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GLI AGNELLI NON RISORGONO
A PASQUA
Ci risiamo: è pasqua un’altra volta per
le persone di buona volontà, che però non possono ignorare che non solo di
resurrezione saremo qui a parlare, perché altre morti incombono che saranno
però definitive, senza riscatto né nuove vite davanti. Gli agnelli sono nati da
poco e fra pochi giorni saranno teneri al punto giusto. Ancora un po’ di latte
dalla mamma, quella che ululerebbe se solo sapesse dove vengono portati i suoi
piccoli, partoriti magari nella fantasia di vederli correre nei prati verdi dei
loro desideri. E invece è sui camion che vengono caricati,
ammassati l’uno addosso all’altro a belare a un cielo che tanto non
si scompone perché se ne frega del dolore di quaggiù, e poi dentro all’inferno:
gemiti e bestemmie, lamenti e imprecazioni, braccia forti e lame
affilate, e poi sangue, sangue ovunque. Senza perdere tempo, perché ce ne
sono proprio tanti da legare e poi ammazzare, e per quanto si sia esperti a
farlo a catena di montaggio, un po’ di tempo per sgozzare occorre e sono
tanti i cuccioli necessari a soddisfare tutti quelli che l’agnello pasquale,
inteso come arrosto, lo considerano irrinunciabile, per quanto a
giustificazione non ci siano certo fame nè digiuni da compensare: è solo
che chi ama Dio a quel sacrificio di un innocente sembra non voler proprio
rinunciare, non sia mai che, senza l’agnello a riproporlo, qualcuno si
scordi del dolore che Gesù ha sofferto, vittima innocente e senza scampo,
inerme e dolorante. Ma anche chi con la metafisica e l’al di là non ha grande
dimestichezza e, diciamolo, neppure il benché minimo interesse, non ci
sta a sentirsi escluso: se anche non richiama l’agnello di Dio che
toglie i peccati dal mondo quello che vuole nel piatto, è pur sempre una
gustosa incarnazione.
La mattanza degli agnelli non potrebbe
neppure essere immaginata nella sua raccapricciante violenza, se non ci fossero
i filmati visibili in rete e le ancora timide inchieste televisive a sbarrare
la strada ad alibi costruiti sull’ “io non immaginavo proprio”. Nella
mattanza è davvero arduo rintracciare richiami alla vittima
“sacrificale”: qualunque elemento “sacro” è irreperibile, indeclinabile nel
terrore degli agnelli davanti a quei laghi di sangue, incapaci di
rivolta, che si orinano addosso per la paura, forse increduli: tutto questo non
può essere vero, perché non può esistere nessun Dio così sanguinario da
sentirsi appagato dalla carneficina consumata sulla loro carne.
Convinzione ingenua, che non tiene conto delle capacità umane di elaborare spiegazioni
per ogni nefandezza e di giustificare ogni ignominia, dotando di senso
l’irragionevole. E’ all’uomo sapiente che è riuscita la barbara invenzione
della vittima sacrificale, del capro espiatorio, innocente e debole, da
investire con la mission incredibile di togliere i peccati dal mondo, quelli da
lui stesso compiuti.
Bene argomenta Andrée Girard con le sue
analisi, illuminanti nel ricercare il bandolo della matassa in alcune
delle tante forme di violenza così virulenta nella specie umana. Specie umana
in cui l’aggressività, lo sappiamo bene, raggiunge livelli talmente
stratosferici da porci costantemente sul baratro dell’autodistruzione. Proprio
per arginare il rischio, lui spiega, nel corso della storia l’aggressività,
nostra fondamentale dotazione, è stata incanalata simbolicamente su
qualcuno “altro da noi”, un capro espiatorio, che ne assorbisse una fetta
importante. Nella necessità di mettersi al riparo da possibili pegni da
pagare, vendette o ritorsioni, è stato da subito chiaro quanto fosse fondamentale
scegliere la vittima tra chi fosse debole, senza diritti, privo di tutele, non
minaccioso, impossibilitato a generare sentimenti feriti forieri
di successive vendette: ottimi gli orfani o gli schiavi, per
intenderci. Ma col tempo il meccanismo si è perfezionato: perché non
gli animali non umani, che possono essere totalmente assoggettati, che
occupano amplissime zone neppure lambite da diritti, rispetto, giustizia? A
loro si può bene affidare il compito di espiare gli errori e le nefandezze
nostre, di pagare le colpe al posto dei colpevoli: l’aggressività viene
distolta dal consesso umano ed attirata altrove, con l’attenzione rivolta a
mettersi comunque al riparo da qualsiasi conseguenza scansando, tra loro,
quelli che sono forti e pericolosi: meglio lasciar perdere leoni o tigri e
rivolgersi ad altri più gentili, innocui, inoffensivi: insomma, quelle
vittime ideali, di cui l’agnello, senza colpa e senza forza, è l’esempio più
fulgido.
In ogni caso, alla fugace apparizione
sulla terra di centinaia di migliaia di agnelli, per restare alle cifre
italiane, non verrà posta orrenda fine solo in nome di tradizioni e credenze:
altri laicissimi riti nascono e muoiono a tavola, senza sublimazioni di senso,
in esclusivo omaggio a piaceri di palato e pancia, con consumi che registrano
impennate nel periodo pasquale, ma comunque non hanno tregua nel corso di tutto
l’anno. Qualcosa però comincia a smuovere dal profondo un bel po’ di coscienze,
come dimostrano le stragi che, per quanto inaccettabilmente diffuse, negli
ultimi anni hanno visto i numeri decrescere significativamente, tanto da avere
registrato lo scorso anno circa 600.000 agnelli uccisi a fronte dei 900.000 di
pochi anni prima. Ben poco da celebrare, perché queste cifre non lo consentono
di sicuro, ma un fenomeno è innegabile: le “scriteriate campagne animaliste”,
come gli allevatori definiscono rabbiosamente gli appelli a porre fine alla
mattanza, possono contare su un meccanismo che vale la pena mettere a fuoco.
Per fare del male a un altro, umano o non umano che sia, c’è bisogno di
poter sostenere che quel male lui se lo merita: il nemico di ogni guerra, per
facilitare il compito di andare a sterminarlo, prima viene sempre descritto
come colpevole, malvagio, pericoloso in modo da sollecitare contro di lui
l’odio necessario, spesso connotandolo con epiteti animali ritenuti svilenti:
topi di fogna, cani rognosi, scarafaggi, figli di cagna sono chiamati quelli da
andare a massacrare, nella certezza che l’identificazione con animali dipinti come
tanto repellenti sarà utile a rappresentarli come degni del destino che a
quegli animali appunto è sempre riservato. Anche in delitti più casalinghi,
ideati in proprio, la vittima viene costantemente insultata e vituperata nel
momento stesso in cui viene percossa, ferita, uccisa: si insultano le donne nel
momento dello stupro, i senza dimora quando vengono brutalizzati,
l’appartenente al clan avversario quando punito. E’ il modo che abbiamo per
convincere noi stessi che siamo nel giusto e stiamo compiendo non un atto vile,
ma un’azione encomiabile, è un “sto facendo la cosa giusta” tutto a nostro
vantaggio. Il meccanismo viene applicato in forma per così dire
istituzionalizzata nei confronti di tutti gli animali che quotidianamente
assoggettiamo alle più brutali pratiche: dobbiamo dire e dirci che i maiali
sono sporchi, brutti, ricettacoli delle peggio inclinazioni per diffamarli al
punto da trasformare quasi in atto meritorio, di pulizia, giustificato e
condivisibile, il nostro ingabbiarli e scannarli; offriamo una pessima
rappresentazione dei polli, costantemente denigrati nel nostro linguaggio; la
narrazione della vita dei pesci li deindividualizza, li riduce a peso, neppure
a singole entità: solo per iniziare un elenco in realtà infinito. Questa operazione
auotassolutoria risulta francamente complicata con gli agnelli: loro non sono
sporchi, ma bianchi come il latte; non sono aggressivi, ma totalmente indifesi;
non risulta neppure siano stupidi: davanti a loro ci inteneriamo, ci
commuoviamo al loro essere indifesi, vorremmo abbracciarli e coccolarli.
Un bel problema per allevatori e
industria, che qualche difficoltà cominciano a incontrarla nel contrastare i
dilaganti manifesti pubblicitari in cui un agnellino belante, occhi nei nostri
occhi, sembra implorare di non fargli del male. Cosa opporre alla supplica
accorata? Le leggi dell’economia e del mercato, i potenziali passivi delle
aziende? Argomentazioni francamente un po’ povere per ritagliarsi uno spazio
nel miscuglio di sensi di colpa e intenerimenti che dilagano dentro di noi.
Non è un caso che la pubblicità,
che dai media cartacei e dalla televisione, ci sollecita quotidianamente, con
sprezzo ed allegria, a nutrirci di cadaveri di maiali, polli, tonni, si astenga
prudentemente dal fare altrettanto con gli agnelli: molto meglio glissare,
evitare una pericolosa esposizione della “materia”; e non si insiste tanto
nemmeno perché questa “carne tutta italiana” venga introdotta nelle mense
scolastiche, da cui a tutt’oggi pare sia esclusa.
In conclusione, un esercito di vite
appena nate sta per l’ennesima volta per essere immolato sull’altare dei nostri
credi e dei nostri appetiti, non diversamente da quanto avviene quotidianamente
con tutte le altre specie non umane, egualmente sfruttate e martirizzate. Le
nuove sensibilità in ascesa mostrano però che, tra le vie che portano ad un
cambio di paradigma, ne esiste una che passa anche dal riconoscimento del
valore intrinseco di ogni vita: riconoscere gli altri, ogni altro, nella sua
essenza, anziché nella narrazione diffamatoria che tanto spesso facciamo di
lui, è atto dovuto nei suoi confronti, lo è esattamente come nei nostri dal
momento che, come dice Danilo Mainardi, “le scelte esercitate contro gli
animali sono anche scelte contro di noi”: non verità con cui compiacersi perché
bella da enunciare, ma strada tracciata nella direzione di una nostra
trasformazione. Perché, con le parole di Guido Ceronetti, “tutte le
torture, i patimenti, i terrori inflitti agli animali appartengono
legittimamente al dolore infinito della storia e ne modificano il senso, se ne
abbia uno”.