sabato 25 luglio 2020

PERCHE' E' IMPOSSIBILE ACCETTARE LA BARBARIE ISLAMICA

DAL MIO LIBRO SCONTRO TRA CULTURE E METACULTURA SCIENTIFICA (2006)
Di fronte allo sconcertante tentativo – non approvato dal ministero - di costituzione a Milano di una classe liceale formata da soli islamici è stato detto da un professore universitario cattolico1 che “una scuola chiusa per islamici, dove si insegna la cultura italiana, rischia di diventare un monstrum non costruttivo, il caos. T.S Eliot lo ha spiegato molto bene: dobbiamo crescere accogliendo il diverso, ma possiamo farlo in modo positivo solo se torniamo alle nostre radici. Oggi mi preoccupa il nichilismo di fondo, non si crede a nulla e quindi tutto è eguale. Non è così. Togliamo il crocifisso, ma poi come faremo con la Divina Commedia? Come faremo a spiegare loro Bach, Giotto? La nostra è una cultura con fortissime radici cristiane. Anche nelle sue manifestazioni anticristiane…Instaurare un colloquio costruttivo significa questo: io ho una mia identità, tu hai la tua, cerchiamo di comprenderci. Il diverso si capisce solo se c’è l’identico, il sé; che diverso è se come punto di riferimento c’è il nulla?…Ma in questo caso c’è una contraddizione di fondo…Come mai (voi islamici) venite da noi e non volete accettare nulla che riguarda la nostra cultura?”.
La questione, come al solito, è mal posta. Si può essere anche atei e tuttavia apprezzare un’opera d’arte di contenuto cristiano nella poesia, nella pittura, nella musica e nell’architettura. Si noti anche che Bach - per la cui musica, anche sacra, chi scrive, benché ateo, nutre una venerazione - era un fervido protestante ma musicò diverse messe secondo la liturgia cattolica. E chi, a qualunque cultura appartenga, non è capace di sublimarsi ascoltando il coro finale della Passione secondo Matteo di Bach – come pure l’“Addio di Wotan e l’incantesimo del fuoco” dalla Walkiria di Wagner, o alcune parti corali dell’ Ein Deutsches Requiem di Brahms o del Requiem di Mozart – rimane un mero e povero soggetto culturale. L’architettura occidentale, come ricerca razionale e matematica dello spazio, ha invaso il mondo non occidentale, mentre non è capitato che l’architettura non occidentale abbia invaso l’Occidente. Lo stesso dicasi della pittura. La musica sinfonica ed operistica occidentale si distingue per un suo linguaggio universale che, fondato sullo studio di rapporti matematici tra le note della scala naturale,2 trascende le sue origini storiche, come è dimostrato dal fatto che essa trovi ascolto anche nei teatri dell’Asia occidentalizzata, mentre non ha mai avuto la stessa universalità la musica non occidentale, come quella araba o cinese, che rimane solo culturale, folkloristica. Molti solisti o direttori d’orchestra, e tra i più noti, sono oggi asiatici. Essi hanno superato i limiti della loro identità culturale eseguendo musica occidentale, cioè senza identità perché universale.3
E’ dunque fondato almeno il sospetto che il linguaggio dell’arte occidentale sia stato, e sia, capace di proporsi come linguaggio universale al di là delle differenze culturali. Anche un ateo può apprezzare i disegni geometrici e floreali di una moschea, nonostante la povertà artistica dell’Islam, che proibisce il disegno figurativo. Ma vi è da domandarsi se i disegni geometrici e floreali stilizzati non siano piuttosto, nella loro ripetitività, espressione anonima di artigianato, cioè di cultura, di povertà spirituale, e non di arte, non essendo capaci di arrivare ad un universale antropologico. Un’opera d’arte trascende la dicotomia tra identico e diverso. In questo senso, benché il suo linguaggio esprima dei sentimenti, e non una verità, come quello scientifico, ha nelle sue radici storiche soltanto l’aspetto della contingenza storica, non il suo valore. Che nelle scuole italiane si studi la Divina Commedia e non la poesia di Shakespeare dipende banalmente dal fatto che Shakespeare non ha alcuna importanza per lo studio storico della lingua italiana. Ma la Divina Commedia non appartiene soltanto al lettore italiano, come la poesia di Shakespeare non appartiene soltanto al lettore inglese. L’opposizione tra identico e diverso esisterebbe se i contenuti religiosi dell’arte si identificassero con il valore artistico e si pretendesse di trasporre tali contenuti anche nella società d’oggi. Al contrario, l’islamico, nella sua povertà di spirito, alimentata dal Corano, rifiuta l’arte occidentale ispirata dal cristianesimo perché confonde con essa i suoi contenuti religiosi. Si può dire che, se l’islamico si sente diverso, la colpa è unicamente sua. Invece nella filosofia del dialogo si vorrebbe premiare tale colpa riconoscendone la diversità. Chi, all’opposto, come l’autore del testo citato, pretende che il diverso debba partire dall’identico confonde, allo stesso modo dell’islamico, i contenuti religiosi di un’opera d’arte con l’opera stessa, per proporre, anche se in modo sottinteso, i contenuti religiosi come radici essenziali, mentre non lo sono affatto nelle opere d’arte. Altrimenti bisognerebbe credere negli dèi omerici per apprezzare la poesia di Omero.
Ciò che più stupisce è che, al contrario, da parte laica, un professore di filosofia della scienza4 abbia interpretato il suddetto episodio come “uno spiraglio di apertura che va valorizzato, anche se si staglia sullo sfondo di una radicale esigenza identitaria”, persino attribuendo al Corano un principio di tolleranza con l’estrapolare dal contesto una frase che non cancella la persecuzione o la ghettizzazione dei non convertiti all’Islam, condannati a pagare una tassa per mancata conversione. E viene aggiunto: “Il male minore è fare una classe di soli musulmani: una zona protetta da cui poi, magari, come gli indiani nelle loro riserve, avranno voglia di uscire in esplorazione…Non vedo perché si debba imporre un’emancipazione forzata a chi non si sente pronto e la vivrebbe come una violenza”. Ciò sarebbe ammissibile solo nel caso si trattasse di una scuola privata non riconosciuta dallo Stato, cioè senza oneri finanziari per esso, non essendo dovere dello Stato fare deroga ai programmi ministeriali introducendo l’insegnamento dell’arabo e della cultura araba. 
Oggi, purtroppo, anche il cosiddetto laicismo è il cavallo di Troia della confusione tra diritto e morale – che genera con il multiculturalismo dell’immigrazione nuovi conflitti sociali - perché non ha la bussola di riferimento di ciò che è scientificamente vero e di ciò che è giusto indipendentemente dalle diversità culturali, che comprendono soltanto ciò che appartiene alle tradizioni particolari di una popolazione, che si esprimono innanzi tutto nell’ambito morale, a cui appartengono le credenze religiose, tutte le concezioni del mondo e tutti comportamenti da esse dettati, oltre che i sistemi giuridici che siano investiti direttamente da “valori” morali, che tradiscono concezioni antropocentriche, senza escludere le tradizioni alimentari, la caccia, le manifestazioni folkloristiche, i dialetti e le tradizioni artigianali che siano espressione di un costume popolare locale. Si potrebbe impiegare un solo termine per riassumere quanto si sottrae alla possibilità di valere universalmente perché si chiude entro l’orizzonte del locale: ideologia, con cui si identifica la cultura dell’identità.5 Molti contenuti dell’ideologia, riassumibili nelle tradizioni popolari, confliggono con il linguaggio universale della scienza e del diritto naturale. Le culture, tutte inutili, quando non siano dannose, sono tollerabili se non sono in contrasto con il diritto naturale. Se, in ipotesi estrema, al contrario di quanto ha scritto Geertz, tutte le culture sparissero, ben potrebbe l’umanità continuare a vivere, e certamente in condizioni migliori, mentre sarebbe ridotta allo stato di natura se venisse privata delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, nonché di tutte le norme giuridiche che conseguono dal diritto naturale e di quelle che, pur convenzionali, non siano in contrasto con esse.

1 Cfr. intervista di Giovanni Reale (docente di filosofia antica alla Cattolica) al Corriere della sera del 12 luglio 2004.
2 Fu Bach a fissare convenzionalmente, ma operando sulla scala naturale, i rapporti di frequenza (di tono e semitono) tra una nota e l’altra, dando luogo alla scala temperata del clavicembalo, ereditata dal successivo pianoforte.
3 E’ certo che lo stile del vestire occidentale non corrisponde ad un universale antropologico, ma di fatto la giacca e la cravatta hanno invaso il resto del mondo, anche quello islamico, mentre non è capitato che il tradizionale abbigliamento dei Paesi non occidentali abbia avuto un’estensione universale.
4 Giulio Giorello, intervista al Corriere, cit.
5 Alberto Pala (Cultura scientifica e culture “altre”, in Annali della Facoltà di Magistero, vol. VIII, parte I, 1984, pp. 5-37), nonostante i limiti di una concezione marxista, parzialmente superata evitando di appiattire la spiegazione di una cultura sul modo di produzione economica, colse nel segno riconoscendo che sarebbe stato opportuno identificare la cultura con l’ideologia. Egli, riconoscendo che da una parte vi è il linguaggio scientifico, dall’altra tutti gli altri linguaggi, coerentemente avrebbe dovuto riconoscere che il linguaggio scientifico non appartiene alla cultura, essendo metaculturale. Il progresso umano può consistere dunque nel limitare sempre di più gli spazi della cultura, di tutto ciò che è locale in quanto espressione di identità e nel sottrarre il diritto alle contaminazioni della morale, cioè nel liberare l’universalità dai lacci delle identità, per fare della non identità culturale l’identità umana. Giustamente Pala ha citato Husserl (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore 1967) come esempio di proposta di una ragione universale. Scrive Husserl: “Solo così – cioè con una ragione universale – sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi con sé un’idea assoluta e se non sia un mero antropologico empirico come la Cina o l’India…L’appartenenza all’Europa è qualcosa di estremamente peculiare, qualcosa di sensibile anche per gli altri gruppi umani i quali…possono sentirsi indotti ad europeizzarsi. Noi invece, se siamo consci di noi stessi, ben difficilmente cercheremo di diventare indiani” (p. 45 e p. 333). La “ragione universale” è stata, tuttavia, concepita da Husserl entro i termini di un antropocentrismo idealistico, più che fenomenologico. Anche il marxismo esprime una ragione antropocentrica, e perciò ideologica, mentre ha preteso di essere una scienza storica ed economica.

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