Solo per gli animali non umani la vita ha un senso perché non si pongono la domanda "che senso ha la vita?". Trovatemene uno. La gente fa figli per darsi l'illusione di avere uno scopo e delle responsabilità nella vita. E così continua la corsa a staffetta in cui ognuno consegna al figlio il testimone della morte, cioè del nulla. Viviamo senza certezze. Ognuno cerca di non disperarsi distraendosi dal pensiero della morte. Io sono stato coerente. Non ho voluto discendenza.E IO NON VOLEVO NASCERE (titolo di un mio libro). Maledetti quei che mi hanno fatto nascere. Sono in lista d'attesa.Come tutti. Abbiamo il biglietto pronto per tornare nel nulla.Lucio Magri non si è fatto vincere dal terrore di tornare nel nulla.Ma ha preferito la morte, non perché vinto dal non senso della vita, ma per porre fine ad una vita che avrebbe voluto diversa. Qui sta la differenza. Ha voluto sottrarsi al dolore. Io, al contrario, sono legato alla vita non perché la ami ma perché ho terrore del nulla. E nessun dolore potrà vincere il terrore del ritorno nel nulla, che cerco di allontanare nel tempo.
Una scelta d'amore da rispettare
Il suicidio assistito di Lucio Magri
di Maria Paola Masala
In una società che rifiuta l’idea stessa della morte, l’unica forma di suicidio “ammesso” (per chi ammette i suicidi) è quello d’istinto, quello per il quale siamo portati a trovare una giustificazione. Più difficile è accettare un suicidio programmato, deciso con lucida determinazione. Per questo suscita tante emozioni la fine di Lucio Magri, che fu voce critica all’interno del Pci, e tra gli animatori del gruppo di dirigenti comunisti dissidenti che nel 1969 diede vita al Manifesto. Giorni fa, a 79 anni, ha chiuso volontariamente la sua esistenza a Bellinzona, nella clinica di un medico amico.
Al di là del dibattito tra laici e cattolici, della scorretta sovrapposizione tra eutanasia e suicidio assistito, a lasciare sgomenti è il carico di dolore che una scelta simile porta con sé. Un dolore freddo, quanto tenero era l’affetto che Magri nutriva per la moglie Mara, uccisa da un tumore tre anni fa. Non riusciva a vivere senza di lei. Si uccisero insieme negli anni Ottanta lo scrittore ungherese Arthur Koestler e sua moglie, e a lungo si parlò, in Italia, della commovente fine di Germaine Lecocq, morta a poche ore da Giorgio Amendola. Del resto, non è forse uno dei miti più affascinanti dell’antica Grecia quello di Filemone e Bauci che chiesero e ottennero dagli dei di poter morire insieme?
Lucio Magri era depresso da tempo. Ed era disperato. Altri hanno trasformato il dolore in riflessione e condivisione: come il filosofo francese Edgar Morin, che alla moglie Edwige, morta due anni fa, ha dedicato un libro bellissimo, non vergognandosi di definirsi, a 89 anni, «un orfano inconsolabile». Magri ha scelto l’unica strada che riteneva possibile e l’ha percorsa fino alla fine. Della sua decisione di uccidersi in questo modo così asettico e per questo paradossalmente così violento, si è parlato moltissimo. Il suo appello a non fare troppi pettegolezzi, che fu di Majakovskij e di Pavese, è rimasto inascoltato e non poteva che essere così. C’è da sperare che con la regola del silenzio non venga infranta anche quella del rispetto. Lo esigono la sua vita e la sua morte.
Al di là del dibattito tra laici e cattolici, della scorretta sovrapposizione tra eutanasia e suicidio assistito, a lasciare sgomenti è il carico di dolore che una scelta simile porta con sé. Un dolore freddo, quanto tenero era l’affetto che Magri nutriva per la moglie Mara, uccisa da un tumore tre anni fa. Non riusciva a vivere senza di lei. Si uccisero insieme negli anni Ottanta lo scrittore ungherese Arthur Koestler e sua moglie, e a lungo si parlò, in Italia, della commovente fine di Germaine Lecocq, morta a poche ore da Giorgio Amendola. Del resto, non è forse uno dei miti più affascinanti dell’antica Grecia quello di Filemone e Bauci che chiesero e ottennero dagli dei di poter morire insieme?
Lucio Magri era depresso da tempo. Ed era disperato. Altri hanno trasformato il dolore in riflessione e condivisione: come il filosofo francese Edgar Morin, che alla moglie Edwige, morta due anni fa, ha dedicato un libro bellissimo, non vergognandosi di definirsi, a 89 anni, «un orfano inconsolabile». Magri ha scelto l’unica strada che riteneva possibile e l’ha percorsa fino alla fine. Della sua decisione di uccidersi in questo modo così asettico e per questo paradossalmente così violento, si è parlato moltissimo. Il suo appello a non fare troppi pettegolezzi, che fu di Majakovskij e di Pavese, è rimasto inascoltato e non poteva che essere così. C’è da sperare che con la regola del silenzio non venga infranta anche quella del rispetto. Lo esigono la sua vita e la sua morte.
Io la capisco e sono d'accordo con lei praticamente su tutto. Quello che non mi quadra è: perché la paura del nulla? Se è nulla che male può fare? Non può essere paura di qualcosa invece? Paura di un'altra dimensione infernale?
RispondiEliminaSe si ha l'assoluta certezza del nulla dopo la morte, e si comprende qual è la natura dolorosa della vita, questo nulla dovrebbe essere consolazione, piuttosto che terrore.
Eppure la paura della morte è sempre più forte di tutto.
Sottoscrivo il commento di Massimo. Trovo strano che un professore di filosofia così radicale e navigato abbia il terrore del nulla. Mi ricorda Canetti che odiava la morte, e anche questo odio mi pareva strano. Certo non abbiamo chiesto di venire al mondo, ma una volta che ci siamo vogliamo restarci il più a lungo possibile, anche se la nostra vita non è proprio il massimo, anzi. Non c'è credente che non voglia rimandare la morte: non vuole andarsene nemmeno un minuto prima!
RispondiEliminaNon ci piace tornare nel nulla da cui veniamo. Il fatto di disintegrarci e di non conoscere il seguito è difficile da accettare. Ma è la sorte di ogni essere vivente, compresi i nostri amatissimi compagni a quattro zampe, non c'è rimedio. Il "terrore" del nulla è un'espressione che non mi va: preferirei "vertigine" davanti al nulla. Forse è la stessa cosa, ma anche le sfumature contano.
Cari Sergio e Massimo
RispondiEliminala vostra non è una critica. Avete detto le stesse cose che ho scritto io. Se ammettete che ognuno cerca di rinviare la propria fine non sta forse ammettendo di averne paura? E perché essere costretti a vivere con questa paura? La si chiami vertigine, la si chiami terrore o paura, è sempre la stessa cosa. Che fa lagente per rimuovere questo pensiero? Non ci pensa e si butta (si deietta, direbbe Heidegger) nella vita inautentica del quotidiano. La vita autentica rimane "il vivere per la morte" (sempre Heidegger). Voi potete rimuovere il pensiero della morte se siete giovani. Ma dopo una certa età non è più così.
Non è che uno per non pensare alla fine si butti nell'attività quotidiana che sarebbe vita inautentica. Volenti o nolenti per sopravvivere dobbiamo darci da fare - sempre. È una necessità primaria. E in questa attività troviamo, oltre alle sostanze nutritive, spesso viva soddisfazione - perché la vita può essere anche bella, entusiasmante. Siamo "macchine desideranti" che devono restare sempre in funzione, se no si arrugginiscono o deteriorano.
RispondiEliminaIl tedio ci assale nei momenti di relax troppo prolungati. Grazie al relax però l'uomo ha avuto modo di riflettere e di migliorare le proprie condizioni di vita.
Però non direi che ci buttiamo nel quotidiano per rimuovere il pensiero della fine. A cui ormai penso anch'io sempre più spesso non essendo più giovane.
Una persona come Margherita Hack non mi sembra terrorizzata dal pensiero della fine - perché anche a 90 anni è sempre attiva, curiosa, partecipe.
Spero che lei provi ancora felicità. Quando si è felici tempo e spazio non esistono più - in quei momenti vinciamo la morte. Certo alla fine vince lei, ma intanto proviamo piacere. "Weh spricht: Vergeh' / Doch Lust will Ewigkeit / Tiefe, tiefe Ewigkeit" (Nietzsche).
Illusioni? Che importa!