venerdì 8 novembre 2019

REMO BODEI: POVERTA' DI PENSIERO DIETRO UNA GRANDE ERUDIZIONE

E' venuto a mancare ieri il filosofo (meglio: lo storico della filosofia)  Remo Bodei. Leggo articoli incensatori (che francamente non mi sento di condividere) sino a ritenerlo uno dei massimi filosofi del Novecento. Non vi è stata in lui alcuna originalità di pensiero. Ha utilizzato la sua grande erudizione per fare affiorare ogni tanto il suo pensiero che emerge dall'erudizione come sprizzi di fumarole in un campo di solfatara, privi di un pensiero di fondo che non sia il relativismo culturale dei valori morali.    
Essendo mio concittadino (con un fratello gemello di nome Romolo che per alcuni anni parte fece parte della cerchia delle mie amicizie e che morì molti anni fa) ebbi modo di conoscerlo quando era ancora studente della Normale di Pisa e passava molta parte dell'estate a Cagliari. Frequentava talvolta la biblioteca delle Facoltà di Lettere e di Magistero (che allora si trovava in via Corte d'Appello) e in biblioteca facemmo conoscenza. Mi ricordo che stavo preparando l'esame di estetica che comprendeva la Critica del giudizio di Kant. Gli esternai la mia sorpresa nel ritenere difficile la lettura (comprensione) del testo ed egli rispose che, anzi, offriva poche difficoltà ed era anche piacevole perché Kant faceva riferimento anche al vino di Bordeaux. Aveva precedentemente frequentato per pochi anni il Conservatorio di Cagliari nella classe di flauto e mi raccontava  del concerto per flauto e orchestra di Vivaldi (detto il cardellino). Lo rividi altre volte a Cagliari ma non vi fu mai una frequentazione che potesse essere base di una amicizia. Mi rimase impresso nel ricordo - ma non mi ricordo in quale occassione, forse in strada a tu per tu, senza testimoni - quanto mi disse dichiarandosi entusiasta del muro di Berlino che era stato da poco tempo costruito dai comunisti della Repubblica "democratica" tedesca (DDR).  Circa sei anni fa era presente al Festival della filosofia al teatro Massimo di Cagliari. Colsi occasione per attaccare il relativismo culturale contrapponendogli il diritto naturale. E citai i nomi di alcuni famosi filosofi per dimostrare che la loro proposizioe di valori morali poteva portare solo al relativismo. E visto che Bodei era seduto in mezzo al pubblico (non essendo relatore) mi rivolsi anche a lui per dirgli che anch'egli era un esempio del relativismo culturale dei valori morali, e citai Max Weber, che scrisse che "non si può uscire dalla lotta mortale tra valori morali", non accorgendosi tuttavia che vi era una via di uscita dal relativismo dei valori morali con il diritto naturale. Aggiunsi che, se Hitler avesse vinto la guerra vi sarebbero stati altri valori morali perché i valori morali sono sempre quelli dei vincitori (e qui il pubblico imbecille rumereggiò pesantemente credendo che stessi facendo l'apologia del nazismo). Ritengo che il suo libro migliore rimanga Geometria delle passioni (con forte riferimento all'Etica di Spinoza). Proprio ispirandomi al titolo del libro di Bodei portai a termine nel 2006 un testo di circa 900 pagine (rimasto ancora manoscritto) a cui diedi per contrapposizione a Bodei, il titolo Geometria del diritto naturale. La morale come oblio della giustizia. Dall'Antichità ad oggi.    
Riporto qui sotto alcune pagine del mio testo Scontro tra culture e metacultura scientifica  riguardanti Bodei.    

Remo Bodei, uno dei più noti esponenti della filosofia italiana, ha scritto un “illuminante” articolo (apparso nell'inserto cultutale della domenica del Sole24Ore) il giorno dopo la morte di Giovanni Paolo II.[1] Esso analizza il tema del rapporto tra fede e ragione riproposto alla luce della convinzione del papa – scrive Bodei - “che l’età moderna s’inauguri con la nefasta separazione tra fede e ragione…la ragione pretende di conoscere da sola la verità, senza bisogno della rivelazione (Fides et ratio, 5).  Da qui, secondo il papa – scrive sempre Bodei - “il relativismo etico e cognitivo, al pari della deriva nichilistica della democrazia, che dipende dalla smisurata presunzione del singolo soggetto di ergersi a giudice e padrone della propria vita, recidento il rapporto tra creatura e creatore”. Da qui anche l’accontentarsi di verità parziali e provvisorie che evitano le domande radicali sul senso della vita. Bodei osserva che l’etica laica non è necessariamente ‘relativista’. Essa, come si espresse William James, ha bisogno di un sistema credenze, che non si oppongono di per sé alla verità e di cui abbiamo bisogno per risolverci all’azione, pur dovendo tali credenze essere empiricamente verificabili. Bodei ha omesso di aggiungere che tali credenze per James implicano religiosamente la suprema “volontà di credere” pragmatisticamente, per convenienza, in un Dio che, non essendo nei cieli, ma sulla terra, garantisca una solidarietà delle parti del mondo agendo come forza progressista in collaborazione con esse, di modo che il progresso dipenda anche dalla collaborazione delle parti. E’ l’immagine di un Dio finito (Universo pluralistico, 1909).Ora, si può osservare, se non è obbligatorio credere in un Dio finito progressista che partecipi alla storia dell’uomo, si può tuttavia ritenere che quella di James fosse una soluzione religiosa giustificata dalla necessità di dare un fondamento ontologico ai valori morali  e un senso alla vita umana.

Bodei ha utilizzato James soltanto per una parte, quella legata più strettamente al pragmatismo, per arrivare ad una proposta incoerente, sulla base della negazione dei diritti naturali della persona, perché la legge naturale (a cui fa riferimento il papa) per rivelarsi necessiterebbe di una “grazia” divina, con il problema della predestinazione. Bodei, volendo sottrarre i valori al relativismo, sa offrire una medicina che è peggiore del male che vorrebbe guarire. Infatti scrive: “tutti i valori poggiano su scelte di fondo oscure o, in ultima istanza, indecidibili in maniera assoluta, ma sentiamo di doverne propugnare alcuni contro altri, non perché fondati sul diritto naturale, su premesse date, ma perché progettati. Non aiuta molto, nel combattere il relativismo…il ricorso al ‘paradigama perduto’ della ‘natura umana’, all’esistenza di leggi immutabili e oggettive, la cui essenza rimane costante”. Secondo Bodei “un corpo di regole e di leggi ha valore proprio perché esse non esistono naturalmente, perché si deve plasmare un mondo che non c’è ancora, dove la sofferenza e l’ingiustizia siano battute e le opportunità di una vita migliore (le ‘capacità’ e i ‘funzionamenti, come li chiama Amarya Sen) siano incrementate”. E Bodei termina con un esempio tratto dal Fedro di Platone, per spiegare che “le due ali della fede e della ragione possono collaborare, come accade ai due cavalli del mito platonico. Basta sapere che ciascuno spinge in direzione diversa e che solo l’abilità e l’autorità esercitate dall’auriga possono, col l’uso delle briglie e del morso, rivolgere i loro sforzi nella stessa direzione”.

A tutto ciò si può replicare osservando che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Il papa, sotto questo aspetto, e dal suo punto di vista, ha avuto una coerenza che Bodei non ha e che crede, invece, di avere. Innanzi tutto il riferimento al mito platonico appare del tutto inadatto e improprio, essendo in netto contrasto con la negazione di un diritto naturale, giacché l’auriga (che rappresenta la ragione) cerca di guidare verso la regione sopraceleste della verità eterne i due cavalli, di cui uno,bianco “è nobile e buono, e di buona razza”, mentre l’altro, di pelo nero, “è tutto il contrario ed è di razza opposta” (246b, 253d). Il secondo, “maligno”, cerca di tirare l’auriga verso terra, contrastando la ragione per impedire all’auriga di “elevare il capo nella regione superceleste”, dove scorgere “quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturiggine della vera scienza” (247c) e che si scopre nella “Pianura della Verità” (248b). Platone, coerentemente, ha sviluppato nel corso delle sue opere un concetto di giustizia cosmica, che giunge, nel Timeo, ad avere fondamento nell’opera ordinatrice del Demiurgo.

Bodei non ha capito che il suo concetto di ragione può essere rappresentato dall’auriga che non riesce a dominare il cavallo che tira verso terra impedendogli di vedere verso l’alto. Infatti il suo discorso non esce dal relativismo di quella zona di “scelte di fondo oscure” – a cui egli stesso si richiama - che fanno pensare al cavallo nero del mito di Platone, e che non spiegano affatto perché uno debba preferire combattere per la giustizia se, come disse già il filosofo scettico Carneade (214-129 a. C.), i romani non potevano ritenersi giusti impadronendosi delle terre di altri popoli, ma non sarebbero stati saggi se le avessero restituite. Ma lo stoico greco Panezio (180-106 a. C.), vissuto a Roma nel circolo degli Scipioni, e Cicerone giustificavano la politica espansionistica di Roma con il piegare a suo favore le tesi del precedente stoicismo di Cleante e di Crisippo (IV sec. a,. C.), che consigliava al saggio di stare lontano dalla politica per non avere turbamenti, ma che, identificando la ragione naturale con la giustizia, superava con il suo cosmopolitismo le strutture delle città-Stato nel nome della comune umanità razionale in cui tutti gli uomini sono eguali. Così la legge naturale degli stoici poteva essere interpretata come giustificazione di una legge comune, quella romana, che unificasse diversi popoli. Questa spiegazione, avanzata anche dallo storico greco Polibio (208-126 a. C.), può essere interpretata oggi – diversamente da allora - come comoda giustificazione della violenza ed espressione di interessi economici e di potenza. Ma il punto è un altro. La violenza romana cercava tra gli storici e i filosofi una giustificazione in un diritto che non fosse soltanto il diritto della forza. La stessa questione si è riproposta oggi con la domanda se gli Stati occidentali abbiano il diritto di esportare con la guerra la “democrazia” loro in altri Stati. Ma, al di là dei mezzi violenti o pacifici con cui si possa esportare una certa concezione del diritto, rimane il fatto che la filosofia oggi si trova in contrasto con la concezione dei diritti umani espressi nelle sedi internazionali, in cui, se pur in una concezione che rimane antropocentrica, si sottintende una naturalità dei diritti umani, anche quando in sede ONU si confondono i diritti umani con i diritti sociali, che non sono naturali, ma convenzionali.               

 Rawls[2] ha scritto che nelle relazioni tra Stati dovrebbe esistere un denominatore comune costituito almeno dal rispetto dei diritti individuali intesi come condizione di un ordinamento “decente” di uno Stato, se pur non fondato sul contrattualismo dello Stato liberaldemocratico. Sono dunque “indecenti” tutti gli Stati che non rispettano tali diritti. Rawls non ha avuto il coraggio di concludere coerentemente che è indecente anche l’ONU, di cui continuano a far parte molti Stati “indecenti”, come tutti i Paesi islamici, che non ne rispettano la Carta nella loro politica interna. D’altra parte, Rawls, contraddittoriamente, non andò mai oltre una concezione contrattualistica, e perciò convenzionalistica, dei diritti individuali.  Pertanto, se i diritti individuali nascono nel contesto di una contrattazione, è impossibile condannare come “indecenti” quei Paesi che non abbiano contrattato il rispetto dei diritti individuali di uno Stato liberaldemocratico.

E poi, ammesso che esista la giustizia non naturale, di cui scrive Bodei, perché condannare i “crimini contro l’umanità”? Perché sono una violazione dei diritti umani? Su che cosa sono fondati i diritti umani? Una delle due: o si risponde come il papa, e cioè che essi sono fondati sulla (retorica della)  dignità della persona (con cui si contrabbanda il diritto naturale), e perciò, sul fatto che i diritti umani sono umani - il che è una tautologia che, come tale, non spiega alcunché – oppure i diritti umani sono convenzionali, e la condanna della loro violazione è priva di normatività al di là di una contrattazione di tali diritti. Inoltre, perché combattere per la giustizia anche a proprio danno se anch’essa, per coerenza, non può che nascere da quelle che Bodei chiama “scelte di fondo oscure”? Perché sentirmi in obbligo di favorire le opportunità di una vita migliore per tutti - come vorrebbe il confusionario Amartya Sen, che, citato da Bodei a suo sostegno, confonde l’economia con l’etica,  invece di accomunarla con un diritto prossimo a quello naturale, come fece un altro premio Nobel per l’economia, Friedrich Hayek[3] - se non sono interessato ad una migliore vita degli altri, non avendone alcun vantaggio? Donde dovrebbe provenirmi tale obbligazione? La “ragione” di Bodei è disarmata di fronte a queste domande perché anch’essa esprime “scelte di fondo oscure”, per cui non è in condizione di giudicare tra scelte opposte, pur pretendendo di condannare quelle autoritarie. Rimasta dentro il vecchio discorso sui valori morali – dimenticando la lezione di Max Weber sulla “lotta mortale” tra valori morali – vi si attorciglia senza poterne uscire con la giustificazione di una normatività, avendo, sì, evitato la retorica stantia della dignità umana, ma avendo anche negato che possa esistere un diritto naturale come espressione della tendenza naturale di ogni organismo, umano e non umano, alla propria auto-conservazione, anche contro un eguale diritto, come nella catena alimentare preda-predatore.   

Il fatto è che la filosofia contemporanea, ridottasi a filosofia del dialogo,  naviga a vista, senza bussola, anche quando cerca, inutilmente, di superare il relativismo dei valori morali, mentre il diritto naturale non ha valori morali da offrire, bensì una norma giuridica che non è morale se non in senso improprio. Infatti non comanda di fare del bene – cioè, per esempio, di migliorare le “capacità” o i “funzionamenti” di cui scrive Sen, trattandosi, in realtà, di diritti convenzionali, contrattabili - ma vieta di danneggiare gli altri quando non si tratti di difendere la propria vita, come nel mondo animale, dove il predatore uccide per poter vivere, soltanto apparentemente usando violenza. Tutte le altre norme sono convenzionali, e non morali, giustificabili in quanto non siano in contrasto con la norma fondamentale. Il diritto naturale – metaculturale come la conoscenza scientifica, al contrario della filosofia e della religione, che sono culturali - oggi fa più paura che mai perché demolirebbe tutta la tradizione antropocentrica del discorso sui valori morali, con riflessi anche sull’economia del profitto, che è anche economia di morte, dovendo essere il diritto naturale interpretato oggi, sulla base dell’evoluzione biologica, come diritto che non può essere della sola natura umana. Altrimenti non è naturale. Rimane il “sonno dogmatico”[4] dei triti valori morali di una concezione antropocentrica - e perciò antiscientifica - da cui non sfugge nemmeno la morale laica, che, infatti, in Bodei accetta una collaborazione con la fede, non accorgendosi, per altro, di averla degradata paragonandola al cavallo “nero, brutto e malvagio” del mito di Platone. Come se la fede, così degradata, potesse accettare una collaborazione con la ragione. Vi è, piuttosto, da domandarsi se la ragione possa collaborare anche con il mito di Adamo del Genesi, in cui Giovanni Paolo II  ha visto “le origini della storia e della cultura umana” e in cui si conserva l’immagine dell’uomo avente il diritto di “soggiogare la terra”.[5] Ciò, si badi, in contrasto con il documento vaticano del 1995 – di cui si tace pubblicamente – che ha accettato l’evoluzione biologica di Darwin quattro anni dopo che la Chiesa, in altro documento, ha chiesto perdono per la condanna di Galileo. E se esiste un limite alla collaborazione, quale sarebbe? Il discorso rimane confuso e la domanda senza risposta a causa della confusione della morale laica con il diritto, rimanendo anch’essa antropocentrica come quella del papa. In realtà è sempre la fede della dottrina ufficiale che cerca la collaborazione della ragione per sopravvivere, mentre la scienza, metaculturale, di tale collaborazione non sa che farsene. Pertanto, l’esempio, proposto da Bodei, ottenuto trasformando i due cavalli del mito platonico in rappresentanti della fede e della ragione, è del tutto privo di senso. Se Giovanni Paolo II ha ritenuto i diritti naturali fondati sulla persona umana, tacendo dell’evoluzione biologica, non si può per questo buttare il bambino con l’acqua sporca dell’antropocentrismo della “persona umana” per buttare anche i diritti naturali.

Il penoso spettacolo delle folle presenti ai funerali del papa – “un fenomeno mediatico, una grande scampagnata”, l’ha definito alla TV la nota astronoma Margherita Hack – testimonia quanto la confusione generata dalle emozioni e dall’ignoranza, nella rimozione disperata, anche se apparentemente gioiosa, della paura della morte – la cui immagine si offriva ad essi nella morte del papa, nella quale cercavano la conferma della sopravvivenza - possa prevalere sull’analisi delle contingenze storiche e delle contraddizioni dottrinali da cui è nato il cristianesimo. Ma quello stesso papa aveva detto che bastava essere giusti per meritare la salvezza. E allora a che il proselitismo? Il cristianesimo, come ogni religione salvifica, abbiamo già detto, vale solo per i deboli di spirito.

Di fronte alla famosa frase del papa “non abbiate timore di aprire le porte a Cristo”  i non credenti che non fanno del male sappiano che essi non debbono avere timore di lasciare chiuse le porte a Cristo, ma le debbono aprire coerentemente al diritto naturale poiché essi debbono sentirsi e ritenersi con orgoglio migliori dei credenti di fronte al Dio dei non credenti, che premierebbe i non credenti e giudicherebbe i credenti degli opportunisti - dei disperati, come definì Epitteto i cristiani – e perciò privi di merito. Marionette manovrate con i fili dal loro Dio, fatto a loro immagine e somiglianza.

[1] Il presente lavoro è stato terminato – pura coincidenza – il giorno della morte del papa. L’articolo di Bodei inizia nella prima pagina de Il Sole-24 ore di domenica 3 aprile.  

[2]  Il diritto dei popoli, Comunità 2001.

[3] Vi è una certa consonanza tra la concezione giuridica (fondata sul diritto naturale di tutti gli animali) di Robert Nozick (Anarchia, Stato e Utopia, 1974) e la teoria economico-giuridica di Hayek. Entrambi hanno tolto la maschera della “giustizia sociale” ad una morale che si vuole tradurre in diritto andando oltre i diritti negativi, che consistono nel rispetto delle regole della libera contrattazione e del liberalismo, che non significa diritto del più forte, ma dovere, da parte di tutti, di rispettare le stesse regole, impedendo qualsiasi forma di violenza e di frode, in base alla norma generale neminem laedere (Legge, legislazione e libertà, 1982, Il Saggiatore 1994,  p. 137). Secondo Hayek è il conflitto tra norme morali che ha generato norme superiori di diritto dal rifiuto di rispettare certe norme morali. Lo Stato non può che favorire un accordo sui mezzi necessari a conseguire i diversi fini. Tali mezzi sono le regole di condotta del diritto privato, che non possono non essere astratte, non potendo conseguire fini specifici  (pp. 164 sgg.). La giustizia riguarda il rispetto di tali regole. Esse sono negative perché proibiscono, invece di raccomandare, determinati tipi di azione. Le leggi sono le regole della condotta che, in contrasto con il giuspositivismo di Kelsen (pp. 238 sgg.) hanno come ideale storico il diritto naturale, che, tuttavia, deve essere inteso, secondo Hayek, come prodotto di un processo storico che può sembrare naturale in quanto non è soltanto culturale, cioè convenzionale, rappresentando, come ideale storico, la condizione indispensabile per arrivare ad un ordine pacifico universale. Hayek esclude che le norme generali di condotta siano convenzionali, nel senso di derivare “da una scelta deliberata da parte dell’uomo” (p. 259). La “giustizia sociale” diventa per Hayek la scusa per affidare al governo poteri, che esso non può avere, a favore di interessi particolari. Più forti sono gli interessi particolari e più forte diventa la richiesta di “giustizia sociale” (p. 256). Le norme giuridiche generali (diritti negativi, che proibiscono di causare dei danni) sono il risultato di un processo che è simile a quello dell’evoluzione biologica, che avanza per tentativi ed errori, lasciando che sia la selezione naturale, basata sull’efficienza, ad eliminare i conflitti nascenti (da opposte morali) con norme valide perché dotate del requisito dell’universalità (pp. 528 sgg.).

[4] Kant (nei Prolegomeni) scrisse che la lettura dell’opera dell’empirista Hume lo aveva risvegliato dal “sonno dogmatico “ della precedente metafisica. 


[5]  Gioanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli 2005, pp. 99 sgg.
       

2 commenti:

  1. remo bodei. Il nome non mi suona nuovo. L'avranno pubblicizzato a 720 gradi i "mezzi" di disinformazione soliti. A quando Lei scrive, costui mi sembra un po' confuso. Gli piace il muro di berlino, ma non è Ateo. Cattocomunista? Un ossimoro. Se nega il "diritto naturale" era SICURAMENTE un magnacadaveri. A proposito del muro di berlino: 14 luglio 1789. 9 novembre 1989. Non riescono mai, ci sono anche altri casi che al momento non rammento, a centrare la data precisa, qui "200 anni". In questo caso abbiamo un ritardo di 118 giorrni. forse il Karol o i kabbalahari non sapevano fare i conti? E' strano che nessuno degli scienziati che circolano in tv, radio ed altri mezzi di disinformazione non l'abbia notato...

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  2. Caro Melis,
    volevo proprio chiederLe cosa ne pensasse di Remo Bodei e constato che ha già provveduto con questo interessante articolo. Per me Bodei era solo un nome, forse avevo letto una volta una intervista che avevo anche apprezzato (ma nelle interviste gli intervistati si mostrano sempre dal lato migliore e fanno persino un figurone). Vedo comunque dal Suo scritto che posso tranquillamente esimermi dall'approfondire la conoscenza di questo filosofo o - come dice Lei - docente di filosofia. Quanti sono i docenti di filosofia in Italia e nel mondo? Sicuramente centinaia, anzi migliaia. Conoscerli tutti è materialmente impossibile e del resto nemmeno necessario. Però - per legge - già una semplice dissertazione dovrebbe costituire un "valido" contributo alla ricerca. Ancor più dovrebbero costituirlo poi i lavori di abilitazione alla docenza e i libri di questi sedicenti filosofi. Eppure quasi nessuno viene a conoscenza di tali "validi" contributi alla ricerca, in questo caso ricerca filosofica. Se ne deve dedurre che tutti questi contributi non sono così importanti come credono questi docenti di filosofia. Difatti la maggior parte della popolazione mondiale li ignora, mentre una vera nuova teoria scientifica di rilievo fa subito - specie oggi - il giro del mondo. Quello che di Lei mi piace è che si sia fatto da autodidatta una cultura scientifica che le ha permesso di considerare vacue tante filosofie classiche e moderne. Fare oggi filosofia senza avere conoscenze di fisica e matematica e di altri rami della scienza è semplicemente ridicolo. Il discorso filosofico può essere accattivante, piacevole, ma se io oggi voglio sapere qualcosa della struttura dell'universo mi rivolgerò a persone serie, cioè agli scienziati. Oserei dire che oggi i veri filosofi sono i fisici o gli scienziati in genere (non faccio purtroppo parte di questa eletta schiera di ricercatori). Il resto è chiacchiera, talvolta piacevole, ma niente di più. È proprio il caso di dire: “povera e nuda vai filosofia”. Platone almeno esigeva dai suoi discepoli, come propedeutica alla filosofia, la conoscenza della “geometria”. Prima impari i fondamentali e poi puoi sbizzarrirti a “filosofare”.
    Cordialità.

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