Avevo
sempre sognato un programma politico che avesse escluso per sempre dalla
Sardegna gli allevamenti di morte e dunque anche la pastorizia, che, parafrando
il Manno, è stata sempre la maledizione del cielo sardo. A causa della pastorizia avevo sempre odiato il Natale e la Pasqua,
trasformate ogni anno in una strage di agnelli, gli animali più mansueti della
Terra. Ogni volta che si avvicinavano queste feste di sangue aumentavano la mia
sofferenza e il mio odio contro una barbara e crudele tradizione che ha
contagiato anche gli atei. Avevo inviato una lettera al papa Francesco
chiedendo che rompesse il silenzio contro la crudele tradizione dell'agnello
pasquale, ucciso per rispettare una antica tradizione ebraica e non cristiana.
Gli avevo scritto che dopo il sacrificio della croce non era più necessario
immolare animali come si faceva nel tempio-mattatoio ebraico. Avevo aggiunto
che un altro S. Francesco, quello da Paola, migliore di quello carnivoro di
Assisi, era stato vegano ed era vissuto ben 91 anni, mentre quello di Assisi
era vissuto solo 44 anni.
Lo
stesso Benedetto XVI, seguendo il S. Paolo della Epistola ai Romani (3,25), aveva detto all'udienza generale del 7
gennaio 2009: "Questo rito - quello ebraico del sacrificio degli
animali - era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere
tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle
scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario
un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto
luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha
assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra
miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste
del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. Rivelando questo
cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo
dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici
degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto
reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella
morte sulla croce".
Ma nemmeno Benedetto XVI era stato capace di gridarlo ai cristiani affacciandosi alla finestra dante sulla piazza S. Pietro perché cessasse l’identificazione del Natale e della Pasqua con una strage di agnelli o capretti. E per risposta avevo ricevuto dal papa Francesco solo una ipocrita cartolina artistica che rinnovava il silenzio sulle cristiane stragi di agnelli. E pertanto ero stato costretto ad odiare anche i papi insieme con i pastori. Quando ero bambino capitò in casa, non mi ricordavo come, un capretto, che era stato regalato a mio padre. Non mi ricordavo per quale motivo mio padre avesse accettato in regalo un capretto vivo. Mi affezionai ad esso come se fosse un cane. Lo portavo a passeggio tenendolo al guinzaglio per fargli brucare l'erba nella periferia di Cagliari, che allora era un vasto campo erboso su cui sarebbero poi sorti i palazzi della piazza Michelangelo e della piazza Giovanni XXIII. Mi divertivo a giocare con lui in casa alzando una gamba per mostrargli la pianta della scarpa mentre gli dicevo in sardo: attumba caprittu (urta capretto). E lui prendeva la rincorsa per dare una tenera incornata alla suola della scarpa. Avevo capito che un capretto (o un agnello) non era meno capace di affettività rispetto ad un cane. E allora perché gli uomini si mangiano gli agnelli e non si mangiano i cani? mi domandavo. Anche ciò mi aveva indotto a divenire vegetariano, oltre al fatto di essere rimasto profondamente scioccato, sconvolto, vedendo all'età di 10 anni dei buoi correre impazziti per la via Sonnino dopo essere fuggiti dal mattatoio, che allora si trovava in una strada centrale della città. Piansi amaramente quando fui costretto a separarmi da lui per volere di mio padre, che disse che non si poteva ulteriormente convivere al terzo piano di un palazzo con un capretto. Ma fui ingenuamente rassicurato che il capretto non avrebbe fatto la triste fine che attende tutti i suoi simili e che il pastore, pagato per questo, l'avrebbe risparmiato tenendolo in vita per la riproduzione. Ma certamente il capretto, prima o dopo, avrebbe fatto la stessa fine. Anche per questo avevo coltivato sempre un odio per i pastori, per una terra, che, tra tutte le regioni italiane, pur avendo una popolazione di soli un milione e seicentomila abitanti, aveva tratto dalla pastorizia la maggiore risorsa economica e il maggiore profitto esportando cadaveri di agnelli, sottratti alle madri piangenti che cercano i loro figli. Pastori tanto crudeli quanto imbecilli per essere rimasti miserabili conservando la tradizione della produzione del latte ai fini del formaggio pecorino, anche se tratto da pecore malate del morbo della lingua blu o comunque trasmettenti nel latte l’antibiotico del vaccino per pecore, non avendo mai pensato di poter trarre maggior vantaggio economico sostituendo la pecora e la capra sarde, che danno una lana priva di valore, usata per tappeti o per isolanti termici, con altre razze di pecore e di capre dalla lana pregiata, come il cachemire e il merino, in modo da risparmiare i maschi, sapendo che il cachemire del maschio è ancora più pregiato. Una Sardegna che è stata sempre una terra di povertà espressa dal 45% di tutti gli ovini d’Italia pur con una popolazione di un milione e seicentomila abitanti. PASTORI SARDI BASTARDI. Una terra di miserabili che all'EXPO non aveva avuto vergogna di farsi rappresentare soprattutto dal maialetto arrosto nonostante le frequenti pesti suine con relativo abbattimento di migliaia di maiali. Un EXPO baraccone diseducativo e rovinoso per la salute come fiera di tutte le peggiori tradizioni alimentari.
Ma nemmeno Benedetto XVI era stato capace di gridarlo ai cristiani affacciandosi alla finestra dante sulla piazza S. Pietro perché cessasse l’identificazione del Natale e della Pasqua con una strage di agnelli o capretti. E per risposta avevo ricevuto dal papa Francesco solo una ipocrita cartolina artistica che rinnovava il silenzio sulle cristiane stragi di agnelli. E pertanto ero stato costretto ad odiare anche i papi insieme con i pastori. Quando ero bambino capitò in casa, non mi ricordavo come, un capretto, che era stato regalato a mio padre. Non mi ricordavo per quale motivo mio padre avesse accettato in regalo un capretto vivo. Mi affezionai ad esso come se fosse un cane. Lo portavo a passeggio tenendolo al guinzaglio per fargli brucare l'erba nella periferia di Cagliari, che allora era un vasto campo erboso su cui sarebbero poi sorti i palazzi della piazza Michelangelo e della piazza Giovanni XXIII. Mi divertivo a giocare con lui in casa alzando una gamba per mostrargli la pianta della scarpa mentre gli dicevo in sardo: attumba caprittu (urta capretto). E lui prendeva la rincorsa per dare una tenera incornata alla suola della scarpa. Avevo capito che un capretto (o un agnello) non era meno capace di affettività rispetto ad un cane. E allora perché gli uomini si mangiano gli agnelli e non si mangiano i cani? mi domandavo. Anche ciò mi aveva indotto a divenire vegetariano, oltre al fatto di essere rimasto profondamente scioccato, sconvolto, vedendo all'età di 10 anni dei buoi correre impazziti per la via Sonnino dopo essere fuggiti dal mattatoio, che allora si trovava in una strada centrale della città. Piansi amaramente quando fui costretto a separarmi da lui per volere di mio padre, che disse che non si poteva ulteriormente convivere al terzo piano di un palazzo con un capretto. Ma fui ingenuamente rassicurato che il capretto non avrebbe fatto la triste fine che attende tutti i suoi simili e che il pastore, pagato per questo, l'avrebbe risparmiato tenendolo in vita per la riproduzione. Ma certamente il capretto, prima o dopo, avrebbe fatto la stessa fine. Anche per questo avevo coltivato sempre un odio per i pastori, per una terra, che, tra tutte le regioni italiane, pur avendo una popolazione di soli un milione e seicentomila abitanti, aveva tratto dalla pastorizia la maggiore risorsa economica e il maggiore profitto esportando cadaveri di agnelli, sottratti alle madri piangenti che cercano i loro figli. Pastori tanto crudeli quanto imbecilli per essere rimasti miserabili conservando la tradizione della produzione del latte ai fini del formaggio pecorino, anche se tratto da pecore malate del morbo della lingua blu o comunque trasmettenti nel latte l’antibiotico del vaccino per pecore, non avendo mai pensato di poter trarre maggior vantaggio economico sostituendo la pecora e la capra sarde, che danno una lana priva di valore, usata per tappeti o per isolanti termici, con altre razze di pecore e di capre dalla lana pregiata, come il cachemire e il merino, in modo da risparmiare i maschi, sapendo che il cachemire del maschio è ancora più pregiato. Una Sardegna che è stata sempre una terra di povertà espressa dal 45% di tutti gli ovini d’Italia pur con una popolazione di un milione e seicentomila abitanti. PASTORI SARDI BASTARDI. Una terra di miserabili che all'EXPO non aveva avuto vergogna di farsi rappresentare soprattutto dal maialetto arrosto nonostante le frequenti pesti suine con relativo abbattimento di migliaia di maiali. Un EXPO baraccone diseducativo e rovinoso per la salute come fiera di tutte le peggiori tradizioni alimentari.