I commenti confermano tre cose: 1) Ci si rifugia come al solito dietro il possibile errore giudiziario (non tenendo conto che oggi le indagini scientifiche hanno quasi annullato l'errore riguardanti le tracce lasciate dall'assassino e che il giudice che non applichi il famoso detto IN DUBIO PRO REO mandando in galera un innocente deve finire anch'egli in galera perché stia bene attento a non condannare in caso di qualche pur leggero dubbio; 2) Si considera lo Stato che applichi la pena di morte allo stesso livello dell'assassino non tenendo conto del morto innocente che chiede anche da morto giustizia. E in base all'equiparazione della pena al delitto non può esservi carcere che possa sostituire la pena di morte. Lo disse esplicitamente il grande filosofo Kant; 3) L'argomento secondo cui la pena di morte non sarebbe un deterrente è stato smentito pienamente da un'indagine americana che riporto nel testo.
Si tenga ben presente l'argomento (anche se posto nella nota 17 ) del giurista Gaetano Filangieri che sviluppa un argomento del filosofo John Locke (riconosciuto come padre del liberalismo moderno) a favore della pena di morte. Ho ingrandito il testo della nota 17 aggiungendo il grassetto.
Uno ha scritto che la mia richiesta della pena di morte è follia. Mi ha fatto un elogio perché vi fu uno (Erasmo da Rotterdam) che scrisse il famoso Elogio della follia. Con la mia follia mi vanto di stare in compagnia di tutti i maggiori pensatori (dall'antichità al '900) che cito e che giustificarono la pena di morte. Oggi purtroppo l'Occidente vive in un clima di decadenza giuridica e morale, in una tremenda confusione nascente dalla confusione antropocentrica tra morale e diritto. La Costituzione, volendo nell'art. 27 far valere il principio della rieducazione del condannato anche quando si tratti di un assassino appartenente alla criminalità mafiosa, non soltanto è utopistica, ma vergognosamente ipocrita perché si sa che il carcere non rieduca, e tale articolo viola il principio secondo cui la pena deve avere un carattere afflittivo e non rieducativo. E ci si ricordi che il tanto lodato (da chi non l'ha mai letto) Beccaria intendeva l'ergastolo in senso afflittivo (tra ceppi e catene e in una schiavitù perpetua perché il disperato non cessi dalle sue afflizioni), a tal punto che l'ergastolano avrebbe preferito la pena di morte per por fine alle afflizioni. Ci si ricordi anche che la mafia continua a comandare anche dal carcere. Anche se non lo si vuole ammettere per non ammettere l'impotenza dello Stato di fronte a questa schifosa genia che dovrebbe essere estirpata dalla faccia della terra. Fosse almeno condannata ai lavori duri e forzati per risarcire la società o usata come cavie nei laboratori. Soltanto così si renderebbe utile da viva, invece di dover mantenere in carcere con le tasse questi subanimali. La mafia continuerà a esistere sempre in questo regime pseudodemocratico che elegge in parlamento i mandanti della mafia.
Ecco il testo (dal libro del 2006)
Sul diritto naturale si fonda la giustificazione della pena di morte. La condanna della pena di morte discende dalla solita confusione tra morale e diritto, che porta lo Stato a sostituirsi alla vittima innocente che non avrebbe voluto moralmente perdonare, con la conseguenza contraddittoria che l’assassino avrebbe un diritto naturale alla vita maggiore rispetto a quello della vittima. Coloro che, “allignando nella palude dell’emotivo”,1 gonfi di sentimento, ma privi di ragione, attribuiscono ipocritamente alla pena una funzione rieducativa (come si desume dall’art. 27 della Costituzione italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i sostenitori della pena di morte.
Tra questi barbari dovrebbero
essere inclusi allora anche il fondatore del cristianesimo, S.
Paolo (che nell’Episola
ai Romani
riconobbe al governo, anche pagano, l’jus gladii, cioè il diritto di spada),
nonché il maggiore Padre della Chiesa, S. Agostino, il maggiore
dottore di essa, S. Tomaso, il padre del liberalismo moderno,
Locke, il maggiore filosofo dell’Illuminismo, Kant, sino a
giungere a Pio XII, che, proposto per la beatificazione da
Giovanni Paolo II, difese una concezione vendicativa della pena
e giustificò la pena di morte vedendo nel disprezzo dell’ordine
pubblico un’opposizione a Dio (Acta Apostolicae Sedis 47, 1955). Pio XII. l’ultimo
grande papa. Dopo di lui il caos nella Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, facendo visita ad un carcere, invitò i
carcerati a sopportare la loro croce, come se i delinquenti di
ogni specie potessero essere considerati vittime e non
carnefici. Il buonismo che uccide la giustizia.
Platone nel Protagora afferma che è comando divino
l’uccidere gli individui incapaci di giustizia, in quanto sono
una piaga sociale. E nelle Leggi (L. IX) è prevista la pena di morte per gli omicidi
volontari e l’esilio per due o tre anni per quelli involontari,
essendo ritenuti tali quelli causati da uno stato d’ira
motivato, che, tuttavia, non non vale come attenuante nel caso
di patricidio o matricidio. Aristotele (Etica nicomachea, V, 5), pur sfiorando soltanto
l’argomento, scrive che “alcuni ritengono che la legge del
taglione sia assolutamente il giusto; e così affermarno i
Pitagorici: essi infatti definirono in senso assoluto il giusto
come il rendere agli altri il contraccambio. Ma la legge del
taglione non si accorda con la giustizia distributiva né con
quella regolatrice”, cioè compensativa del danno subito. Infatti
subito dopo Aristotele spiega che è più grave colpire un
magistrato perché in tal caso chi lo colpisce dovrà non soltanto
essere colpito, ma anche punito. Dunque Aristotele, benché non
accenni espressamente alla pena di morte, chiarisce che la legge
del taglione è la base della giustizia. Rimane sottinteso che
l’assassino merita la morte che egli ha inflitto ad altri.
Seneca, autore delle Lettere a Lucilio, che possono essere
considerate il capolavoro della filosofia morale di ogni tempo,
scrive nel De
clementia che
la legge nel punire i delitti può applicare anche la pena di
morte, “estirpando i malfattori dal corpo sociale per assicurare
la tranquilla convivenza degli altri”.
Il diritto romano consolidò la
teoria che la giustizia dovesse ritenersi pubblica vendetta nei
confronti di chi attentasse al bene comune, identificato con
l’utilità sociale. Nell’età moderna il diritto romano fu
elaborato da filosofi e giuristi secondo l’indirizzo del diritto
naturale, per trovare in esso la giustificazione della libertà
di pensiero, ma anche quella della pena di morte in difesa
dell’ordine pubblico2
Nelle Lettere3Agostino evidenzia come il
perdono possa avere conseguenze negative su chi, invece di
correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua
arroganza, oppure, correttosi nella sua condotta, induca
tuttavia altri ad approfittare sperando in eguale impunità.
Riprendendo il pensiero di S. Paolo, Agostino scrive: “Se fai il
male, abbi paura, poiché l’autorità non senza ragione porta la
spada; essa infatti è strumento per infliggere punizione ai
malfattori in nome di Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De libero arbitrio che “se l’omicidio consiste
nel distruggere o uccidere un uomo, talvolta si può si può
uccidere senza commettere peccato; questo vale per il soldato
col nemico, per il giudice o il ministro con coloro che fanno
del male”.
In Agostino prevale la teoria
della prevenzione come giustificazione della pena di morte. Una
funzione prevalentemente retributiva, oltre che emendativa e di
prevenzione, ha, invece, la pena di morte per S. Tomaso, che
nella Summa
theologica
(II, II, q. 68, a.1) giustifica la pena come vendetta che si
esercita sui malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio
e nella Summa
contra Gentiles (III, cap. 146), dopo aver scritto che la vita del
delinquente deve essere sacrificata, allo stesso modo in cui “il
medico taglia a buon diritto e utilmente la parte malata,
aggiunge che “uccidere un uomo che pecca può essere un bene come
uccidere un’animale nocivo. Infatti un uomo cattivo è peggiore e
più nocivo di un animale nocivo”. Vi è dunque da domandarsi
quale credibilità possa avere oggi la Chiesa, che, rinnegando
circa 2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha abolito nel
1999 dal Catechismo la pena di morte. La condanna
della pena di morte vuole essere espressione di superiorità
morale (dettata dal sentimento), ma è di fatto espressione di
inferiorità giuridica, causata dalla corruzione del diritto da
parte della morale.
Montaigne nei Saggi (1580) scrive, giustificando
la pena di morte, che “non si corregge colui che è impiccato; si
correggono gli altri per mezzo suo”. Tale giustificazione
prescindeva da una concezione retributiva, e perciò da diritto
naturale, perché Montaigne, esprimendo un relativismo culturale,
faceva discendere le leggi dal costume di un popolo, scrivendo
che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla
natura, nascono invece dal costume…Per cui accade che quello che
è fuori dai cardini del costume lo si giudica fuori dei cardini
della ragione”.4 Non si capisce pertanto come
egli potesse pretendere di impiegare la ragione per giudicare i
costumi.
Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (1749), dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei poteri, scrive che “la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è come il rimedio della società malata”.
Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (1749), dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei poteri, scrive che “la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è come il rimedio della società malata”.
Rousseau nel Contratto sociale (1762) considera la pena di
morte entro una concezione retributiva sul presupposto che il
cittadino è obbligato ad obbedire alla volontà generale (della
maggioranza) quale condizione della conservazione del patto
sociale, che implica la conservazione della vita dei contraenti.
Ma chi vuole conservare la vita con il contributo degli altri
deve essere anche disposto a morire dal momento in cui cessa di
essere membro della società perché ne è divenuto nemico con il
suo delitto. La conservazione della società in tal caso è
incompatibile con quella del criminale.
Scrive Rousseau nel Contratto sociale che “è appunto per non essere
vittime di un assassino che noi consentiamo a morire se
diventiamo tali…Ogni malfattore diviene a causa dei suoi delitti
nemico della patria; cessa di esserne membro; a questo punto la
conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna
che uno dei due perisca”.
Ha scritto Kant: “Se poi egli
ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro surrogato che
possa soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una
vita per quanto penosa e la morte; e di conseguenza non esiste
altra eguaglianza tra il delitto e la punizione, fuorché nella
morte giuridicamente inflitta al criminale” (Metafisica
dei costumi,
parte II, sez. I, nota). 5
E Schopenhauer, utilizzando
contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello
stesso Kant (“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto
nella tua persona quanto nella persona di tutti gli altri, anche
come fine, mai soltanto come mezzo”, osservava, rincarando la
dose, che essa era infondata alla luce della giustificazione
della pena di morte: “A quella formula ci sarebbe da obiettare
che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente,
soltanto come mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile
per confermare alla legge, se attuato, la forza deterrente,
nella quale appunto consiste il suo fine”.6 In sostanza, per Schopenhauer
l’assassino non fa parte dell’umanità, e dunque la sua vita
cessa di essere un fine per diventare solo un mezzo della forza
deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da
qualsiasi concezione utilitaristica della pena, come quella di
Schopenhauer, che vedeva nella pena un mero mezzo per ottenere
un bene per la società. Per Kant è lo stesso delitto che
richiede una proporzionata pena come imperativo categorico non
potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio che
serva da deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte
si giustifica sulla base della considerazione che l’uomo, anche
quando è un criminale, non può mai essere considerato un mezzo,
per cui lo stesso criminale dovrebbe richiedere per sé la pena
di morte per riscattarsi come uomo.
Verso la fine del ‘700 Giovanni
Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi del diritto penale (1791), considerando che il
diritto penale trova la sua giustificazione nella difesa della
società e nella salvaguardia dei cittadini, ritenne che la pena
giusta fosse quella che meglio garantisse la conservazione dei
cittadini. Pertanto qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria sulle pene capitali (1830) scrisse che “non si
tratta più di vedere se esista il diritto di punire sino alla
morte: ma bensì se esiste il bisogno di esercitare
questo diritto…Chi commette un delitto commette un’azione senza
diritto…Dunque il male irrogato per difesa necessaria al
facinoroso è un fatto di diritto. Dunque se questo male
dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso, questa
morte sarebbe data con diritto…Voler poi negare
indefinitivamente questo bisogno sarebbe lo stesso come dire in
chirurgia non potersi dar il caso di dover fare l’amputazione di
un membro”. Romagnosi riteneva che la galera, pur senza lavoro,
fosse per molti non un castigo ma un premio.
Hegel vide nel delitto il
prevalere della volontà del singolo sulla volontà universale,
per cui la pena consiste nel rovesciare la volontà del reo
restaurando la volontà universale, che non significa recuperare
il delinquente.7
In Lineamenti di filosofia del
diritto
(1821) Hegel espose, come Kant, una concezione retributiva della
pena, che ha la funzione di restaurare l’ordinamento violato.
Criticando anch’egli, come Kant, Beccaria, ricononobbe allo
Stato il diritto di applicare la pena di morte, giacché
“l’annientamento del diritto è taglione, senza per questo essere
vendetta”.8
L’abolizionista si trova in
compagnia di Robespierre, che, prima di cambiare idea pochi anni
dopo, scriveva nei
Discorsi sulla pena di morte, avvalendosi dell’argomento del possibile errore
giudiziario, che la pena di morte era un eccesso di severità, e
precisava: “un vincitore che tagli la gola ai suoi prigionieri è
definito un barbaro”. Egli si poneva contro il Codice penale
approvato dall’Assemblea costituente nel 1791, che riconfermava
la pena di morte prevista dalle leggi dell’ancien regime. L’abolizionista si trova in
compagnia anche dell’anarchico Max Stirner, che nell’opera L’unico e la sua proprietà 9 concepiva il diritto come legato all’arbitrio del singolo, sì da poter scrivere: “Se tu
riconduci il diritto alla sua origine, in te, esso diventerà il
tuo diritto, e sarà giusto ciò che per te è giusto”. La
conseguenza è che per Stirner il crimine esiste soltanto perché
esiste il dominio della legge che si ammanta di sacralità, e non
viceversa, e la punizione si giustifica soltanto perché lo Stato
si arroga il diritto di esercitare una vendetta chiamata
punizione. Si può vedere come il ragionamento degli
abolizionisti nasconda le stesse premesse di una concezione
anarchica dello Stato, il cui diritto di punire si fonderebbe
unicamente su una pretesa sacralità della legge. Stirner non si
avvide che, partendo dalla sua concezione anarchica
dell’individuo, a difesa dell’unicità della vita, intesa come
espressione di solo egoismo, avrebbe dovuto ritenere normale
l’omicidio, e innaturale l’intervento della legge a difesa della
vita dello stesso egoista. L’assolutizzazione dell’individuo
porta a giustificare, contraddittoriamente, il suo annullamento
sulla base di una concezione della legge intesa come espressione
della forza, e non come difesa del diritto naturale
all’autoconservazione.
Salto a questo punto le pagine su Beccaria già riportate nel post precedente.
Oggi nella dottrina penale
americana prevale una concezione retributiva della pena che
giustifica la posizione di Kant basata sul principio di
eguaglianza. La legge del taglione (lex talionis) raccomanda di “fare agli
altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della
regola aurea secondo cui bisogna “fare agli
altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In
base alla lex
talionis si
ripristina l’eguaglianza che è stata turbata dal crimine E’
questa la tesi di J. H. Reiman.12 In base a tale principio il
crimine è un attacco alla sovranità dell’individuo che pone il
criminale in una posizione di illegittima sovranità su un altro.
La vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare
la posizione del criminale riducendone la sovranità nello stesso grado. La vittima avrebbe avuto il
diritto, ma non il dovere, di perdonare a chi ha attentato al
suo diritto naturale, ma rispettando il principio che la vita
della vittima non possa essere valutata come inferiore rispetto
a quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo
(che in Italia non esiste più) non sarebbe in accordo con il
principio di umanità della pena e dell’ipocrita funzione
rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non
avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un
processo nel quale la vittima non può più udire la propria
voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il suo delitto
diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno
un po’ di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo
priva di una parte della sua vitalità…L’esclusione della
pena di morte per omicidio è un portato di maggiore civiltà
o non è invece il segno di una minore sensibilità morale e
di una meno chiara percezione del vero?…Chi con deliberato
proposito uccide un uomo deve essere a sua volta ucciso
dalla società costituita, che non può sottrarsi al suo
obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che
chi uccida non venga a sua volta ucciso? E che gli si
infligga invece una pena di carcere che sarà mite in ragione
di come saprà difendersi contro un morto”,13 grazie ad avvocato prezzolato
o al solito psicologo o sociologo di turno pronto a trovare
tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole spesso
dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse
incapace di intendere e volere. Ma poi riacquista sempre la
lucidità! Si pretende assurdamente che il criminale si riconcili
con la società senza tenere in alcun conto la vita dell’ucciso.
Gli abolizionisti sono proprio coloro che ipocritamente o
disonestamente tengono in minor valore la vita umana, stando a
difesa degli assassini. Questo discorso vale anche per Amnesty International, che, come direbbe Hegel, alla
ragione sostituisce la “brodaglia del cuore” (Lineamenti
di filosofia del diritto, pref. ): associazione di saccenti presuntuosi e
arroganti che credono di avere un cervello migliore di quello di
tutti i pensatori che abbiamo citato. E, a parte la giustizia
che bisogna rendere alla vittima innocente, anche se morta, vi è un
superiore interesse della società a liberarsi degli assassini
che a ritenere “sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita
di un criminale.
T. Sellin14volle dimostrare con
un’indagine statistica che la pena di morte negli Stati Uniti
non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte per
omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,15 che scrisse che i metodi
statistici erano inattendibili, mentre, avvalendosi di diverse
ipotesi, si poteva affermare che durante il periodo 1935-69
ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il verificarsi di
sette o otto omicidi in più. Infatti il criminale, in base alle
offerte di mercato, conforma la sua condotta al desiderio di
massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi personali.
Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte diminuisce il
desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono argomenti
utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio
secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di quella
della sua vittima.
Chi è favorevole alla pena di
morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o non
trova spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne
la giustezza perché i mass media, operando una dispotica censura, hanno deciso che i
favorevoli alla pena di morte sono dei barbari, che non debbono
corrompere i civili. La condanna della pena di morte vuole essere
espressione di superiorità morale, ma è di fatto soltanto
espressione di inferiorità giuridica. Da notare come gli stessi mass media, essendo totalmente privi di
alcuna capacità o volontà di discutere sul piano razionale,
essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed
emotive contro la pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di
ragione, confermino che la morale nasce soltanto dal sentimento
e non dalla ragione, perché non trovano altro mezzo di
persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la
telecamera per far vedere il condannato che soffre o l’ambiente
della camera della morte, approfittando del fatto che non vi è
mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino quando
infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le
immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non
verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la
sensibilità dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non
vogliono misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte
facendo finta che non esistano o impediscono un pubblico
confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi
sono anche dei disonesti arroganti, e pretendono di essere
rappresentanti del progresso civile, sapendo solo demonizzare
verbosamente come incivili chi ha seri argomenti contro di essi.
Sia almeno riconosciuto ad
ognuno il diritto di dichiarare se sia disposto a perdonare il
suo eventuale assassino, perché lo Stato non si sostituisca alla volontà
della vittima innocente.16
E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad anticipare la vittima.17
Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una sentenza.
E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad anticipare la vittima.17
Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una sentenza.
Se si prendesse spunto dal
pensiero dei filosofi esistenzialisti – che hanno mancato di
trattare la questione della pena di morte – si dovrebbe
riconoscere che, essendo l’uomo, come essi dicono, una
possibilità autocostitutiva, come esistenza e non come essenza
(o specie), il valore dell’esistenza umana non è dato dal fatto
di essere umana, ma dal fatto di esprimere una possibile
esistenza, da valutare in relazione ad un progetto che è la
stessa singolarità dell’esistenza. Pertanto il criminale non può
essere sottratto alla pena di morte dalla sua essenza umana, che
esiste soltanto biologicamente. Già Pico della Mirandola nell’Oratio
de dignitate hominis immaginava che Dio dicesse all’uomo: “Tu dominerai la
tua natura secondo il tuo arbitrio…non ti ho fatto né celeste né
terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi
libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella
forma che avresti prescelto”. Sta all’uomo, secondo Pico,
scegliere se essere soltanto un animale o di natura divina. Egli
è responsabile del suo progetto di vita.
La morale ha persino corrotto
il significato del termine “vendetta” dandole un significato
negativo, se non dispregiativo, mentre in realtà essa dovrebbe
continuare ad essere espressione, come lo fu nell’antichità
greca, di giustizia, in relazione ad una responsabilità
oggettiva, come la intese Platone nelle Leggi. Che fa lo Stato, con
l’infliggere una pena, se non vendicare la vittima e la stessa
società di cui è stato violato l’ordine? Da notare come si
tratti soltanto di una questione di attribuzione, perché la
vendetta, se è attuata dallo Stato, è giustizia, mentre non lo è
se è attuata dalla vittima o da chi per lui.
La concezione antropocentrica
del diritto si palesa anche laddove, in contrasto con il diritto
naturale, si pretenda di giudicare in nome del popolo. Così in
Italia il giudice emana, assurdamente, le sentenze, sia civili
che penali, in nome del popolo italiano. Come se un popolo
potesse essere il fondamento della giustizia e non meritasse,
invece, di essere, a sua volta, giudicato alla luce di una
giustizia universale (o naturale, secondo la concezione di Platone e di Aristotele) che
sovrasta le particolarità storiche da cui nasce il diritto
positivo.18 Per di più i giudici in
Italia, chiusi in un sistema corporativo, pretendono di essere
padroni, invece che servitori, della giustizia, e rifiutano con
arroganza e con protervia un controllo di merito sul loro
operato, mentre, continuando a sostenere un avanzamento di
carriera per sola anzianità, timorosi di subire un esame, che li
priverebbe della loro vuota arroganza, hanno rivendicato di
fatto il loro
diritto all’ignoranza, giustificata una volta alla TV19 dal presidente nazionale della
loro associazione con la stupefecente considerazione che essi
“non hanno tempo per studiare”. Ad essi basta ormai soltanto il
computer per conoscere la casistica della giurisprudenza civile,
mentre hanno in odio la dottrina dei “professori”, perché per
essi l’aggiornamento nella dottrina è solo un’indebita invasione
nella giurisprudenza, che si costruiscono da sé con sentenze
prive di dottrina e di cui sono gelosi come di una cosa propria.
In nome del diritto
all’ignoranza ad essi è permesso scandalosamente dalla legge di
passare dalla magistratura penale a quella civile, e viceversa,
senza che abbiano maturato precedentemente una preparazione nel
diritto civile, così ampio e complesso da richiedere una
specializzazione disciplinare all’interno di esso, mentre si
permette alla magistratura penale il passaggio, senza previo
esame, dal ruolo di pubblico ministero a quello di giudice e si
affidano indagini a pubblici ministeri che hanno da pochi anni
superato il concorso di uditore giudiziario, che rimane l’unico
esame della loro vita. Per di più le nuove leve dei magistrati
provengono oggi dalle sgangherate università italiane, dove la
preparazione, anche nelle facoltà di giurisprudenza, è
proporzionale alla demagogica e buffonesca riforma universiaria
che, dopo avere liberalizzato i piani di studi e l’ingresso a
tutti i diplomati – cosicché è possibile diventare magistrati
anche senza avere studiato il latino - ha aggravato la
situazione per il futuro con l’introduzione della inutile laurea
breve di tre anni, che dovrebbe chiamarsi laurea flebile, non
essendo compensata dai due anni successivi di cosiddetta
specializzazione, giacché gli esami del triennio, avendo il
vincolo delle ore da dedicare alla preparazione di ciascun
esame, trasformato così in un esamuncolo, sono ridotti ormai ad
una farsa.I palazzi di giustizia, se oggi sono ricevitorie del
lotto, con magistrati laureati dopo il 1968, domani saranno dei
manicomi.D’altra parte, questa gente, corrotta dal buonismo
imperante, che uccide la giustizia, forte con i deboli, e debole
con la mafia, che, sostituendosi allo Stato, continua a
comandare da sempre sia dal carcere che in libertà, pur
conoscendosi i capi della mafia e le rispettive “famiglie”,
pretende di giudicare in nome del popolo italiano. Deve cessare
di esistere l’intoccabilità dei giudici, che, credendo di essere
padroni della giustizia, pretendono, come categoria
privilegiata, di sottrarsi ad essa, ritenendosi al di sopra di
essa e non pagando mai per i danni che causano a terzi per
responsabilità oggettiva, che, se vale per tutti i cittadini, come
principio universale di giustizia, anche in caso di buona fede,
deve valere anche per essi. Se un medico può essere condannato
per avere male operato, non si capisce perché non debba pagare
anche un giudice. L’ultimo grado del giudizio soltanto in parte
può porre rimedio a precedenti sentenze, giacché il danno
causato dall’ulteriore tempo trascorso – a parte le ulteriori
spese del giudizio – non può essere compensato.Ma chi giudicherà
i giudici dopo il terzo ed ultimo grado della Cassazione? Di
fronte a sentenze della Cassazione che possano essere ritenute
fondatamente ingiuste alla luce di una giustizia sostanziale, e
non formale, deve esistere una magistratura dell’equità, con collegi formati da
giudici della Cassazione – nominati dal Consiglio Superiore
della Magistratura, e da professori di chiara fama, riconosciuti
come maestri di diritto, nominati dal Ministero,anche perché la
dottrina, cioè la scienza del diritto, controlli in ultima
istanza la giurisprudenza, se questa è in chiaro contrasto con
la dottrina e la giurisprudenza cessi di costituire da sola la
fonte dell’interpretazione della legge, ponendo anche rimedio
alle carenze della legge stessa.
Una sentenza non può essere
mai emessa in nome di un popolo, ma in nome della giustizia, in quanto volta verso
l’universale, in rispetto del diritto naturale, giacché ogni
norma particolare, se pure convenzionale, può giustificarsi
soltanto se non è in contrasto con il diritto naturale, da cui
discende la norma fondamentale neminem laedere. Ogni altra norma è
convenzionale, giustificabile nei limiti in cui non sia in
contrasto con la norma fondamentale. Ma il mancato rispetto di
una convenzione liberamente sottoscritta dalle parti è una
violazione della norma fondamentale. Ogni Costituzione che
pretenda di essere fondamento di uno Stato liberale dovrebbe
avere nel suo primo articolo il riferimento al diritto naturale
come fondamento della Costituzione stessa.20
Ma il diritto naturale non può
essere antropocentricamente il diritto della sola natura umana,
cioè il diritto della ragione, come fu inteso nell’età moderna,
ma il diritto
all’autoconservazione, come fu prevalentemente inteso nel Medioevo cristiano
sulla base della legge naturale, a cui fecero riferimento sia
Platone che Aristotele. Oggi bisogna andare oltre i limiti di
una concezione antropocentrica, come quella cristiana, sulla
base del riconoscimento dell’origine comune di tutte le forme di
vita.
Non vi sarà mai progresso umano sino a quando, sulla
base di una concezione antropocentrica della natura, e perciò
del diritto, si riterrà che la vita del peggiore criminale
valga comunque più di quella di qualsiasi animale non umano.
1 Carlo Nicoletti, Sì, alla pena di morte?, Cedam 1997, p. 60. L’autore
soltanto per ragioni di cautela ha preferito aggiungere il
punto interrogativo al titolo del suo testo. Egli ritiene che
la concezione emendativa, cioè quella che pone come scopo
della pena il recupero del colpevole, sia profondamente
utopica e ipocrita perché non tiene conto delle condizioni e
dei luoghi di pena, per cui “una carceraria città del sole
costituisce niente di più che una contraddizione in termini”
(p.9). Tale concezione è soltanto una dichiarazione di
intenti, in quanto “il ravvedimento è sempre e comunque un
fatto individuale” (p.11). Quanto alla concezione della pena
come prevenzione, essa è cinica, perché, prescindendo da ogni
implicazione morale, ha come fine quello di isolare chi
costituisce un attentato all’ordine sociale. Tuttavia
l’autore, professore di diritto processuale civile a
Cagliari, ritiene che quest’ultima concezione “è quella che
perfettamente si attaglia alla pena di morte” (p. 16),
quando pare, invece, evidente che sia la concezione
retributiva, per la corrispondenza che essa richiede tra il
delitto e la sua punizione. L’autore precisa che la pena non
può essere assimilata alla vendetta perché quest’ultima può
essere accompagnata dal piacere di restituire il male. Ma
allora dovrebbe escludersi anche il piacere della giustizia.
2 Sulla pena di morte nella storia occidentale cfr. di
Alberto Bandolfi Pena
e pena di morte. Temi etici nella storia, Edizioni Dehoniane 1985; di
Italo Mereu La
morte come pena. Saggio sulla violenza legale, Donzelli 1982. L’esame che
quest’ultimo testo fa di tutti gli eccessi, non escluse
diverse forme di tortura, nell’applicazione della pena di
morte come uso politico per sbarazzarsi degli avversari non
deve essere confuso con il discorso sui principi.
5 Kant (ibid.) accusò Beccaria
di “affettato sentimentalismo”.
8 E’ evidente che Hegel, distinguendo la legge del
taglione dalla vendetta, considera quest’ultima soltanto come
espressione di una punizione privata, che può non rispettare
la proporzionalità tra delitto e pena. Ma in sostanza anche la
pena comminata dallo Stato non può non essere considerata
anch’essa una vendetta, se la pena rientra in una concezione
retributiva come quella di Hegel.
10 Il contrattualismo non implica necessariamente
l’utilitarismo come negazione di un diritto naturale. In
Hobbes, per esempio, la concezione contrattualistica si
accorda con quella utilitaristica, ma anche con una concezione
giusnaturalistica che vede la legge naturale non dipendere dal
contratto ma precederlo. Così in Locke la concezione
contrattualistica si accorda con il diritto naturale alla
libertà e alla proprietà (Secondo Trattato del governo (a cura di Luigi Pareyson) ,
Utet 1982, pp. 229-63.
11 Oggi il riferimento va
all’impiego, da parte dello Stato, dei cosiddetti “pentiti”,
premiati per le loro “confessioni”. E’ il risultato, direbbe
Beccaria, di uno Stato che, non avendo la forza di difendersi,
a causa del suo garantismo nei riguardi delle organizzazioni
criminali, cerca di comprarla, mandando in rovina l’edificio
dell’ordinamento giuridico, fondato sulla proporzionalità
della pena al delitto.
15 The deterrent effect of
punishment: a question of life and death, American Economics
Reviw, 65, 1975.
16 In questo senso si può
ritenere ampliata la considerazione svolta da Platone nelle Leggi (IX, 869), dove è previsto
che in caso di patricidio (o matricidio) – il delitto ritenuto
più grave da Platone – il padre (o la madre) possa avere il
tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso il
patricidio (o matricidio) sarà ritenuto involontario e il
colpevole dovrà soltanto purificarsi.
17 Il nostro ragionamento trova
riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che, riprendendo
il pensiero di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha
il diritto di punire i delitti (II Trattato del governo, II, 11), osserva, contro
Beccaria (Dei
delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde il
diritto alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno
ha il diritto di uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se
rimane ucciso, il suo diritto si trasferisce da lui alla
società. D’altra parte, non si aggiunge mai che Beccaria
continuò a giustificare la pena di morte per quei delitti che
minano l’ordine sociale. Riferimento odierno potrebbero essere
le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro cui si
devono usare leggi di guerra, non di pace, sospendendo le
garanzie costituzionali, conservando le quali si ha soltanto
uno Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere la
mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo delle
leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa
cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria
pesante con un esercito equipaggiato al massimo con fucili da
caccia. Poiché è impossibile estirpare la mafia con metodi
democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si
merita soltanto l’autogoverno della mafia, senza aiuti
economici da parte di altre regioni. Ha scritto Aristotele (Politica) che ogni popolo ha il
governo che si merita. I capi mafia continuano a comandare
dal carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La
pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare
ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la
pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di
morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto
significa corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi
minano anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di
vista di Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà.
18 Diversamente si
giustificherebbero tutte le sentenze emesse, per esempio, dai
tribunali nazisti in nome del popolo tedesco. Né vale
osservare che lo Stato nazista era uno Stato antiliberale. Qui
vale il principio, fatto valere da Kant, (Metafisica dei costumi, Parte, II, Sez. I, Nota)
secondo cui nel sancire una legge si deve considerare
idealmente “la ragione pura giuridicamente legislatrice”, a
cui tutto il popolo, compreso il legislatore, è sottomesso,
non essendo il popolo fonte della ragione pura legislatrice.
20 Si consideri che la
magistratura italiana, sia nell’Associazione Nazionale
Magistrati (ANM) che nel Consiglio Superiore della
Magistratura, è divisa in tre correnti. L’una si chiama
“magistratura indipendente”: come se potesse essere concepita
una magistratura dipendente da altro, oltre che dalla legge.
Una seconda si chiama “magistratura democratica”: come se la
giustizia potesse identificarsi con una maggioranza politica e
non la dovesse, al contrario, sovrastare. Una terza si chiama
“unità per la costituzione”: come se vi potessero essere dei
magistrati contrari ai principi di una carta costituzionale.
E’ incredibile come non sia stato percepito il senso del
ridicolo.
Dal libro del 2010 (che riprende in parte pagine del libro precedente)
Dal libro del 2010 (che riprende in parte pagine del libro precedente)
Chi
è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il
coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in
Europa,
soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i
mass media, operando
una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla
pena di
morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili.
La
condanna della pena di morte vuole essere espressione di
superiorità
morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità
giuridica. Da notare
come gli stessi mass
media,
essendo
totalmente privi di alcuna capacità o volontà di
discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare
soltanto
affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di
morte, gonfi
di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale
nasce
soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non
trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti,
che
impiegare la telecamera per far vedere il condannato che
soffre o
l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto
che
non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino
quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E
se le
immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente
non
verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la
sensibilità
dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono
misurarsi
con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta
che non
esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente
timorosi di
scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti
arroganti, e
pretendono di essere rappresentanti del progresso civile,
sapendo
solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha seri
argomenti
contro di essi.
Sia
almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se
sia
disposto a perdonare il suo eventuale assassino
perché
lo Stato non si sostituisca alla volontà della vittima
innocente.1
E’ contraddittorio che ognuno per legittima
difesa possa anticipare
il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si
riconosce allo stesso
aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto
di continuare a
vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento
dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga
più
della tutela della legge e che esso si ponga in uno
stato di natura,
ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si
capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela
della alla vita all' assassino soltanto perché
questo è
riuscito ad anticipare la vittima.2
Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello,
capaci ormai
di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi
previene un
rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito
debba
prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano
anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo
che uccide
la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro
qualsiasi
controllo di merito del loro operato, non perché la
giustizia
abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o
morire
prima di una sentenza.
Già
Pico della Mirandola nell’Oratio
de dignitate hominis immaginava
che Dio dicesse all’uomo: “Tu dominerai la tua natura
secondo il
tuo arbitrio…non ti ho fatto né celeste né terreno,
né mortale né immortale, perché di te stesso
quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi
nella
forma che avresti prescelto”. Sta all’uomo, secondo Pico,
scegliere se essere soltanto un animale o di natura divina.
Egli è
responsabile del suo progetto di vita.
I
filosofi esistenzialisti (come Heidegger, Jaspers e Sartre)
hanno
ritenuto che l'uomo si differenziasse dagli altri animali
per il suo
esistere inteso come ex-sistere, uno stare fuori del mondo,
in quanto
capace di porsi il mondo di fronte a sé (e perciò
standone fuori) nel pro-gettarlo, cioè nel porlo di fronte a
sé anche nello studiarlo scientificamente. L'uomo è
dunque libero perché sta fuori del mondo nello stesso farne
parte. Esso è una possibilità, intesa come libertà,
anche di pensiero, nel progettare il mondo. In sostanza,
l'uomo è
la sua capacità di costruire da se stesso la sua esistenza:
è
la sua capacità auto-costitutiva. E' responsabile della sua
esistenza. In questo senso va oltre la sua appartenenza alla
specie
biologica "homo".L'uomo è quell'unico animale in cui
l'esistenza di ciascuno precede la sua essenza biologica
"homo".Ma
gli esistenzialisti non si accorsero delle conseguenze
logiche delle
loro premesse. Se l'esistenza (ex-sistere) precede l'essenza
"homo"
come possibilità auto-costitutiva, ciascun uomo deve essere
giudicato come esistenza, per ciò che vale nella sua
singolarità, e non per la sua appartenenza alla specie
"homo".
Ne consegue che un uomo, se ha un'esistenza da criminale,
deve essere
giudicato nella sua singolarità di criminale, senza poter
essere salvato dalla sua appartenenza alla specie "homo".
Egli, in quanto criminale (in generale responsabile di
comportamenti
crudeli che hanno in disprezzo la vita altrui, anche non
umana) vale
meno della sua appartenenza all'animalità della specie
"homo".
Egli vale meno di un animale non umano (che non uccide per
crudeltà
ma in base al diritto naturale inteso come diritto
all'autoconservazione, come fa il predatore).
La
morale ha persino corrotto il significato del termine
“vendetta”
dandole un significato negativo, se non dispregiativo,
mentre in
realtà essa dovrebbe continuare ad essere espressione, come
lo
fu nell’antichità greca, di giustizia, in relazione ad una
responsabilità oggettiva, come la intese Platone nelle Leggi.
Che fa lo Stato, con l’infliggere una pena, se non vendicare
la
vittima e la stessa società di cui è stato violato
l’ordine? Da notare come si tratti soltanto di una questione
di
attribuzione, perché la vendetta, se è attuata dallo
Stato, è giustizia, mentre non lo è se è attuata
dalla vittima o da chi per lui.
La
concezione antropocentrica del diritto si palesa anche
laddove, in
contrasto con il diritto naturale, si pretenda di giudicare
in nome
del popolo. Così in Italia il giudice emana, assurdamente,
le
sentenze, sia civili che penali, in nome del popolo
italiano. Come se
un popolo potesse essere il fondamento della giustizia e non
meritasse, invece, di essere, a sua volta, giudicato alla
luce di una
giustizia universale (o naturale,
secondo la concezione di Platone e di Aristotele) che
sovrasta le
particolarità storiche da cui nasce il diritto positivo.3
La
condanna della pena di morte è oggi la maggiore
espressione
della decadenza morale e della corruzione giuridica
dell'Occidente,
autodisarmatosi in base ad una concezione di fondo
antropocentrica
della natura e ad una vuota formula della dignità della
persona umana, attribuita in tal modo anche ai peggiori
criminali.
1 In questo senso si può
ritenere ampliata la considerazione svolta da Platone
nelle
Leggi
(IX, 869), dove è previsto che in caso di patricidio (o
matricidio) – il delitto ritenuto più grave da Platone –
il padre (o la madre) possa avere il tempo, prima di
morire, di perdonare il figlio. In tal caso il patricidio
(o matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole
dovrà soltanto purificarsi.
2 Il mio ragionamento trova
riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della
legislazione, 1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke
sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto di
punire i delitti (II Trattato del governo, II, 11), osserva, contro
Beccaria (Dei
delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde
il diritto alla vita quando la si toglie ad altri, perché
ognuno ha il diritto di uccidere il suo ingiusto
aggressore, e, se rimane ucciso, il suo diritto si
trasferisce da lui alla società. D’altra parte, non si
aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la pena
di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale.
Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a
delinquere come la mafia, contro cui si devono usare leggi
di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie
costituzionali, conservando le quali si ha soltanto uno
Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere la
mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo
delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte,
significa cercare di contrastare un esercito dotato di
artiglieria pesante con un esercito equipaggiato al
massimo con fucili da caccia. Poiché è impossibile
estirpare la mafia con metodi democratici, nell’attuale
“democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto
l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte
di altre regioni. Ha scritto Aristotele (Politica, VIII) che ogni popolo ha
il governo che si merita. I capi mafia continuano a
comandare dal carcere ricattando guardie, direttori del
carcere e giudici. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi
di continuare a dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile
che non si applichi la pena di morte nei confronti dei
trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro
vita sia degna di rispetto significa corrompere lo stesso
concetto di giustizia. Essi minano anche l’ordine sociale,
per cui, dallo stesso punto di vista di Beccaria,
dovrebbero essere eliminati senza pietà.
3 Diversamente si
giustificherebbero tutte le sentenze emesse, per esempio,
dai tribunali nazisti in nome del popolo tedesco. Né vale
osservare che lo Stato nazista era uno Stato antiliberale.
Qui vale il principio, fatto valere da Kant, (Metafisica dei costumi, Parte, II, Sez. I, Nota)
secondo cui nel sancire una legge si deve considerare
idealmente “la ragione pura giuridicamente legislatrice”,
a cui tutto il popolo, compreso il legislatore, è
sottomesso, non essendo il popolo fonte della ragione pura
legislatrice.
Tra gli ingnoranti, esimio Professore, penso lei includa anche Fedor Dostoevskj, contrario alla pena di morte anche per averla "quasi" sperimentata personalmente (fu graziato sul patibolo).
RispondiEliminaRiguardo a tutte le dotte citazioni riguardo santi e papi, perché non rifarsi alla "fonte" originale?
Mi sembra (potrei sbagliare) che il 5 comandamento reciti "non uccidere"... e non siano previste eccezioni.
Ci fu anche un tale che predicò la misericordia (allora la parola "buonismo" non era di moda) ma, in effetti, deve aver ragione lei, Professore, perché fu condannato a morte egli stesso, addirittura crocifisso...
Evidentemente siamo troppo ignoranti per capire, meno male che lei ci illumina
Saluti
Ercolina
Se lei mi porta esempi di condanna a morte da parte di Stati dispotici (dittatoriali) come oggi i Paesi islamici o la Cina dove è reato l'espressione di libertà di pensiero allora vuol dire che non è in grado di ragionare.Dosteoevskij fu condannato a morte per azione sovversiva. Egli aveva ragione. Ma si sa che chi fa una rivoluzione deve mettere in conto anche la possibilità di rischiare la vita da parte di chi detiene il potere. Io mi riferisco ai reati della delinquenza, non dei rivoluzionari che combattono per un diverso sistema sociale . Inoltre lei ha molta confusione in testa. Il comandamento non uccidere si trova nell'Antico Testamento, ma come deterrente per gli assassini perché accompagnato dalla pena di morte (per lapidazione) per gli assassini. Se ci fu u tale (Gesù ) che predicò la misericordia, vi fu un tale (Hegel) che nei suoi scritti sul cristianesimo disse che, se uno Stato mettesse in pratica le norme evangeliche, si autodistruggerebbe. Gesù non ha voluto riformare le istituzioni (la giustizia dei Tribunali) ma si è rivolto alle persone singole dicendo moralmente (e non giuridicamente) "perdonate se volete essere perdonati, altrimenti nemmeno il Padre mio vi perdonerà". Notare la contraddizione. Dio padre si assume il diritto di non perdonare. Se tutti perdonassero non esisterebbe più la giustizia. Giovanni Paolo II perdonò il suo attentatore andando a visitarlo in carcere. Risultato? L'attentatore rimase, come giusto, in carcere. E allora non confonda la morale del perdono con la giustizia. Se non riesce a capire ciò che ho scritto non mi meraviglio. Lei è espressione della corruzione della giustizia da parte della morale, che vuole ricuperare l'assassino dimenticandosi della vittima. E il suo esempio di Gesù morto in croce, per favore, non tocchi questo argomento assai dibattuto. Non si saprà mai chi sia stato veramente Gesù.Alcuni storici pensano fosse un rappresentante della ribellione armata contro i Romani e trasformato poi in figlio di Dio dagli autori dei Vangeli (che non sono Marco, Matteo, Luca e Giovanni).Tale trasformazione avvenne tra gli anni 70 e 80 dopo le Epistole di S. Paolo (assai precedenti) che si inventò la resurrezione di Gesù, recepita poi dai Vangeli. Ma anche ammesso (e non concesso) che il Gesù dei Vangeli corrisponda al Gesù storico, la sua condanna fu una condanna politica (da chiunque sia stata voluta, o dagli stessi Romani o dagli Ebrei delle sinagoghe).Che c'entra dunque con la condanna a morte della delinquenza organizzata e e non degli avversari politici o religiosi. Si chiarisca lei idee. Le consiglio di leggere "Inchiesta su Gesù" di Corrado Augias e Mauro Pesce (in effetti il vero autore del libro è il grande studioso del cristianesimo Mauro Pesce, perché Augias si limita a porgli delle domande). Non sono io che devo illuminare gli altri. Sono gli altri che debbono illuminarsi istruendosi sulla storia invece di continuare a rimanere ignoranti. .
RispondiEliminaGentile professore,
RispondiEliminaho letto con vivo interesse alcuni suoi articoli e saggi, spesso trovandomi d'accordo con le cose che dice. Anzi, le dirò di più. Ho trovato che le sue critiche all'islamismo e a quanti si ostinano a far finta che l'immigrazione islamica non costituisca un serio pericolo per l'Europa tutta, siano oltre che ben fondate, coraggiose e scevre di quell'ipocrita buonismo di cui amano infarcire i loro discorsi i nostri politici
Però mi consenta di farle notare l'incongruenza di un brano preso dal suo saggio
“L’ecumenismo religioso alle radici della follia politica odierna
del multiculturalismo dell’immigrazione nella confusione tra
morale e diritto con la politica dell’accoglienza”
Il brano è il seguente:
"Oggi si vuole imporre - e con l’ingerenza della Chiesa in questioni puramente
politiche, e non morali - la solidarietà economica del nord d’Italia con le regioni
del sud, anche quando queste, che hanno paura che con il federalismo diminuiscano
i trasferimenti di danaro dal nord, si meritano solo l’autogoverno della mafia, per
cui nessun imprenditore del nord è disposto ad investire nel sud."
Mi dispiace che uno come lei, dotato di grande capacità argomentativa, cada nell'errore (anche logico) di mettere sullo stesso piano questioni differenti fra loro, come senz'altro sono quella sull'immigrazione e quella che fa riferimento ad un supposto problema di sottosviluppo del Sud Italia!
Se lei guarda al Sud da un punto di vista leghista, allora vuol dire che ho preso un abbaglio e il discorso con lei finisce qui, ammenochè non voglia chiarirmi meglio le ragioni di un così violento attacco alla gente del Sud.
Saluti
Esimio Professore,
RispondiElimina"Lei è espressione della corruzione della giustizia da parte della morale" e poi "Non sono io che devo illuminare gli altri. Sono gli altri che debbono illuminarsi istruendosi sulla storia invece di continuare a rimanere ignoranti"
Divertente
Soprattutto da parte di uno che si è lamentato levando alti lai di essere stato definito (non dalla sottoscritta) "vecchio rimbambito", insulto molto più bonario...
Almeno, da parte sua, una ripassatina a Dostoevskj e a quanto scrive sulla pena di morte sarebbe opportuna... giusto per non fare la figura dell'ignorante lei per primo... Le consiglio, in particolare, la lettura de "L'idiota" (e non ci veda un'allusione, per cortesia)
Nei Comandamenti (che, sarà che nella mia ignoranza non ricordo bene) mi sembrano molto, come dire, sintetici, "non uccidere" è accompagnato da argomentazioni a favore della pena di morte? Se lo dice lei...
Non è che, azzardo un'ipotesi, quella con le idee confuse non sono io, o perlomeno sono in compagnia?
Ah, un'ultima considerazione.
La richiesta di essere da lei illuminati era ironica... Comunque sono assolutamente d'accordo quando dice che non deve essere lei a illuminare gli altri... e per fortuna, aggiungo!
Buona serata
Ercolina
Dimenticavo: tra PERDONARE un assassino o un delinquente e condannarlo a morte, c'è un ampia gamma di diverse soluzioni, non le pare?
RispondiEliminaCordialità
Ercolina
Prof Melis, non trascuri di dare una risposta al commento di Anonimo.
RispondiEliminaGentile professore,
RispondiEliminaieri le ho postato questo commento:
<>,
e avevo sperato che lei mi rispondesse; evidentemente se non lo ha fatto sarà stato perchè avrà avuto ben altro a cui pensare.
Mi piacerebbe tanto interloquire con lei non foss'altro perchè i suoi articoli si prestano alle più varie riflessioni.
Saluti da Giovanni
A Giovanni
RispondiEliminaqual è il suo commento? Quello anonimo del 20 maggio ore 21,44? Oggi non sono entrato nel mio blog.
E a quest'ora tarda ho scritto altrove. Se è suo il commento anonimo perché non mettere un nome anche come riferimento? Risponderò un'altra volta. Ora sono stanco.
Gentile professore,
RispondiEliminail testo è in effetti quello segnalato da lei, cioè Anonimo del 20 maggio ore 21.44, in cui accenno all'islamismo e alla questione del Sud Italia.
Nel nuovo commento l'avevo racchiuso tra le virgolette cosiddette caporali, ma non è stato riprodotto.
Comunque grazie per l'attenzione e a risentirla presto.
Saluti
Giovanni
A Giovanni
RispondiEliminavorrei sapere da dove ha preso la frase mia da lei riportata che dice: "Oggi si vuole imporre - e con l’ingerenza della Chiesa in questioni puramente
politiche, e non morali - la solidarietà economica del nord d’Italia con le regioni
del sud, anche quando queste, che hanno paura che con il federalismo diminuiscano
i trasferimenti di danaro dal nord, si meritano solo l’autogoverno della mafia, per
cui nessun imprenditore del nord è disposto ad investire nel sud."
Essa fa parte di un capitolo del mio libro "Scontro tra culture e metacultura scientifica". Ma non ricordo dove io l'abbia riportata nel mio sito o nel mio blog. Mi aiuti a ricordarlo.
Poiché recentemente ho scritto sulle responsabilità mafiose del sud, anche in questo caso non ricordo bene dove abbia scritto su questo argomento (avendo scritto anche sul blog (il non senso della vita) di Odifreddi compreso nel quotidiano La Repubblica. Se non lo ritrovo cercherò di riassumere a memoria quanto ho già scritto. Sono un disordinato perché dovrei conservare in documenti quanto scrivo negli altri siti.
Grazie.
A Giovanni
RispondiEliminarileggendo i commenti ultimi legga la risposta ad Ercolina (ore 04,17) del post precedente (Attentato a Brindisi).In esso scrivo delle responsabilità del sud. E veda anche il post precedente su Saviano.
Mi sembra evidente che il tema dell'immigrazione sia distinto da quello che riguada le varie mafie del sud.
Dove sta il contrasto?
A Giovanni (a cui sbagliando avevo risposto personalmente con "rispondi" essendomi sfuggito che non aveva scritto alla mia email. Se vuole il mio indirizzo mi lasci prima il suo).
RispondiEliminaHo riletto il testo e trovo che i due argomenti apparentemente slegati sono uniti insieme dalla critica al concetto MORALE di solidarietà di cui fa abuso la politica, mentre la solidarietà potrebbe appartenere solo alla carità cristiana. Da qui la confusione tra morale e diritto. Ciò chiarito io rimprovero il Sud di essere in quasi tutte le regioni "governate" dalla delinquenza organizzata che si è espansa verso il nord. Questo è un fatto. Sulle cause storiche vi è tutto da discutere. Io non accetto che le popolazioni del Sud possano ritenersi immuni da colpe. Sono vittime? Può darsi. Ma è possibile che da più di un secolo e mezzo non si ribellino? A che serve fare manifestazioni e cortei se i commercianti debbono pagare sempre il pizzo e gli industriali onesti debbono sottostare all'industria del crimine? Lei ha qualche soluzione? Il solito discorso sull'educazione nelle scuole, della società civile e bla, bla, bla? Ma lei ci crede? Io no. I giovani possono anche essere in buonafede quando nelle scuole e in piazza manifestano contro la mafia con le immagini di Falcone e Borsellino. Ma quando dovranno entrare nel mercato del lavoro si dovranno arrendere facendo i conti con la realtà, accorgendosi che il lavoro passa attraverso la mafia. Io so soltanto che il resto dell'Italia starebbe economicamente miglio senza il Sud. Quanto alla Sardegna, per carità! Se vi è uno che considera i sardi un popolo di parassiti che nella loro storia hanno dimostrato solo di saper mungere le pecore sono io. Sette milioni di pecore per un milione e 600 mila abitanti. La storia della Sardegna del sardo Giuseppe Manno (ministro del regno sardo piemontese) ha dipinto i sardi nella loro realtà storica, fatta di lotte intestine, di sardi che al soldo degli aragonesi combattevano contro altri sardi (del Giudicato d'Arborea) con 5000 morti nella battaglia di Sanluri (1409) che vide la fine dell'indipendenza dell'ultimo Giudicato.
Il Sud giustamente rimprovera l'annessione sabauda. E perché poi non si è ribellato? Perché ancor oggi non esiste un movimento indipendentista visto che la colpa non è della gente del Sud? Io so che l'Assemblea siciliana ha dei poteri che rasentano l'indipendenza, ma non economica, con consiglieri regionali che hanno stipendi superiori a quelli dei parlamentari. E i soldi da dove arrivano? Dal governo centrale. E' inutile presentarsi come vittime di altri . Il latifondo esisteva già nel Regno delle Sicilie, con grandi proprietari terrieri e con contadini sfruttati. Terreno fertile per far sorgere il potentato dei futuri mafiosi. E ad ogni modo, lasciamo perdere il discorso sulle colpe che non finirebbe mai. Vari studiosi, come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, si sono occupati della questione meridionale. Risultato? Niente. Perché? Vi è la delinquenza mafiosa. Come liberarcene? Lo dica lei. Io un mio pensiero l'ho espresso. Ma mi prendono per matto se dico che bisognerebbe sospendere la democrazia nelle regioni mafiose. Oppure il Sud si distacchi dal resto d'Italia e faccia da sé. Sarebbe la cosa migliore. Ma basta con le manifestazioni di piazza contro la mafia, che se la ride. Basta con i discorsi inutili alla Saviano. Non ne posso più.
Cordiali saluti.
Post succulento. Per ora mi limito ad una osservazione. In merito scrivi "La Costituzione, volendo nell'art. 27 far valere il principio della rieducazione del condannato anche quando si tratti di un assassino appartenente alla criminalità mafiosa, non soltanto è utopistica, ma vergognosamente ipocrita perché si sa che il carcere non rieduca, e tale articolo viola il principio secondo cui la pena deve avere un carattere afflittivo e non rieducativo."
RispondiEliminavorresti spiegarmi perché afflittivo e non rieducativo? Che la tua sia una difesa della legge del taglione è evidente sin da qui. Ma consideriamo un ladro che si freghi un po' di prosciutti alla coop (vabbè la coop non è fascista non ti incazzare eh). Applichiamo la pena "afflittiva": due scariche elettriche di media intensità e fine del problema. niente carcere appunto perché non è "rieducativo" ma con la promessa di un aumento del voltaggio per i prossimi prosciutti. Questa in estrema sintesi è la giustizia da te prospettata e correggimi ontologicamente se sbaglio.