Ricevo nella posta quanto segue.
Caro prof. Melis,
Caro prof. Melis,
“Navigando”
mi imbatto nella presentazione di un’opera di Severino che non
conoscevo e che sicuramente non comprerò. Forse può offrirLe lo
spunto per un suo arguto e sferzante commento. Devo ammettere di aver
letto per vent’anni Severino finché non ne ho potuto più: oggi lo
considero uscito di senno, ormai impazzito.
Ho letto
poi la recensione al libro di Armando Torno che mi sembra meno pazzo
di Severino, ma direi che anche lui non scherza. Di Torno ho il
libro: “Pro e contro Dio”. Mah, niente di trascendentale, “cose
sapute e risapute” (sempre sentirai anche se campi mille anni).
Variante dell’alfierano: “Cose già viste e a sazietà riviste /
sempre
vedrai
s’anco mill’anni vivi.”
Quello
che mi colpisce di Severino, ma anche di Torno, è che dicono cose
che nessuna persona normale capisce (diciamo il 90% e più della
popolazione).
O sofismi
o cose tanto sottili il cui senso sfugge. Ma a cosa servono questi
argomenti semi o del tutto incomprensibili?
Severino
ha scritto anche un libro dal titolo “La Gloria” (dopo una
cinquantina di pagine ho dovuto smettere “per non uscire pazzo”).
Ma quale Gloria, quale Gioia - se questa vita è uno schifo?! Se
Auschwitz - in quanto “ente eterno” - si ripete all’infinito?
Cordialità
Sergio P.
(Svizzera)
Caro Sergio, ho già scritto sul paranoico Severino. Per non ripetermi riporto un mio articolo che suscitò attacchi furiosi contro di me da parte di pazzoidi abbacinati dalla sua paranoia sull'eternità degli enti.
17 ago 2011 - LE MASSIME STRONZATE DEL FILOSOFO EMANUELE SEVERINO. Nel giorno del mio triste compleanno non vi è modo migliore di ricordarlo ...
La morte e la terra
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RISVOLTO
«Per
quanto grandi siano le speranze e le supposizioni umane,» scrive
Severino sulla soglia di questo suo nuovo libro «esse si accontentano di
poco, rispetto a ciò da cui l'uomo è atteso dopo la morte e a cui è
necessario che egli pervenga». Nel proseguire, con mirabile rigore
speculativo, quel percorso filosofico che dalla Struttura originaria a Essenza del nichilismo, da Destino della necessità, attraverso La Gloria, è approdato a Oltrepassare,
Severino procede qui risolvendo un problema decisivo, lasciato ancora
aperto: se «la terra isolata dal destino è oltrepassata dalla terra che
salva e dalla Gloria», nondimeno su «“questa nostra vita” – si potrebbe
dire – incombe la morte, e continuamente vi irrompe». Sorge quindi un
interrogativo ineludibile: «L'attesa della terra che salva continua
anche dopo la morte (e che cosa appare in questo prolungarsi
dell'attesa? sonno, sogni. Incubi?), oppure con la morte ha compimento
anche l'attesa?». Sono i «temi» più antichi ed essenziali dell'uomo – il
cristianesimo li chiama i «novissimi» –, che però Severino sviluppa in
una dimensione radicalmente diversa da quella in cui si sono costituiti,
poiché in lui ogni «tema» si presenta come lo sviluppo della struttura
originaria del destino della verità. Nell'architettura del grandioso
edificio teoretico che il filosofo è andato solitariamente costruendo
nel corso degli anni, La morte e la terra appare dunque un
vertice dal quale lo sguardo si spinge oltre ogni confine, giacché
Severino non teme di consegnare risposte definitive: «Avvicinarsi alla
morte è avvicinarsi all'Immenso della terra che salva e della Gioia».
L'argomento « Dio » era e resta, indubbiamente, l'argomento principe di ogni discussione, soprattutto oggi che il mondo avverte una grave carenza dell'idea di Dio. Perché vi è stato un passaggio netto, troppo brusco, tra un mondo idealista, romantico, e un mondo prevalentemente tecnologico. In tutto questo a farci le spese è stata proprio la religione, e qui per religione intendo proprio quel corpo di dottrina metafisica che poneva Dio in cima a tutto, ed è così che l'uomo un poco alla volta ha perduto questo ideale. Le colpe sono varie. Certo, a volerle centrare non sarebbe neppure difficile; in ogni caso non esistono delle responsabilità accentuate, particolari. Responsabile è semmai il mutamento rapido, improvviso che si è avuto nel corso della storia; il passare da una civiltà all'altra, cioè a dire alla civiltà tecnologica in cui viviamo. E certo, Dio non può trovare agevolmente posto in un mondo dominato dalla fretta, calcolato, programmato dalla macchina e dall'uomo che ovviamente si è reso schiavo di essa in maniera tale che il lavoro invece di affrancarlo, di nobilitarlo, l'ha reso schiavo. Ora, l'uomo schiavo del lavoro è un uomo, in fondo, che non può più guardare il cielo. Questo, evidentemente, non dipende da una sua colpa, ma semplicemente da quegli assestamenti, da quelle modifiche che si hanno nella civiltà e che sono accaduti anche altre volte. Modifiche che vedono l'uomo impreparato di fronte ad una massa di nuove nozioni, di nuovi problemi da affrontare, da risolvere, troppo urgenti perché legati alla vita contingente, perché legati alla sopravvivenza stessa. Tra questi problemi, quelli di natura metafisica non trovano spazio. Ora, si potrebbe chiedere: quanto durerà tutto questo? Quanto tempo occorrerà ancora perché l'uomo riprenda il suo colloquio con Dio? Intanto bisogna precisare subito che porre la questione in questi termini è un po' parlare di utopia, non fosse altro che per il fatto che questo colloquio con Dio non è che l'uomo l'abbia mai avuto, in realtà. Vi è stato un colloquio con tutto un mondo di idee spirituali, vi è stato, direi, un colloquio dell'uomo con la filosofia, con i problemi dello spirito legati talvolta a questa o a quella forma religiosa. Cioè a dire, l'uomo in realtà non ha mai avuto un colloquio chiaro e diretto con Dio. Dio gli è sempre apparso attraverso le vesti delle varie immagini più o meno paludate delle varie religioni, e si è accontentato di sostituti di Dio. Quindi, ecco che anche parlare di un ritorno a Dio può apparire utopistico per un mondo, per una umanità che, in fondo, con Dio questo colloquio non ha mai avuto, sicché, ecco che occorrerebbe precisare un colloquio con il mondo dello spirito più che con Dio. Cioè a dire, partecipare alla vita spirituale, renderla viva ed attiva anche nel mondo tecnologico, cioè in un mondo in cui l'uomo cammina assieme a problemi di natura tecnica, quindi non più umanistici, o umanistici in un altro senso. Indubbiamente tutto questo ha portato le varie crisi, crisi in filosofia, crisi nelle lettere, crisi nelle arti, crisi nella stessa nuova psicologia, e tutto questo non sparirà ma si evolverà.
RispondiEliminaIl riconoscimento della funzione primaria spirituale dell'uomo sarà un fatto che avverrà, indubbiamente, perché l'uomo non può vivere a lungo ignorando un'altra parte di sé, cioè a dire quella parte spirituale che, qualunque ne sia l'origine o l'interpretazione, è una parte che esiste nell'individuo: il mondo delle sue idee, il mondo del suo spirito. Che lo spirito abbia o no un destino spirituale assoluto è un problema già secondario. Intanto, qualunque sia l'origine e la consistenza nell'essere umano, questo quid di natura spirituale — quindi immateriale — esiste, ed esistendo ha sue proprie leggi. Ora, esse non si possono ignorare a lungo. Sì, l'uomo apparentemente è forzato, apparentemente sembra inserirsi in un meccanismo sociale che estrania il problema spirituale ma, alla fine dei conti, questo problema spirituale ritornerà pressante, perché in fondo l'uomo la sua felicità non la trova solo nell'organizzazione sociale, ma la trova in un'organizzazione sociale in cui vi sia una presenza ed un riconoscimento di natura etica, di natura dunque spirituale. Cioè, in fondo, il godimento l'uomo lo trae per vie interne, e l'elemento esterno è solo un elemento sollecitante perché il godimento è una interiorità, una pace che si misura soltanto « dentro » e non in maniera esterna. Tutto ciò che è esterno è provvisorio e come tale non può dare felicità duratura. Ecco che il problema di Dio tornerà ad essere un problema pressante, un problema veramente importante, perché non è un problema che si può ignorare a cuor leggero. Intanto, è un problema che si presenta continuamente quando muore un uomo. Un uomo muore e la prima cosa che si chiedono i sopravvissuti è cosa ne è di lui, se il suo spirito vive, se egli è finito per sempre. Cioè a dire, il problema metafisico si pone nel momento preciso in cui un essere umano muore e ci si vuoi rendere conto di tutto questo. Dunque, fin quando esisterà la morte esisterà questa domanda che sarà presente anche durante epoche materialistiche, perché il materialista soffre nella stessa maniera di colui che è spiritualista, perché il dolore è un fatto indipendente dalla destinazione del morto. Cioè a dire, è un fatto puramente psicofisico; e dunque ecco che ritorna, col problema della sopravvivenza, la possibilità di una giustizia superiore, la possibilità dell'esistenza di Dio, di un Dio che non interviene minimamente sulla Terra in quanto il rapporto con Lui può essere solo spirituale, al di fuori di questo non ne esistono altri. Ecco, osservazione del genere , che io sappia, non ci sono mai pervenute da tanti che si definiscono filosofi o conosciuti come tali, ma dal mondo spirituale.
RispondiElimina@ Auro
RispondiEliminaConsiderato il tono con cui ti esprimi mi sono letto fino in fondo le tue epistole, ma devo confessarti la mia delusione. Ci ho capito ben poco. Per chi scrivi, a chi ti rivolgi? Credi che le persone "semplici" (che non significa stupide, forse solo a digiuno di grandi letture) ti possano seguire, capire, afferrare qualcosa? Penso di no, visto che nemmeno io ho cavato un senso dal tuo discorso pur avendo dovuto leggere parecchi libri. Non so se e quanto intelligente io sia: per non buttarmi troppo giù mi considero una persona di media cultura e intelligenza. Che ha ha tuttavia il desiderio di capire perché capire significa poter sopravvivere o vivere meglio. È il non senso, l'incomprensibilità di tante cose, che sono causa di tormento. Se riusciamo a dare un senso a ciò che (ci) succede stiamo sicuramente meglio (almeno per un po'), non ci sentiamo sballottati da eventi dinanzi ai quali siamo disarmati e che possono mettere a rischio la nostra vita fisica e mentale (si può infatti anche impazzire per sfuggire all'orrore della vita).
La vita, l'universo, sono un enigma. Preferisco usare questa parola, enigma, a "mistero" perché questa parola, mistero, è troppo inflazionata e abusata dalle religioni cosiddette rivelate (in realtà invezioni di uomini) che pur rinviando al mistero (Dio è per definizione incomprensibile e indefinibile, se lo "definisci" (= delimiti) non è già più Dio) sostengono che qualche cosa d'importante e decisivo questo Dio, rivelandosi, ci ha comunicato.
Dunque un enigma. Tuttavia l'uomo dai primordi (l'homo sapiens sapiens sembra essere apparso sulla Terra circa 40'000 anni fa, dopo aver eliminato il Neandertaler che pur aveva un cervello di massa superiore al suo) ha fatto grandi progressi nella conoscenza: col pensiero ha raggiunto persino il confine dell'universo (del nostro universo, perché sembra che ce ne sia uno parallelo, anzi altri universi paralleli, anzi forse infiniti universi paralleli). Questa nullità che è l'uomo (che pena e schifo fa spesso) penetra con lo sguardo l'universo arrivando al confine posto a 13,3 o 13,7 miliardi di anni luce).
Ma oltre alla conoscenza c'è per fortuna anche il piacere che ricerchiamo sempre. Piacere puramente materiale, ma anche estetico. Tanto che qualcuno ha detto (la frase è attribuita a Dostoevskij) che "ci salverà la bellezza". Forse, chissà. Ma certamente la bellezza e gli affetti son possenti gòmene che ci tengono attaccati alla vita "nonostante tutto".
L'idea severiniana dell'eternità del tutto, ma proprio di tutto, anche di uno starnuto, oltre ad apparire ridicola o strana, non è suffragata da nessuna prova. È una trovata, o un'idea, magari si può dire illuminazione che questo buon uomo e filosofo ha avuto e che ha cercato di dimostrare attraverso migliaia di pagine noiosissime, senza ovviamente riuscirci. Severino ha curato un'edizione di dodici classici, e il titolo di questa collana è "L'uomo e la ragione". Per Severino la ragione, la filosofia, sono meglio della religione. Certo la ragione è uno strumento possente che ci permette di sopravvivere e migliorare le condizioni della nostra esistenza. Ecco, si vorrebbe che Severino usasse davvero la ragione e si esprimesse con concetti semplici e chiari, invece di nascondersi dietro migliaia di pagine di sproloqui.
Cosa resta di noi una volta morti? Il ricordo in chi ci ha conosciuti, forse la memoria storica se abbiamo compiuto grandi o apprezzabili cose. Resta l'enigma che nessuna filosofia o religione ha potuto ancora sciogliere (del resto se Dio è indefinibile non si può che parlarne approssimativamente). Al professor Melis piacerebbe incontrare di nuovo Billo e altre creature a cui si era affezionato. Illusioni ... severiniane.
Cordialmente
Sergio