carleton Coon (
Origin of Races,
1962), secondo cui il sapiens
sapiens deriverebbe
da distinte evoluzioni dell’erectus
nei diversi continenti.
Ma
anche sul piano dell’analisi genetica è risultato che le
conclusioni di Cavalli Sforza non siano attendibili se si considera
l’evoluzione che hanno subito alcune sequenze di amminoacidi, dopo
che fu applicato lo stesso metodo di analisi che Frederick Sanger
(premio Nobel) applicò per definire la sequenza dei 51
amminoacidi dell’insulina. Risultò che gli uomini
differiscono dagli scimpanzé dello 0, 3, dai gorilla dello 0,
6, dagli oranghi del 2, 8, dai macachi del 3, 9 e dai cappuccini
del 7, 6 (Sherwood L. Washburn e Ruth Moore, Dalla
scimmia all’uomo,
Zanichelli 1984, pp.10 sgg.). Non si vede dunque perché una
lunga sequenza di DNA mitocondriale accertata in tutti i gruppi
umani attuali, isolando quei geni che si ritiene presiedano soltanto
ai caratteri secondari, debba far ritenere fondata un’origine
comune dell’uomo moderno da un gruppo ancestrale africano, più
di quanto una comunanza tra lo scimpanzé e l’uomo moderno
abbia fatto ritenere comune la loro origine. Appare dunque
ideologica l’affermazione di Cavalli Sforza (riportata dagli
Angela) secondo cui il sapiens
sapiens si sarebbe
diffuso dall’Africa circa 60 mila anni fa. Dopo tale data, dicono
gli autori, vi sarebbero state le prime costruzioni di zattere, con
cui l’homo
sapiens sapiens
avrebbe incominciato
a navigare tra le isole dell’Indonesia circa 40 mila anni fa. Ma
agli autori è certamente sfuggita la notizia data da Michael
L. Moorwood dell’Università del New England (Australia), e
riportata da Angela M. H. Schuster in una pagina del domenicale
Corriere della scienza
del Corriere della
sera del 1998 (di
data che non siamo in condizioni di precisare), del ritrovamento di
utensili nell’isola di Flores (Indonesia, gruppo delle isole
Wallaca) risalenti a 800 mila anni fa, e perciò attribuibili
all’erectus.
Da tale ritrovamento risulterebbe documentata la capacità
dell’erectus di
navigare, con la conseguente smentita della convinzione che le prime
imbarcazioni dovessero risalire ad un periodo compreso tra i 60 e i
40 mila anni fa, giacché l’isola di Flores rimase sempre
separata dal resto dell’arcipelago per circa 19 km. La scoperta
avvalora la teoria di Paul Sondar secondo cui gli uomini furono
responsabili dell’estinzione degli elefanti nani (stegodonti).
Questa notizia renderebbe infondata anche l’affermazione secondo
cui le differenze razziali debbano essere fatte risalire ad un
periodo successivo alla diffusione del sapiens
sapiens dall’Africa
a partire da 60 mila anni fa (p. 694).
Se
l’origine del sapiens
sapiens non fu
policentrica, ma dovuta alla sua diffusione dall’Africa, come mai
il sapiens sapiens
africano è rimasto sempre alla cultura della capanna dei
raccoglitori-cacciatori sino alla colonizzazione europea dell’Africa
negli ultimi due secoli? Questa domanda attende ancora una
risposta.
Inoltre
abbiamo tratto noi alcune riflessioni dall’esposizione riguardante
gli erectus.
Gli autori scrivono che “le noci raccolte in una sola giornata
forniscono energia per ben tre giorni. Mentre l’energia che si
ottiene statisticamente da una giornata di caccia vale per un solo
giorno” (p.597). Si aggiunge che “certe osservazioni fatte oggi
sui Boscimani mostrano che il 70% della dieta proviene dalla
raccolta, con sole dodici ore settimanali di lavoro da parte delle
donne, mentre per ottenere il restante 30% con la caccia gli uomini
debbono impiegare oltre ventun ore” (p. 606). Si
può dire che l’uomo odierno sotto questo aspetto non sia
diventato più intelligente dell’erectus
e dei Boscimani, se si considera che preferisce destinare un
ettaro di terreno a pascolo o a coltura di mangime per trarne 250 kg
di proteine di carne piuttosto che trarre dalla stessa estensione
2500 kg di proteine vegetali per uomini e se si considera che per
produrre una tonnellata di carne bovina occorre 70 volte più
acqua di quanta ne occorra per produrre una tonnellata di cereali.
A
parte quest’ultima nostra considerazione, gli autori non hanno
messo in correlazione l’incongruenza del comportamento
dell’erectus
e dei Boscimani con il rilievo, da essi stessi fatto, che gli
Australopiteci
(sia africanus che
robustus) erano
vegetariani, come dimostrato dai grossi molari funzionali alla
masticazione dei vegetali. L’homo
abilis non fu mai
cacciatore, ma integrò la dieta vegetariana con quella
carnivora raccogliendo i resti di animali già morti. E
ciò al fine di sopravvivere.
Fu con l’erectus,
e perciò con le prime manifestazioni culturali della specie
homo, che l’uomo
divenne carnivoro ponendosi in competizione con gli stessi carnivori
nella caccia. Se ne dovrebbe dedurre che il passaggio dalla dieta
vegetariana a quella anche carnivora fu un fatto culturale, e non
naturale. L’organismo non era predisposto, anche considerando la
dentatura, alla dieta dei carnivori. Ma fu questo un fatto casuale,
che non è stato evidenziato dagli autori, nonostante essi
abbiano ben evidenziato che l’evoluzione dell’uomo fu
conseguente ad un fenomeno fisico casuale: l’essersi prodotta 10
milioni di anni fa una spaccatura, per attività vulcanica,
che portò al sollevamento della terra lungo la linea dei
grandi laghi, che percorre verticalmente l’Africa.
Conseguentemente la zona orientale si inaridì, mentre quella
occidentale rimase coperta da foreste. Questa divisione portò
ad adattamenti diversi, perché ad ovest rimasero le scimmie,
mentre ad est, nella zona arida delle savane emersero i primi
ominidi ( p. 436). Se è così, anche questo fatto
dovrebbe denotare l’incidenza della casualità sulla
formazione dell’uomo. Ma gli autori hanno taciuto su questo
aspetto, pur apparendo chiara la casualità dalla loro stessa
esposizione.
E
tuttavia, nel considerare tutti i possibili fattori che hanno
favorito l’evoluzione dell’uomo, gli autori hanno ritenuto che
essa non sia stata la conseguenza dell’instaurarsi
dell’abitudine di procurarsi carne con la predazione, come
conseguenza, a sua volta, dell’uso di strumenti necessari per
tagliare la carne (questa era la spiegazione che Engels aveva dato,
come si è visto, dell’evoluzione del cervello umano,
facendola dipendere dal consumo della carne), ma, giustamente, dal
precedente sviluppo del cervello per l’aumentato volume e per la
maggiore quantità di connessioni neurali, anche se si può
riconoscere un processo di feedback.
Sarebbe
stato interessante ed educativa la promozione da parte degli autori,
famosi personaggi della TV per le loro benemerite trasmissioni di
divulgazione scientifica, di un dibattito in TV, su questi
argomenti, con i teologi. A tale dibattito dovrebbero partecipare
anche dei cosmologi, considerando la questione essenziale
dell’origine dell’Universo. Gli autori, infatti, hanno scritto
che il modello cosmologico del Big Bang, in base al secondo
principio della termodinamica, dovrebbe condurre l’espansione
attuale dell’Universo alla sua fine, con lo spegnimento di tutti i
soli (p. 392). “ A meno che ... l’ Universo finisca per
concentrarsi nuovamente in una condizione di altissima densità
e temperatura, forse dando luogo a un’altra esplosione, a un altro
Big Bang. E’ solo un’ipotesi, ma è ovvio che è
molto più attraente della prima”. Gli autori hanno mancato
di aggiungere (come prevedibile) che soltanto questo modello, da noi
esaminato ampiamente nel testo, potrebbe spiegare l’espansione
attuale dell’Universo senza ricorrere alla creazione divina. E’
infatti incontrovertibile che una fine dell’Universo implica, come
premessa, un inizio assoluto di esso. Da parte nostra proponiamo ai
possibili partecipanti al predetto dibattito di porre in
correlazione l’incidenza fondamentale della casualità
sull’evoluzione biologica con il modello cosmologico. Ed è
evidente il motivo. I cosmologici e gli astronomi atei (come
Margherita Hack) che non accettano il modello della successiva
contrazione dell’Universo non possono sottrarsi alla domanda “e
prima del Big Bang?” se non dando spazio ad un inizio assoluto
dell’espansione dell’Universo, e perciò alla creazione
divina. Né possono i cosmologi nascondere la testa sotto la
sabbia limitandosi ad affermare che la domanda è priva di
valore scientifico, come la stessa Hack ha affermato in una
conferenza a Cagliari (fine anni ’80) di fronte alla domanda da
noi stessi posta. Un inizio assoluto dell’espansione dell’Universo
comporterebbe una interpretazione finalistica dell’evoluzione
della vita. Non si può negare che gli argomenti siano
filosoficamente, oltre che scientificamente, correlati. Ma
un’interpretazione non finalistica dell’evoluzione, che è
l’unica scientificamente accreditata, sarebbe in contrasto con il
modello cosmologico dell’inizio assoluto dell’Universo, senza
ritorno ad un nuovo Big Bang. Tranne che in futuro si trovi un
modello che superi quello facente capo al Big Bang e alla
conseguente espansione dell’Universo.
La
necessità di una correlazione tra il tema dell’evoluzione
della vita sulla Terra e quello riguardante l’inizio
dell’espansione dell’Universo non è mai stata sinora
percepita, e perciò non è mai stata affacciata. Sono
questioni che, invece, appaiono connesse.
Quali
siano i motivi che abbiano impedito sinora un simile dibattito alla
TV è facile immaginare. Così si continua ad
alimentare quella sorta di schizofrenia in cui vive oggi, pur non a
livello di coscienza, la persona di media cultura, a causa della
scissione tra scienza e religione. Il libro di Piero ed Alberto
Angela è una mancata occasione per far valere chiaramente una
concezione della natura che non sia antropocentrica, per tutti i
riflessi negativi che ha avuto ed ha l’antropocentrismo,
alimentato soprattutto dalle religioni, sulle condizioni della vita
sulla Terra. Basti pensare al problema demografico. Ma il termine
“antropocentrismo” non appare nemmeno una volta nel libro, pur
essendo esso, in tutta la sua esposizione, un manifesto, se pur
sottinteso, contro l’antropocentrismo.
2
Ediz. Studium, Roma 1961. Nessun progresso rispetto a questa
concezione è stato fatto nella rivista dei gesuiti Civiltà
cattolica ( 7
novembre 1992) né nel Catechismo
della Chiesa cattolica
(1999), pp. 342-43.
3
Das Wirkunsgefuge der
Natur und das Schicksal des Menschen,
Munchen, p. 42.
SEGUE
Nessun commento:
Posta un commento