mercoledì 23 maggio 2012

LA FOLLIA DELLA FECONDAZIONE ETEROLOGA. GIUDICI COMPLICI DELLA FOLLIA


LA SENTENZA SULLA LEGGE 40 E LA PROCREAZIONE ETEROLOGA

Eterologa, in Italia resta la proibizione
Ma la Consulta: «Si può ricorrere»

Eterologa, Consulta ai tribunali: ogni governo può vietare la fecondazione

La Corte costituzionale rinvia gli atti ai tribunali e rimanda alla sentenza di Strasburgo: «Governi liberi di decidere»

SALUTE In Italia resta il divieto. Il legale delle coppie che avevano fatto ricorso: «Consulta ha preso tempo, decisione non negativa»
L'ultima parola arriverà tra
un anno e forse più De Bac
NON CAPIRO' MAI PERCHE' LA GENTACCIA SI ACCANISCA NEL VOLERE FIGLI ANCHE CONTRO NATURA. SOLO PER GLI ANIMALI NON UMANI LA VITA HA UN SENSO PERCHE' NON SI PONGONO LA DOMANDA "CHE SENSO HA LA VITA?". SI TRATTA DI GENTE INCOSCIENTE ED EGOISTA CHE FAREBBE MEGLIO AD OCCUPARSI DI CHI GIA' DISGRAZIATAMENTE ESISTE INVECE DI CHI NON ESISTE E NON HA CHIESTO DI NASCERE PER ESSERE COSTRETTO A FARE L'ESPERIENZA DELLA MORTE. MALEDETTI QUEI DUE CHE MI HANNO FATTO NASCERE. STO MOLTO MEGLIO SENZA FIGLI E RELATIVE COMPLICAZIONI (ANCHE ECONOMICHE) DELLA VITA. 
SEGUE IL MIO COMMENTO TRATTO DAL MIO LIBRO DEL 2006 (SCONTRO TRA CULTURE E METACULTURA SCIENTIFICA).
"La fine dell'umanità non sarebbe una tragedia, ma la fine di una tragedia" (Peter Wessel Zapffe, Sul tragico).

Non è giustificabile l’inseminazione artificiale eterologa perché il nascituro, non potendo avere conoscenza del padre o della madre naturale, verrebbe danneggiato perché privato del suo diritto naturale di conoscere il patrimonio genetico di ambedue i genitori in relazione alla necessità di una anamnesi medica che faccia riferimento ad esso. Si aggiunga il danno psicologico, in alternativa alla menzogna perpetua avallata dalla legge, derivante dalla scoperta da parte del figlio, di non poter conoscere il suo vero padre o la sua vera madre, con le conseguenti possibili turbe psicologiche che durerebbero per tutta la vita. E ciò in conseguenza dell’egoismo di chi vuole un figlio ad ogni costo, accampando un falso diritto alla paternità o alla maternità.
Per questo motivo deve essere vietato alla madre di abbandonare in ospedale sotto la garanzia dell’anonimato il neonato, dovendosi sempre garantire al figlio la possibilità di conoscere la sua vera madre se egli lo richiedesse o fosse necessario sul piano di un anamnesi medica. Per lo stesso motivo la madre deve essere costretta dalla legge ad indicare il padre del neonato da sottoporre alla prova del DNA, anche se ciò non comporterebbe da parte del padre e della madre naturali l’onere di provvedere materialmente al neonato abbandonato, da affidare successivamente ad altra coppia, potendo nell’adozione avere anche una vita migliore.
Se si considerassero tutti questi aspetti non si farebbe tanto baccano sul diritto alla vita degli embrioni, che non chiedono certamente di nascere, come se la vita fosse un bene ancor prima di nascere (o di essere concepiti), e non lo fosse invece soltanto in relazione al fatto che, una volta nati, come dice Hobbes, la morte appare “il massimo dei mali naturali”. Si considera solo il passaggio dal nulla all’essere (cioè alla nascita o al concepimento), per trarre da ciò un bene (la vita) come guadagno, senza considerare il successivo passaggio dall’essere al nulla, con la perdita dell’asserito bene della vita. La somma totale è pari a zero. Anzi, considerando in più l’esperienza negativa della morte, che non nascendo si eviterebbe, la somma è qualitativamente negativa. Ma, una volta nato, ognuno si affanna, già dal momento del piacere della suzione del latte materno, a ricercare dei beni per la tendenza naturale di ogni organismo a conseguire il proprio benessere, come “ciò a cui ogni cosa tende” (Aristotele, Etica nicomachea, I, 1) e a “fuggire quel che per lui è male, specialmente poi il massimo dei mali naturali, cioè la morte” (Hobbes, De cive, I, 7). La vita è la condizione esistenziale che porta a conseguire dei beni. Essa, pertanto, non è di per sé un bene. Appare tale soltanto di riflesso, perché, una volta nati, la morte è certamente un male, perché perdita di tutto. Ma queste considerazioni, pur ovvie, non possono entrare nella testa dei cosiddetti esperti del Comitato nazionale di bioetica di nomina ministeriale. A maggior ragion non possono entrare nella testa della gente comune, plagiata dalla retorica dei mass media fondata sui luoghi comuni dei non sensi linguistici, che impongono di pensare che la vita sia di per sé un bene, e che dunque essa possa essere donata.1 Oltre tutto, se fosse di per sé un bene, non esisterebbero i suicidi. Chi si suicida non riesce più a conseguire dei beni dalla vita. Per lui si forma un corto circuito causato dall’impossibilità di conseguire ulteriormente dei beni, a causa del prevalere di un danno, che può essere anche la consapevolezza della mancanza di senso della vita. Le religioni pongono riparo alla disperazione che può nascere dal prevalere del sentimento oscuro della mancanza di senso della vita sulla naturale tendenza dell’organismo a conservarsi in vita. Infatti gli animali non umani non si suicidano.
Abbiamo con ritardo trovato riscontro a queste nostre indipendenti considerazioni in uno scritto di notevole e perdurante successo dove l’autrice (Oriana Fallaci) aveva raccontato la sua esperienza di madre mancata a causa della morte del feto al terzo mese. Ella all’inizio aveva cercato di giustificare la convenienza di nascere col pensare che “nulla è peggiore del nulla” e che “nascere merita sempre” perché “l’alternativa è il vuoto e il silenzio…Il brutto è dover dire di non esserci stato”.2 Non si capisce se l’autrice fosse conscia della mancanza di senso, anche linguistico, di queste giustificazioni, anche se sembra che nemmeno ella fosse convinta di esse e che se ne servisse come di un alibi per non abortire. Infatti nulla non può essere peggiore del nulla, non potendoci essere alcun confronto nel nulla, e nessuno, tornato al nulla, può dire che “il brutto è dover dire di non esserci stato”. Nulla si può dire nel nulla, e dunque non vi può essere alcun rammarico nel nulla. Ma infine è al feto morto di tre mesi che viene dato il compito di dire alla madre mancata la verità che la madre non aveva il coraggio di dire: “Non appena compresi che tu non credevi alla vita, io mi permisi la prima ed ultima scelta: rifiutare di nascere…Si nasceva perché altri erano nati e perché altri nascessero…Se non accadesse così, mi dicesti, la specie si estinguerebbe. Anzi non esisterebbe. Ma perché dovrebbe esistere, perché deve esistere? Lo scopo qual è? Te lo dico io: un’attesa della morte, del niente. Nell’universo che tu chiamavi uovo lo scopo esisteva: era nascere. Ma nel tuo mondo lo scopo è soltanto morire: la vita è una condanna a morte. Io non vedo perché avrei dovuto uscire dal nulla per tornare al nulla”. E il mancato padre scrive alla mancata madre: “Sai meglio di me che nessuno è indispensabile, che il mondo se la sarebbe cavata ugualmente se Omero e Icaro e Leonardo da Vinci e Gesù Cristo non fossero nati…Ti scrivo per congratularmi, per riconoscere che hai vinto…Se riuscita a non cedere al bisogno degli altri, incluso il bisogno di Dio…Dio è un punto esclamativo con cui si incollano tutti i cocci rotti: se uno ci crede vuol dire che è stanco, che non ce la fa più a cavarsela da sé. Tu non sei stanca perché sei l’apoteosi del dubbio…E solo chi si strazia nelle domande per trovare risposte, va avanti; solo chi non cede alla comodità di credere in Dio per aggrapparsi ad una zattera e riposarsi può incominciare di nuovo: per contraddirsi di nuovo, smentirsi di nuovo, regalarsi di nuovo al dolore”. Poi torna l’illusione della vita: “Ho il compito di battermi contro le comodità dei punti esclamativi, ho da indurre la gente a porsi più perché”. Ma si termina con una banalità: “a (che) cosa serve volare come un gabbiano dentro l’azzurro se non si generano altri gabbiani che ne genereranno altri ancora ed ancora per volare dentro l’azzurro?”.
In realtà solo gli uomini-gabbiani meritano di nascere. Se anche quasi tutti gli umani viventi dichiarassero, da ebeti, di essere contenti di essere nati, cioè di dover morire, non si potrebbe sacrificare il pensiero di una minoranza che avrebbe preferito il contrario, cioè non nascere. In dubio pro nihilo.
Se si tenessero presenti queste considerazioni, da parte di credenti e non credenti, si finirebbe di blaterare sul rispetto della vita degli embrioni, perché chi li difende dovrebbe prima poter domandare ad essi se preferiscano nascere, cioè di fare l’esperienza della morte.
Forse per porre rimedio all’assurdità di una vita vissuta nella continua anticipazione della morte a cui l’uomo, al contrario degli altri animali, è costretto, Platone – e con lui tutta la tradizione neoplatonica - riprese da Pitagora la teoria della reincarnazione e della metempsicosi nel Fedro (247 sgg.), nella Repubblica (libro X) e nel Timeo (90e sgg.).In questo modo i genitori, incolpevoli, diventavano soltanto la causa contingente di una rinascita già segnata nel destino di ognuno nel ciclo eterno delle reincarnazioni dell’anima increata.

Gli uomini nascono sempre o per sbaglio o per egoismo dei genitori. E’ lo sbaglio che differenzia gli uomini dagli altri animali.

Vale inconsciamente anche la tendenza a sopravvivere nella discendenza oltre al cercare di pensare meno a se stessi e alla morte creandosi delle responsabilità per fornirsi di scopi illusori nella vita, in un circolo vizioso. Ma si può dire, con Pascal, che “ciascuno morirà solo” (Pensieri). In terzo luogo, se fosse vero che nell’embrione vi è già l’anima immortale, poca cosa sarebbe una vita pur lunga e beata di fronte alla certezza dell’anima dell’embrione di avere una vita immortale di beatitudine, non essendo sottoposta al rischio di una vita eterna di dannazione diventando individuo adulto. La Chiesa, condannando l’aborto, preferisce che ognuno, nascendo, corra questo rischio, che l’embrione, privo di colpe, non può correre, mentre dovrebbe riconoscere che, dal suo stesso punto di vista, l’aborto sarebbe una fabbrica di anime beate. Lo stesso papa Giovanni Paolo II ha scritto in un documento (Evangelium vitae) rivolto alle donne che hanno abortito che i loro mancati figli sono stati ricevuti “nella gloria di Dio”. E allora? Perché Dio dovrebbe punire le madri che hanno abortito? Ma, a parte questi paradossi, che sono conseguenti ad una concezione morale contraddittoria, vi è da domandarsi se valga maggiormente la salvezza di un individuo già formato, soggetto cosciente del diritto alla vita, garantibile, perché malato, dall’impiego di tessuti od organi ottenuti dalla coltura di embrioni, piuttosto che quella di un embrione che non può nemmeno desiderare di nascere e non può tendere a conseguire un benessere fisico che non conosce, essendo mancante di quegli organi e di quelle facoltà naturali che ne sono la premessa. Si vede come la morale riesca persino, contro il diritto naturale, a farsi sostenitrice di un diritto alla morte, e non alla vita, del soggetto malato a favore di chi non esiste nemmeno come individuo.
1 Forse, proprio a causa della mancanza di senso dell’espressione “donare la vita”, Platone, per ovviare a ciò, recepì dalla tradizione pitagorica ed orfica la dottrina della metempsicosi, che presuppone, non soltanto che l’anima sia coeterna con il mondo e che essa sia soggetta a cicli di reincarnazione, ma che essa possa trasmigrare, per punizione, in forme di vita inferiori, entro uno stesso ciclo del mondo, per cui i genitori sono soltanto lo strumento involontario di un destino già segnato per l’anima. Sia Platone che Aristotele ripresero da Eraclito il concetto di grande anno (10. 800 anni), che rappresenta quel ciclo del mondo dopo il quale le cose e gli eventi si ripresentano e si ripetono come nel ciclo precedente, dovendo rinascere gli stessi individui. Tale pensiero fu conservato nel neoplatonismo di Plotino (III secolo .d. C) e della sua scuola, sino a Proclo (V secolo) .
2 Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, Rizzoli 2005 (1975), pp. 49, 89, 91, 94, 96, 99.

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