domenica 4 ottobre 2015

RELAX FILOSOFICO: L'IMBROGLIO METAFISICO DEL PANTEISMO



Che cosa faceva Dio prima di creare l'universo? Si annoiava da solo? La filosofia ha sempre inventato soluzioni fantasiose per i credenti. La creazione del mondo dal nulla fu inventata dal filosofo ebreo Filone alessandrino, che nacque ad Alessandria d'Egitto ma non mise mai piede in Palestina. Dagli ebrei ortodossi è considerato un eretico, ma non per creazione dal nulla (che non è in contrasto con il Genesi) ma per l' influenza che subì dal neoplatonismo. Per Platone (come per tutti i filosofi greci) la creazione dal nulla era inconcepibile, fuori della ragione. Il Demiurgo di Platone (luogo delle idee eterne e principio ordinatore del mondo) è coeterno con il mondo. Da Platone sino ai neoplatonici Plotino e Proclo Dio è trascendente rispetto al mondo, coeterno con Dio, l'Uno di Plotino, da cui emanano l'Intelletto (anch'esso trascendente) e l'Anima del mondo che è trascendente ed immanente rispetto al mondo. Come si vede il cristianesimo è nato dalle radici neoplatoniche nel concepire la trinità, corrispondente alla triade neoplatonica. Il neoplatonismo è caratterizzato dalla dottrina della reincarnazione (prima si muore e prima ci si reincarna, scrisse Plotino. E la reincarnazione non riguardava solo l'uomo, a causa della circolarita tra l'Uno e l'Anima del mondo. Con il cristiansimo purtroppo si perse biblicamente la circolarità tra uomo e natura. Ma di fronte alla coeternità di un Dio trascendente e tuttavia coeterno con il mondo fu logico pensare che Dio non fosse trascentente ma immanente al mondo. Da qui un'altra soluzione fantasiosa, che pecca maggiormente di incoerenza per le difficoltà che ne conseguono. Anche Giordano Bruno, pur martire della libertà di pensiero, non essendosi fermato nemmeno di fronte al rogo, non capì che il suo immanentismo andava incontro a difficoltà logicamente insuperabili. Non lo capì nemmeno il pur grande filosofo ebreo ateo Spinoza. Grande per aver demolito per primo tutti i libri della Bibbia con una spietata analisi storico-filologica. Si superano tutte le difficoltà lasciando perdere Dio e tutte le pseudo soluzioni filosofiche. Si torni a Parmenide: l'essere è e il non essere non è. Infatti il non essere non può essere nemmeno pensato. Gli scienziati non si pongono il falso problema dell'origine dell'universo. Esso è. E basta. Dunque è eterno. Nulla si crea e nulla si distrugge aveva già detto Eraclito. Poi Lavoisier ne fece il principio fondamentale della chimica moderna. Nonostante rimanga irrazionalmente la domanda: perché l'essere invece del nulla?
Traggo quanto segue dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.      
Non ci risulta che gli studiosi di Spinoza abbiano mai riscontrato  nel suo pensiero una grave contraddizione che dà luogo ad uno Spinoza schizofrenico, che, da una parte, privilegia un’immagine di Dio come Mente – per cui solo l’uomo, partecipe della mente divina, parteciperebbe della natura divina e della sua eternità – mentre, dall’altra, identifica Dio anche con la natura. Ma con una natura che Dio stesso disprezzerebbe, disprezzando dunque se stesso,  considerando che il Dio di Spinoza ama soltanto gli uomini e abbandona gli animali al diritto naturale basato sul diritto della forza, giustificando, d’altra parte, e contraddittoriamente, anche tutte le guerre tra gli uomini in quanto nascenti da un “difetto di conoscenza”, tale da  “non conformarsi alla nostra conoscenza filosofica” (Epistola XXIX, Epistolario, Einaudi 1974). Inoltre, se la mente umana è partecipe della mente divina, come parte del tutto, allora dove risiederebbe la coscienza del sé divina se Dio si identifica con la natura? Dio sarebbe inferiore all’uomo, essendo privo di autocoscienza, e la parte sarebbe migliore del tutto. Questa osservazione smaschera il maggiore imbroglio della metafisica di Spinoza, che non è stato rilevato nemmeno dalle pur analitiche e documentate Letture spinoziane (Carocci 2003) di Nino C. Molinu, che ha voluto salvare Spinoza dalle giustificate accuse degli animalisti scrivendo che  Spinoza “intende collocare adeguatamente nell’ordo rerum quanto per deficienza umana tarda ad elevarsi al livello dell’ordo idearum” (p. 168). Ma se i due ordini debbono corrispondere in Dio, allora deve corrispondere nella sua mente (ammesso che si sappia dove sia), ed essere razionale, anche il diritto del più forte che vige in natura, secondo Spinoza, che ha confuso il diritto naturale alla sopravvivenza con il diritto del più forte. Così Dio è sia la “sana ragione”  utilitaristica dello stato di natura, in cui vige il diritto del più forte, sia la “vera ragione” che opera nello Stato con “iI culto della giustizia e della carità” (Tractatus theologico-politicus, cap. XIX). In realtà il Dio di Spinoza è rimasto un dio dalla doppia faccia, di cui una è la faccia del dio ebraico che dà all’uomo, in quanto mente, il dominio sulla natura, per cui la concezione spinoziana è rimasta cartesianamente antropocentrica ed è fuori luogo proporre una “concezione del Deus sive natura ecologicamente rivisitata” (Molinu, op. cit., p. 171). Il dio ebraico rispunta in Spinoza a causa della subordinazione della ragione alla potenza di Dio, non vincolato, come il Dio cristiano, dalla razionalità del Logos greco. Come è stato evidenzoiato da Sergio Landucci (I filosofi e Dio, Laterza 2005, pp. 167 sgg.), tale aspetto del Dio spinoziano derivava, nei precedenti Cogiata metaphysica (Opera, I, pp. 266) di Spinoza, dal richiamo al Dio cartesiano, che è superiore,  nella sua onnipotenza, anche alle verità di ragione, che dipendono dall’esistenza di Dio. Le verità di ragione sono necessarie “respetu decreti Dei”, cioè per decreto divino,come se fossero sue creature. Ma da ciò, osserva Landucci, conseguiva cartesianemente, che rispetto a Dio, non vi era differenza tra verità di ragione e verità di fatto, rientrando entrambi  nei possibili, dipendenti dall’onnipotenza di Dio. Al contrario, nell’Etica, le verità di ragione hanno una necessità logica che non può dipendere dalla volontà (o decreto) di Dio, che rimane causa delle  verità di ragione solo nel senso che esse si identificano con la natura di Dio, che pertanto è da esse vincolato. Ma da ciò, osserva Landucci (p. 172) conseguiva nell’Etica – conservando in senso anticartesiano l’intenzione cartesiana di equiparare (rispetto a Dio) le verità eterne e il mondo creato (in quanto entrambi creature di Dio), e perciò contingenti - che anche gli eventi del mondo diventavano necessari (eterni) e vincolavano anch’essi Dio. Ma nel precedente Trattato teologico-politico, successivo ai Cogitata, “le leggi univerali della natura…non sono se non decreti eterni di Dio”, con una confusione dell’intelletto con la volontà: “chiamiamo volontà e decreto di Dio ciò stesso che prima chiamavamo suo intelletto” (cap. IV). Spinoza  ha certamente voluto evitare l’immagine antropomorfica del dio ebraico, come scrive Landucci (p. 176), ma il fatto che egli specifichi che i decreti di Dio sono eterni non ne cancella l’immagine, con la conseguente subordinazione della ragione all’onnipotenza.

In effetti, il secondo imbroglio metafisico spinoziano – dopo l’imbroglio di un Dio senza coscienza, essendo la natura - consiste nell’avere fissato le specie, e le singolarità in esse esistenti, nel tempo portandole, come Plotino (ma senza la circolarità plotiniana tra Uno e Anima del mondo), dentro la mente divina come se fossero idee matematiche e leggi della fisica, prescindendo dall’evoluzione casuale dell’universo e della vita. In questo modo, come rilevò Lovejoy (La grande catena dell'essere (Feltrinelli, pp. 160-64), si attuava il principio di pienezza traducendo l’ordine temporale in un ordine logico. Da qui il determinismo del tutto antiscientifico di un Dio che  giustifica tutto a posteriori, essendo buono per tutte le stagioni e che rende il pensiero di Spinoza, sotto questo aspetto, del tutto inutilizzabile. Il preteso rigore geometrico dell’Ethica serve soltanto a  nascondere insanabili contraddizioni. La follia antropocentrica di Hegel fu almeno coerente nell’identificare Dio con l’autocoscienza a cui lo spirito assoluto perveniva con la sua filosofia. La follia antropocentrica di Spinoza manca anche di coerenza avendo lasciato Dio (sive Natura) senza coscienza ed autocoscienza, e per di più odiatore di se stesso in quanto Natura.                              

Da Geometria delle passioni (Feltrinelli 1991) di Remo Bodei risulta uno Spinoza filosofo della coerenza, ma perché appiattito sulla vecchia immagine del saggio che deve governare le passioni e non farsi dominare da esse, senza che vengano rilevate le tante contraddizioni di Spinoza, che nell’Etica si richiama alla libertà del saggio, che ha come fine la securitas, la tranquillitasa animi (Bodei, p. 164), dall’altra considera la mancanza di saggezza come parte dell’ordine universale;  nel Tractatus, da una parte, assegna allo Stato come fine la libertà - “ciascuno per sommo diritto è signore dei propri pensieri” (Tract. Th. Pol., XX) - per cui il diritto naturale si autolimita in base alla ragione per unire la Giustizia e la Carità (con la confusione tra morale e diritto) – dall’altra giustifica uno Stato dispotico a cui si attribuisce il diritto di fare “eseguire i suoi comandi, anche i più assurdi” (ibid., XVI), salvo il diritto del popolo di ribellarsi ricorrendo anch’esso alla violenza; da una parte l’ordo amoris o amor Dei intellectualis, dall’altra il diritto naturale inteso come diritto della forza, in cui rientra, incoerentemente, l’ordine naturale divino, che giustifica tutto a posteriori. Un ordine in cui rientrano, insomma, cani e porci (esclusi però dall’ordo amoris!).         

E tuttavia, proprio uno degli aspetti del pensiero di Spinoza - la corrispondenza  tra mente e corpo, essendo la mente l’idea del corpo - in contraddizione con l’altro aspetto - l’avere privilegiato la mente di Dio per fondare su di essa l’amore intellettuadi Dio, che gli uomini, e soltanto gli uomini,  in quanto mente, possono avere nella contemplazione di Dio quale ordine geometrico del mondo – è stato motivo di ispirazione per il noto neurofisiologo portoghese Antonio Damasio (Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, 2003, Adelphi 2004) che, depurando Spinoza dell’impianto metafisico e delle sue ambiguità, l’ha ridotto a supporto della corrispondenza scientifica tra mente e cervello, per “l’influenza del corpo nell’organizzazione della mente” (p. 245). L’Etica di Spinoza, scrive Damasio, può avere ancora un significato nel senso che in essa “Spinoza intuì l’esistenza di quella saggezza neurobiologica innata e racchiuse tale intuizione nelle sue proposizioni sul conatus, cioè nel concetto secondo cui, necessariamente, tutti gli organismi viventi compiono uno sforzo di autoconservazione senza averne consapevolezza…Quando le conseguenze di tale saggezza naturale vengono registrate nel cervello  ne derivano i sentimenti, componenti fondamentali della nostra mente…(che) possono guidare un tentativo di autoconservazione deliberata… (con) un ontrollo volontario sulle emozioni automatiche. L’evoluzione sembra aver assemblato i meccanismi cerebrali dell’emozione e dei sentimenti  procedendo per gradi” (p. 103). Demolendo la dicotomia cartesiana che veniva conservata da Spinoza nella distinzione tra mente e corpo (due distinti attributi di Dio) Damasio ha capito che “un conflitto permea tutta l’Etica. In fondo, il pari statuto che Spinoza attribuisce a mente e corpo funziona solo nella descrizione generale” (p. 257). Se Spinoza avesse riconosciuto - come riconoscerà Leibniz  nella sua concezione evoluzionistica della Terra e della vita, secondo il principio natura non facit saltus - un grado di pensiero, pur privo di autocoscienza e di amore intellettuale di Dio, anche negli altri animali, oltre che nell’uomo, il suo sistema di non sarebbe stato così incoerente, e non sarebbe ricaduto nell’antropocentrica dicotomia cartesiana tra pensiero e materia. E’ per Damasio L’Errore di Cartesio (Adelphi, 1995).            
 Damasio ha mancato di rilevare la confusione in cui incorse Spinoza, nell’avere precedentemente (Tractatus theologico-politicus, cap. XVI) definito il diritto naturale come diritto della forza – scrivendo che  “il diritto di ciascuno fin là si estende dove può giungere la sua particolare potenza”, cosicché “anche l’ignorante e il violento hanno il supremo diritto su tutto ciò che il desiderio loro consiglia”  - invece di definirlo collegandolo coerentemente al concetto di conatus, che esprime “lo sforzo col quale ciascuna cosa si sforza di perseguire nel suo essere” (Ethica, III, prop. VII) , cioè la tendenza naturale di ogni organismo alla sua autoconservazione, che pone dei limiti naturali alla violenza. Egli, invece, confuse la violenza interspecifica, funzionale alla conservazione della specie, oltre che dell’individuo,  nella catena alimentare, con la violenza tout court, che nell’uomo supera i limiti naturali  nella violenza interspecifica diventando anche, innaturalmente, intraspecifica per fattori culturali, in quanto supera il limiti del conatus o sforzo naturale di ogni organismo teso a conservare il suo essere. E questo è il diritto naturale come sempre l'ho concepito, andando oltre l'antropocentrismo del giusnaturalismo moderno che lo concepì come diritto della ragione, cosicchè gli animali non umani non avrebbero alcun diritto. Le religioni hanno rafforzato questa nefasta concezione.          

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