domenica 14 marzo 2021

GLI ALLEVAMENTI CAUSA DELLE EPIDEMIE

MENO ALLEVAMENTI INTENSIVI, MENO EPIDEMIE

 

di Danilo Zagaria

 

fonte: Il Tascabile 10.06.2020

 

Nel 1998, in Malesia, i maiali iniziarono a tossire. Tossivano così forte che le persone riuscivano a sentirli anche a un miglio di distanza. All’inizio sembrava che a minacciare i 2,35 milioni di suini presenti nel Paese fosse un microrganismo ben noto in Asia: il flavivirus responsabile dell’encefalite giapponese. Si tratta di una malattia che ogni anno colpisce decine di migliaia di persone nel Sud-est asiatico, in gran parte bambini. Questo patogeno abita suini e uccelli selvatici, e per diffondersi utilizza un vettore: le zanzare (il meccanismo è molto simile a quello impiegato dal plasmodio della malaria). Una zanzara punge un maiale che ospita il virus, si posa poi sulla pelle di una persona e la punge, trasmettendo il microrganismo. Per fortuna si tratta di un virus che non può passare da una persona all’altra; inoltre, la mortalità è piuttosto ridotta. Quanto stava accadendo in Malesia appariva però strano a più di un esperto: non solo i maiali avevano iniziato ad ammalarsi seriamente e a morire, fatto insolito nel caso dell’encefalite giapponese, ma le persone colpite sembravano perlopiù adulti. Inoltre, la mortalità era assai preoccupante: toccava il 54%.

Alcuni mesi dopo, nel 1999, i virologi riuscirono a isolare il virus responsabile dell’evento epidemico. L’encefalite giapponese, come temuto, non c’entrava nulla. Il nuovo virus, chiamato Nipah (o NIV) dal nome di una cittadina malese, apparteneva alla famiglia Paramyxoviridae, di cui fanno parte, fra gli altri, il virus del morbillo e della parotite. Nipah era qualcosa di nuovo, e di pericoloso. Anche se la sua diffusione fu piuttosto contenuta (poco meno di 300 contagiati in totale), il governo di Kuala Lumpur decise di abbattere più di un milione di maiali, temendo che il gran numero di animali presenti negli allevamenti potesse favorire la diffusione dell’epidemia. Come si è poi scoperto in seguito, grazie anche a un nuovo focolaio di Nipah verificatosi in Bangladesh nel 2004, il virus abita un ospite naturale ben specifico: i pipistrelli del genere Pteropus, noti comunemente come volpi volanti.

Per comprendere cosa successe in Malesia e come si diffondono alcune zoonosi, dobbiamo fare un semplice esercizio. Immaginate una piccola fattoria situata ai margini di una foresta. Fra la casa del fattore e i primi alberi c’è uno spazio recintato destinato agli animali da allevamento. Non è raro che questi si spingano fino allo steccato, dove possono mangiare bacche e frutti caduti dai rami più sporgenti degli alberi. Talvolta gli animali selvatici che abitano la foresta si avvicinano al recinto ed entrano in contatto con quelli allevati. La fattoria è circondata da campi, in cui il fattore coltiva cibo per sé e per i suoi animali.

Ogni tanto il fattore uccide uno degli animali e si ciba della sua carne. Durante particolari occasioni va a caccia nella foresta, riportando alla fattoria un carniere pieno di prede selvatiche. Poiché le sue attività vanno bene, vorrebbe iniziare a vendere parte dei propri animali e dei prodotti che ne derivano. Per raggiungere questo obiettivo dovrà ampliare il recinto, aumentare il numero degli animali e coltivare un’area più vasta di terreno. Forse dovrà abbattere qualche albero della foresta per fare spazio. Oltre a questi movimenti – le attività del fattore e la vita degli animali, selvatici e non – ce ne sono altri, all’apparenza invisibili. Virus e altri microrganismi abitano gli animali della foresta, quelli da allevamento e il fattore stesso.

Quando si verificano le condizioni appropriate, un virus può effettuare un salto di specie (un evento che ormai conosciamo, chiamato spillover) e adattarsi al nuovo ospite. Può accadere quando il fattore va a caccia nella foresta o quando gli animali hanno contatti fra loro nei pressi del recinto; può anche accadere che il virus faccia più salti, utilizzando un ospite intermedio. In quest’ultimo caso è probabile che il gruppo intermedio siano gli animali allevati che, essendo numerosi, possono amplificare la diffusione del virus e contribuire a scatenare un’epidemia. Poiché il fattore si occupa ogni giorno dei suoi animali, è possibile che il virus contagi anche lui e si adatti quel tanto che basta a propagarsi fra gli altri esseri umani a partire dalla piccola fattoria.

Capire quale di queste strade il virus utilizza è molto importante, perché soltanto in questo modo è possibile agire per contenere quell’epidemia in particolare ed entrare così in possesso di informazioni utili a prevenirne altre in futuro. In Malesia, per comprendere come fosse stato possibile che il virus saltasse dai pipistrelli malesi ai maiali allevati, e da questi agli esseri umani, fu chiamato Hume Field, un veterinario. Avendo già condotto ricerche su virus emergenti che abitano i pipistrelli – come la prima comparsa del virus Hendra, avvenuta in Australia pochi anni prima, nel 1994 – Field si dedicò allo studio delle volpi volanti locali, cercando una connessione con i maiali. La trovò quando scoprì che spesso gli allevamenti avevano una struttura simile a quella della nostra fattoria immaginaria: sorgevano vicino ad aree forestali o a piccoli frutteti, luoghi prediletti dalle volpi volanti, animali ghiotti di frutta.

Durante i loro pasti, era normale che frutti mangiucchiati o altri residui vegetali cadessero a terra, proprio all’interno dei recinti dove i maiali erano lasciati liberi di scorrazzare e cibarsi di ciò che trovavano. Il virus passava così dai pipistrelli ai maiali, si diffondeva nell’allevamento sfruttando la promiscuità degli animali e finiva per contagiare chi lavorava nella filiera, o chi passava del tempo a contatto con i suini. Field aveva messo in evidenza una semplice quanto pericolosa catena di eventi – uno schema in grado di ripetersi con facilità, seppur con piccole variazioni, in tutti gli altri luoghi del mondo in cui si allevano animali.

Non è facile contarli, ma secondo le stime sul pianeta verrebbero allevati 70 miliardi di animali ogni anno. Quasi nove per ogni essere umano esistente. Gran parte di questa popolazione è cresciuta in allevamenti intensivi, dove le condizioni sanitarie, la scarsa differenza genetica fra gli individui, la sempre più preoccupante resistenza agli antibiotici e l’affollamento sono quanto di meglio un patogeno può chiedere per diffondersi con rapidità. Da tempo è noto che il settore contribuisce in modo considerevole al cambiamento climatico, alla perdita di biodiversità (attraverso l’erosione degli ecosistemi) e all’inquinamento di territori e sistemi idrici.

Tuttavia, la produzione di carne è in costante aumento dagli anni Sessanta a oggi. La cosiddetta livestock revolution (“la rivoluzione del bestiame”) è tuttora in corso, e negli ultimi decenni ha modificato la produzione mondiale: Europa e Stati uniti stanno cedendo il ruolo di leader ad Asia e Sud-America; Cina, Argentina e Brasile sono diventati fra i maggiori produttori di carne al mondo. Secondo un rapporto dell’UNEP pubblicato nel 2016, dedicato alle principali emergenze ambientali, la sempre maggiore domanda di carne, che oggi è in ascesa perché in diversi Paesi emergenti la richiesta ha eguagliato quella dell’Occidente, aumenta la probabilità che si verifichino eventi epidemici. Un esempio del rischio che stiamo correndo, e dell’impossibilità di porvi rimedio se non attuando misure draconiane, è rappresentato dall’influenza aviaria.

Come scrive Jonathan Safran-Foer in Se niente importa (Guanda, 2010):

Possiamo essere certi che qualunque discorso sulle pandemie influenzali oggi non può prescindere dal fatto che la malattia più devastante che il mondo abbia mai conosciuto, e una delle minacce più grandi per la salute che abbiamo di fronte, ha a che vedere proprio con la salute degli animali da allevamento, volatili in primis.

Nel 2017 la produzione di pollame rappresentava il 37% della produzione mondiale di carne complessiva: miliardi di animali, spesso allevati in modo intensivo (secondo un’indagine di Essere Animali, in Italia il pollame è allevato in modo intensivo nel 99,8% dei casi). Questa enorme massa di volatili è soggetta a ripetute epidemie, causate da virus influenzali di tipo A, fra cui H5N1, H7N9 e H9N2, che, come tutti i virus influenzali, sono in grado di mutare con gran facilità e combinarsi con altre varianti ospitate in maiali e cavalli. I virus influenzali aviari abitano diverse specie di uccelli selvatici (sterne, oche, quaglie, anatre…) e possono effettuare un salto di specie quando entrano in contatto con volatili da allevamento. Nel 2015, per esempio, un virus del sottotipo H5N2 ha scatenato un’epidemia negli allevamenti avicoli degli Stati Uniti. Per contenere il contagio e limitare al massimo la possibilità che il virus riuscisse a diffondersi anche fra gli esseri umani, sono stati abbattuti più di 43 milioni di volatili in 15 stati.

Ma quando il salto di specie avviene con successo e il virus acquisisce la capacità di passare da un essere umano all’altro, è probabile che si verifichino epidemie su larga scala o vere e proprie pandemie, come quelle che hanno colpito duramente l’umanità nel corso del Novecento, causando milioni di morti: la “spagnola” nel 1918-1919, la “asiatica” nel 1957-1960 e la “Hong-Kong” nel 1968-1969. Secondo l’OMS, per prevenire un’altra pandemia influenzale di questo tipo è necessario “rafforzare la sorveglianza sanitaria sia nelle popolazioni animali sia in quelle umane”. Un compito arduo, per non dire quasi impossibile da attuare ovunque e costantemente, soprattutto per quanto riguarda gli animali.

Come ha sottolineato la FAO in un rapporto del 2013: “La salute degli animali da allevamento è l’anello debole del sistema sanitario globale”. David Quammen, nel suo Spillover (Adelphi, 2014), lo ribadisce in modo chiaro:

Qui non si tratta più di zibetti selvatici, ma di allevamenti su scala industriale. È quasi impossibile fare lo screening a tutti i maiali, manzi, polli, anatre, pecore e capre per verificare la presenza di un nuovo virus prima di averlo identificato (o almeno di aver trovato un suo parente stretto), e gli sforzi in questo senso sono solo agli inizi. Le pandemie di domani potrebbero essere oggi nulla più di un ‘piccolo calo di produttività’ in qualche settore zootecnico dove si pratica l’allevamento intensivo.

La facilità con cui un’epidemia può diffondersi fra gli animali da allevamento è disarmante. Quella causata dal virus della peste suina africana (ASFV), patogeno in grado di causare una febbre emorragica la cui mortalità sfiora il 100%, ne è un esempio lampante. Il virus ha la capacità di sopravvivere anche nella carne processata ma, per fortuna, è innocuo per l’uomo. L’epidemia attualmente in corso è scoppiata nel 2007, in diversi Paesi dell’Europa dell’Est.

Nel 2018 il virus ha raggiunto gli allevamenti asiatici, colpendo in particolare la Cina (ormai leader mondiale nella produzione suina, come racconta Stefano Liberti nel suo reportage I signori del cibo, minimum fax). Il prezzo della carne di maiale è schizzato alle stelle e il Paese ha dovuto fare affidamento sulle importazioni, come non accadeva da anni. È stato calcolato che ad oggi l’epidemia ha ucciso, direttamente o a causa degli abbattimenti, il 25% della produzione suina globale, contagiando gli animali in allevamenti di qualsiasi dimensione.

Il caso della peste suina africana mette bene in evidenza come i virus possano spostarsi da un allevamento all’altro, percorrendo migliaia di chilometri. Lo spostamento è facilitato dal fatto che trasportiamo parte degli animali che cresciamo, anche oltre i confini nazionali; da anni questi viaggi sono nel mirino dei gruppi animalisti, in quanto ledono la salute fisica e psicologica degli animali. Nel 2017 sono stati 2 milioni gli animali trasportati vivi da un Paese all’altro, su camion e navi: un fenomeno che negli ultimi anni ha subito un brusco incremento.

Siamo di fronte a una fattoria in costante ampliamento. Il fattore del nostro esercizio di immaginazione è sempre al lavoro per allargare il recinto che ospita i suoi animali. Ormai ne alleva talmente tanti che ha bisogno di molto spazio, e per ottenerlo deve espandersi ai danni della foresta, distruggendola un albero dopo l’altro. Questo modus operandi aumenta la probabilità che si verifichi uno spillover vincente, perché incrementa il numero di occasioni concesse ai virus di entrare in contatto con gli esseri umani in modo diretto oppure tramite gli animali da allevamento. Secondo innumerevoli studi, fra cui l’approfondito rapporto IDEEAL pubblicato da EcoHealth Alliance nel 2019, fra le principali cause che possono portare a uno spillover vincente ci sono il cambio d’uso dei suoli (31%) e le trasformazioni attuate nel settore agricolo (15%). L’espansione della fattoria del nostro esempio avviene perché gli animali, allevati in gran numero, hanno bisogno di sempre più spazio e cibo: il fattore non può che aumentare la superficie che utilizza per sostenere il suo allevamento, erodendo sempre più la foresta lì accanto, cambiando l’uso del suolo e minacciando biodiversità e integrità di quell’ecosistema.

Secondo il rapporto IPBES redatto dall’ONU nel 2019, la trasformazione degli ecosistemi operata dall’uomo negli ultimi cinquant’anni è senza precedenti: l’ha subita il 77% delle terre emerse. La deforestazione, una delle piaghe maggiori, è attuata anche per fare spazio a grandi allevamenti e colture dedicate alla produzione di mangimi animali. I dati relativi al 2019 pubblicati dal Global Forest Watch indicano che la direzione intrapresa negli ultimi anni non è quella giusta, dal momento che il fenomeno è in crescita e negli ultimi anni sono stati registrati record particolarmente negativi: nel 2019 abbiamo perso un’area forestale grande quanto la Svizzera. Secondo un’inchiesta del Guardian pubblicata lo scorso anno, la deforestazione dell’Amazzonia è strettamente correlata alla produzione di carne bovina.

Nonostante non si conosca ancora la storia precisa della sua origine, la pandemia di COVID-19 che stiamo vivendo in questi mesi ci ha insegnato che lo scoppio di nuovi focolai causati da virus sconosciuti o ancora poco noti è qualcosa che avviene lungo i confini dell’agire umano. Nel caso del virus Sars-CoV-2 è coinvolta almeno una specie di animali selvatici (i pipistrelli sono i migliori candidati, di nuovo) e, forse, un’area precisa della Cina meridionale, dalla quale proviene anche il virus della SARS.

Nonostante i miliardi di animali da allevamento e il ruolo chiave giocato nell’emergere di nuove epidemie, animali come polli, maiali, tacchini, mucche e capre sono ancora una volta i “fantasmi nella nostra macchina”, come li definiva il documentario del 2013 The Ghosts in Our Machine. Essendo le epidemie eventi che colpiscono duramente la salute pubblica quanto il comparto economico, la nostra attenzione a quanto accade negli allevamenti intensivi del mondo dovrebbe essere massima. Ma la sorveglianza non basta. Il settore zootecnico è una bomba a orologeria, un sistema che dovrebbe essere ripensato, a cominciare dalle domande etiche che la filiera produttiva della carne e di tutti i prodotti di origine animale solleva.

Da anni si parla della necessità di passare a un approccio One Health – cioè iniziare a pensare in termini di salute condivisa, tenendo presente che la salute degli esseri umani è connessa a quella di ecosistemi e animali (sia selvatici sia allevati) –, ma è difficile se questo obiettivo non diventerà prioritario e condiviso da tutti. Abbiamo bisogno di immaginare una nuova fattoria, parte di un sistema ben più esteso. I virus stessi ci dimostrano che gli ambienti artificiali, semi-artificiali e naturali sono strettamente connessi, legati fra loro da forti legami biologici. Recinti e confini sono quindi poco utili, perché ai virus e agli altri possibili patogeni non piacciono, e non li rispettano.

Ci servono fattorie di dimensioni ridotte, luoghi in cui il benessere degli animali e del territorio è la preoccupazione principale del fattore: dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per ridurre la probabilità che si verifichino nuovi eventi epidemici. Un primo passo potrebbe essere comprendere, finalmente, che allevare 70 miliardi di animali ogni anno non è una buona idea.

Danilo Zagaria è nato a Torino nel 1987. Laureato in biologia, attualmente scrive di ambiente, conflitti e letteratura su diverse riviste online e cartacee. Il suo blog è La Linea Laterale.

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