DAL MIO LIBRO SCONTRO TRA CULTURE E METACULTURA SCIENTIFICA (2006)
Di fronte allo
sconcertante tentativo – non approvato dal ministero - di
costituzione a Milano di una classe liceale formata da soli
islamici è stato detto da un professore universitario cattolico1 che “una scuola
chiusa per islamici, dove si insegna la cultura italiana,
rischia di diventare un monstrum non costruttivo, il
caos. T.S Eliot lo ha spiegato molto bene: dobbiamo crescere
accogliendo il diverso, ma possiamo farlo in modo positivo solo
se torniamo alle nostre radici. Oggi mi preoccupa il nichilismo
di fondo, non si crede a nulla e quindi tutto è eguale. Non è
così. Togliamo il crocifisso, ma poi come faremo con la Divina
Commedia? Come faremo a spiegare loro Bach, Giotto? La
nostra è una cultura con fortissime radici cristiane. Anche
nelle sue manifestazioni anticristiane…Instaurare un colloquio
costruttivo significa questo: io ho una mia identità, tu hai la
tua, cerchiamo di comprenderci. Il diverso si capisce solo se
c’è l’identico, il sé; che diverso è se come punto di
riferimento c’è il nulla?…Ma in questo caso c’è una
contraddizione di fondo…Come mai (voi islamici) venite da noi e
non volete accettare nulla che riguarda la nostra cultura?”.
La questione, come al solito, è mal posta. Si può essere anche atei e tuttavia apprezzare un’opera d’arte di contenuto cristiano nella poesia, nella pittura, nella musica e nell’architettura. Si noti anche che Bach - per la cui musica, anche sacra, chi scrive, benché ateo, nutre una venerazione - era un fervido protestante ma musicò diverse messe secondo la liturgia cattolica. E chi, a qualunque cultura appartenga, non è capace di sublimarsi ascoltando il coro finale della Passione secondo Matteo di Bach – come pure l’“Addio di Wotan e l’incantesimo del fuoco” dalla Walkiria di Wagner, o alcune parti corali dell’ Ein Deutsches Requiem di Brahms o del Requiem di Mozart – rimane un mero e povero soggetto culturale. L’architettura occidentale, come ricerca razionale e matematica dello spazio, ha invaso il mondo non occidentale, mentre non è capitato che l’architettura non occidentale abbia invaso l’Occidente. Lo stesso dicasi della pittura. La musica sinfonica ed operistica occidentale si distingue per un suo linguaggio universale che, fondato sullo studio di rapporti matematici tra le note della scala naturale,2 trascende le sue origini storiche, come è dimostrato dal fatto che essa trovi ascolto anche nei teatri dell’Asia occidentalizzata, mentre non ha mai avuto la stessa universalità la musica non occidentale, come quella araba o cinese, che rimane solo culturale, folkloristica. Molti solisti o direttori d’orchestra, e tra i più noti, sono oggi asiatici. Essi hanno superato i limiti della loro identità culturale eseguendo musica occidentale, cioè senza identità perché universale.3
La questione, come al solito, è mal posta. Si può essere anche atei e tuttavia apprezzare un’opera d’arte di contenuto cristiano nella poesia, nella pittura, nella musica e nell’architettura. Si noti anche che Bach - per la cui musica, anche sacra, chi scrive, benché ateo, nutre una venerazione - era un fervido protestante ma musicò diverse messe secondo la liturgia cattolica. E chi, a qualunque cultura appartenga, non è capace di sublimarsi ascoltando il coro finale della Passione secondo Matteo di Bach – come pure l’“Addio di Wotan e l’incantesimo del fuoco” dalla Walkiria di Wagner, o alcune parti corali dell’ Ein Deutsches Requiem di Brahms o del Requiem di Mozart – rimane un mero e povero soggetto culturale. L’architettura occidentale, come ricerca razionale e matematica dello spazio, ha invaso il mondo non occidentale, mentre non è capitato che l’architettura non occidentale abbia invaso l’Occidente. Lo stesso dicasi della pittura. La musica sinfonica ed operistica occidentale si distingue per un suo linguaggio universale che, fondato sullo studio di rapporti matematici tra le note della scala naturale,2 trascende le sue origini storiche, come è dimostrato dal fatto che essa trovi ascolto anche nei teatri dell’Asia occidentalizzata, mentre non ha mai avuto la stessa universalità la musica non occidentale, come quella araba o cinese, che rimane solo culturale, folkloristica. Molti solisti o direttori d’orchestra, e tra i più noti, sono oggi asiatici. Essi hanno superato i limiti della loro identità culturale eseguendo musica occidentale, cioè senza identità perché universale.3
E’ dunque
fondato almeno il sospetto che il linguaggio dell’arte
occidentale sia stato, e sia, capace di proporsi come linguaggio
universale al di là delle differenze culturali. Anche un ateo
può apprezzare i disegni geometrici e floreali di una moschea,
nonostante la povertà artistica dell’Islam, che proibisce il
disegno figurativo. Ma vi è da domandarsi se i disegni
geometrici e floreali stilizzati non siano piuttosto, nella loro
ripetitività, espressione anonima di artigianato, cioè di
cultura, di povertà spirituale, e non di arte, non essendo
capaci di arrivare ad un universale antropologico.
Un’opera d’arte trascende la dicotomia tra identico e diverso.
In questo senso, benché il suo linguaggio esprima dei
sentimenti, e non una verità, come quello scientifico, ha nelle
sue radici storiche soltanto l’aspetto della contingenza
storica, non il suo valore. Che nelle scuole italiane si studi
la Divina Commedia e non la poesia di Shakespeare
dipende banalmente dal fatto che Shakespeare non ha alcuna
importanza per lo studio storico della lingua italiana. Ma la Divina
Commedia non appartiene soltanto al lettore italiano, come
la poesia di Shakespeare non appartiene soltanto al lettore
inglese. L’opposizione tra identico e diverso esisterebbe se i
contenuti religiosi dell’arte si identificassero con il valore
artistico e si pretendesse di trasporre tali contenuti anche
nella società d’oggi. Al contrario, l’islamico, nella sua
povertà di spirito, alimentata dal Corano, rifiuta l’arte
occidentale ispirata dal cristianesimo perché confonde con essa
i suoi contenuti religiosi. Si può dire che, se l’islamico
si sente diverso, la colpa è unicamente sua. Invece nella
filosofia del dialogo si vorrebbe premiare tale colpa
riconoscendone la diversità. Chi, all’opposto, come l’autore del
testo citato, pretende che il diverso debba partire
dall’identico confonde, allo stesso modo dell’islamico, i
contenuti religiosi di un’opera d’arte con l’opera stessa, per
proporre, anche se in modo sottinteso, i contenuti religiosi
come radici essenziali, mentre non lo sono affatto nelle opere
d’arte. Altrimenti bisognerebbe credere negli dèi omerici per
apprezzare la poesia di Omero.
Ciò che più
stupisce è che, al contrario, da parte laica, un professore di
filosofia della scienza4 abbia interpretato
il suddetto episodio come “uno spiraglio di apertura che va
valorizzato, anche se si staglia sullo sfondo di una radicale
esigenza identitaria”, persino attribuendo al Corano un
principio di tolleranza con l’estrapolare dal contesto una frase
che non cancella la persecuzione o la ghettizzazione dei non
convertiti all’Islam, condannati a pagare una tassa per mancata
conversione. E viene aggiunto: “Il male minore è fare una classe
di soli musulmani: una zona protetta da cui poi, magari, come
gli indiani nelle loro riserve, avranno voglia di uscire in
esplorazione…Non vedo perché si debba imporre un’emancipazione
forzata a chi non si sente pronto e la vivrebbe come una
violenza”. Ciò sarebbe ammissibile solo nel caso si trattasse
di una scuola privata non riconosciuta dallo Stato, cioè senza
oneri finanziari per esso, non essendo dovere dello Stato
fare deroga ai programmi ministeriali introducendo
l’insegnamento dell’arabo e della cultura araba.
Oggi,
purtroppo, anche il cosiddetto laicismo è il cavallo di Troia
della confusione tra diritto e morale – che genera con il
multiculturalismo dell’immigrazione nuovi conflitti sociali -
perché non ha la bussola di riferimento di ciò che è
scientificamente vero e di ciò che è giusto indipendentemente
dalle diversità culturali, che comprendono soltanto ciò che
appartiene alle tradizioni particolari di una popolazione, che
si esprimono innanzi tutto nell’ambito morale, a cui
appartengono le credenze religiose, tutte le concezioni del
mondo e tutti comportamenti da esse dettati, oltre che i sistemi
giuridici che siano investiti direttamente da “valori” morali,
che tradiscono concezioni antropocentriche, senza escludere le
tradizioni alimentari, la caccia, le manifestazioni
folkloristiche, i dialetti e le tradizioni artigianali che siano
espressione di un costume popolare locale. Si potrebbe impiegare
un solo termine per riassumere quanto si sottrae alla
possibilità di valere universalmente perché si chiude entro
l’orizzonte del locale: ideologia, con cui si identifica la
cultura dell’identità.5 Molti contenuti
dell’ideologia, riassumibili nelle tradizioni popolari,
confliggono con il linguaggio universale della scienza e del
diritto naturale. Le culture, tutte inutili, quando non siano
dannose, sono tollerabili se non sono in contrasto con il
diritto naturale. Se, in ipotesi estrema, al contrario di quanto
ha scritto Geertz, tutte le culture sparissero, ben potrebbe
l’umanità continuare a vivere, e certamente in condizioni
migliori, mentre sarebbe ridotta allo stato di natura se venisse
privata delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, nonché di
tutte le norme giuridiche che conseguono dal diritto naturale e
di quelle che, pur convenzionali, non siano in contrasto con
esse.
1 Cfr. intervista di Giovanni Reale
(docente di filosofia antica alla Cattolica) al Corriere
della sera del 12 luglio 2004.
2 Fu Bach a fissare convenzionalmente,
ma operando sulla scala naturale, i rapporti di frequenza (di
tono e semitono) tra una nota e l’altra, dando luogo alla scala
temperata del clavicembalo, ereditata dal successivo pianoforte.
3 E’ certo che lo stile del vestire
occidentale non corrisponde ad un universale antropologico, ma
di fatto la giacca e la cravatta hanno invaso il resto del
mondo, anche quello islamico, mentre non è capitato che il
tradizionale abbigliamento dei Paesi non occidentali abbia avuto
un’estensione universale.
5 Alberto Pala (Cultura scientifica e
culture “altre”, in Annali della Facoltà di Magistero,
vol. VIII, parte I, 1984, pp. 5-37), nonostante i limiti di una
concezione marxista, parzialmente superata evitando di
appiattire la spiegazione di una cultura sul modo di produzione
economica, colse nel segno riconoscendo che sarebbe stato
opportuno identificare la cultura con l’ideologia. Egli,
riconoscendo che da una parte vi è il linguaggio scientifico,
dall’altra tutti gli altri linguaggi, coerentemente avrebbe
dovuto riconoscere che il linguaggio scientifico non appartiene
alla cultura, essendo metaculturale. Il progresso umano può
consistere dunque nel limitare sempre di più gli spazi della
cultura, di tutto ciò che è locale in quanto espressione di
identità e nel sottrarre il diritto alle contaminazioni della
morale, cioè nel liberare l’universalità dai lacci delle
identità, per fare della non identità culturale l’identità
umana. Giustamente Pala ha citato Husserl (La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il
Saggiatore 1967) come esempio di proposta di una ragione
universale. Scrive Husserl: “Solo così – cioè con una
ragione universale – sarebbe possibile decidere se l’umanità
europea rechi con sé un’idea assoluta e se non sia un mero
antropologico empirico come la Cina o l’India…L’appartenenza
all’Europa è qualcosa di estremamente peculiare, qualcosa di
sensibile anche per gli altri gruppi umani i quali…possono
sentirsi indotti ad europeizzarsi. Noi invece, se siamo consci
di noi stessi, ben difficilmente cercheremo di diventare
indiani” (p. 45 e p. 333). La “ragione universale” è stata,
tuttavia, concepita da Husserl entro i termini di un
antropocentrismo idealistico, più che fenomenologico. Anche il
marxismo esprime una ragione antropocentrica, e perciò
ideologica, mentre ha preteso di essere una scienza storica ed
economica.
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