SEMPRE DA UN MIO LIBRO
Ricordiamo
quanto il Peggiore (Togliatti) fece a danno dell'Italia dopo essere tornato dalla sua vera
patria, l'Unione Sovietica. Questo doppiogiochista da una parte aderì al
governo Badoglio su direttiva di Stalin, in un momento storico in cui, sulla
base degli accordi di Yalta, l'Europa era stata già divisa in due, con
l'esclusione dell'Italia dal blocco sovietico, dall'altra nei giorni 12 e 13
settembre 1943 aveva convenuto con il partito comunista croato che l'Istria (compresa
Trieste) dovesse far parte della Croazia, facendo presente che sarebbe stato
utile per la causa comunista che Tito occupasse anche la Venezia Giulia. A tal
fine ritenne opportuno che il movimento partigiano dell'Istria passasse sotto il controllo del partito
comunista croato in cambio del riconoscimento dei comunisti italiani come
rappresentanti della minoranza italiana all'interno della Jugoslavia. Per
questo osteggiò qualsiasi tentativo di pacificazione con i fascisti voluta
dalla maggioranza del CLN e promosse una campagna di attentati terroristici,
rifiutando che i comunisti affiancassero le poche unità regolari rimaste
dell'esercito regio e gli eserciti alleati. Delle due divisioni italiane che
operavano nella Venezia Giulia (la
Osoppo e la Garibaldi Natisone) la seconda (di comunisti) decise di passare
agli ordini del IX Korpus sloveno. Nel contesto di queste direttive dei
comunisti va posta la trappola in cui caddero alcuni partigiani bianchi sul
monte Canizza (al di qua del confine attuale della Venezia Giulia), massacrati
da quelli comunisti comandati da Mario Toffanin, detto Giacca. Gli autori della
carneficina, identificati nel numero di 37, furono condannati dopo la guerra a
800 anni di carcere. Ma sopraggiunse poi l'amnistia voluta dal ministro della
giustizia Togliatti, non tanto per salvare i fascisti, quanto per salvare i
comunisti. Ma Giacca e il suo compagno Vanni, che erano già fuggiti in
Jugoslavia e poi in Cecoslovacchia, furono condannati a 30 anni. Il secondo fu
graziato nel 1959 e il primo, maggiore responsabile, fu graziato nel 1978 da
Pertini, mandante di plurimi assassini.[1]
Erede degno della antitalianità del comunismo
è oggi il capo dello Stato Giorgio Napolitano, che aveva 22 anni nel 1946 e
doveva sapere delle foibe istriane. Ma non se ne poteva parlare allora nemmeno
da parte di altri partiti, facenti parte dei primi governi di coalizione, né se
ne parlò successivamente per evitare di
tenere aperta una ferita cocente, non esasperando il conflitto con i comunisti
ed evitando di compromettere i rapporti di vicinato con la Jugoslavia di Tito,
scomparso il quale venne fuori la verità. In nome dell'unità nazionale dei
partiti non fu contrastata in sede internazionale, subito dopo la guerra, la
cessione dell'Istria alla Jugoslavia, già occupata dalle armate comuniste, e i
300.000 profughi istriani vennero accolti come stranieri in Italia, con
fastidio e sopportazione. Con lacrime da coccodrillo Napolitano si accorse dopo
molti decenni dell'esistenza delle foibe. Ma non si pentì mai di avere
plaudito, insieme con tutta la dirigenza del P.C.I., alla repressione della
rivolta ungherese che causò 20.000 morti.
La mattina stessa della sua elezione a capo
dello Stato gli inviai una racc. A. R. in Senato, scrivendogli: “Lei con soli
543 voti mi rappresenta un cazzo! Lei nel 1956, sentendosi più sovietico che
italiano, plaudiva con Togliatti ai carri armati sovietici a Budapest. Questo
è un marchio di infamia. Il passato non può essere cancellato. Ci si può
redimere nella coscienza, ma non – e per ragioni di opportunismo politico –
come figura pubblica. Si dovrà, comunque, fare la verifica dei voti nulli per
sapere se la Sua nomina sia legittima. Anche per questo, se Lei avesse avuto
dignità, non avrebbe dovuto accettare la nomina. Si consideri, al massimo,
presidente di metà degli italiani”.
Analizzo la sconcertante sentenza della
Cassazione (Sezione I penale, n.1560/99) che è un vero pasticcio di
contraddizioni, scaturenti dal tentativo scoperto di salvare gli assassini,
protetti dal clima politico-ideologico
da cui nacque l'identificazione degli attentati dei partigiani come
azioni di guerra. La sentenza riprende nel 1999 in esame l'attentato di via
Rasella in conseguenza del fatto che i parenti, sia quelli dei civili vittime
dell'attentato di via Rasella, sia quelli delle vittime della rappresaglia,
avevano aperto un procedimento contro i tre principali e citati manovali
dell'attentato. Il P.M aveva presentato richiesta di archiviazione, formulata
sulla base della considerazione che l'attentato ricadeva nell'amnistia disposta
con D.P.R. del 5 aprile 1944 n. 96. Il G.I.P. aveva accolto la richiesta ma
soltanto dopo avere ordinato un supplemento di indagini per cambiare le
motivazioni dell'archiviazione. Non si trattava di applicare l'amnistia ma di
stabilire se l'attentato fosse da ritenere lecito in quanto da considerarsi
come azione di guerra (con la conseguente caduta dell'accusa mossa contro gli
attentatori). Il G.I.P. ritenne che l'attentato
non fosse un'azione di guerra, ma, pur essendo esso condannabile,
ritenne di dover archiviare il procedimento perché esso non era più punibile in
base la Decreto L.vo luogotenenziale n.194 del 1945 che diceva che non erano
punibili “gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra operazione
compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti
nel periodo dell'occupazione nemica”. Gli attentatori si salvarono grazie a
provvedimenti successivi agli attentati. Legge ad personas. A questo
punto i tre principali manovali dell'assassinio di via Rasella (i citati
Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo) - non contenti né della
motivazione della richiesta di archiviazione del P.M. (che faceva riferimento
all'amnistia) né di quella che accompagnava la decisione di archiviazione del
G.I.P., che riconosceva implicitamente che essi non fossero dei legittimi
combattenti - per paura di apparire veramente quali essi erano, degli
assassini, impugnarono l'ordinanza di archiviazione nel suo contenuto. La
sentenza della Cassazione, che ho esaminato interamente, appare un cumulo di
affermazioni del tutto illogiche, e perciò disoneste. Partendo dalla premessa
che l'archiviazione poteva essere prevista, non per sopravvenuta amnistia o
sopravvenuta legge (il citato decreto n.194 del 1945), non potendo questa avere
valore retroattivo in sede penale se il reato di strage fosse stato confermato
(secondo la tesi del G.I.P.), la Cassazione non aveva altra via di uscita per
salvare gli attentatori se non quella di considerare l'attentato come una
normale azione di guerra, pur sapendo che nell'attentato erano morti anche dei
civili, tra cui un bambino. Pertanto confermò l'archiviazione del G.I.P. ma ne
cambiò il contenuto considerando che già le Sezioni Unite Civili della
Cassazione (con sentenza 19 luglio 1957,
n. 3053) avevano ritenuto che le organizzazioni partigiane non fossero da
considerarsi clandestine e prive dei requisiti previsti dalla Convenzione
dell'Aja del 18.8.1907 e che pertanto tali organizzazioni fossero riconducibili
allo Stato italiano. Questa cervellotica conclusione partiva dalla premessa che
“il tema della liceità dell'attentato...non poteva essere risolto con
riferimento al decreto luogotenenziale n.194 del 1945, emanato successivamente
alla “rappresaglia” in questione...qualificata con effetto retroattivo 'azione
di guerra'...Ma ciò posto in evidenza non ne deriva affatto la non
riconducibilità allo Stato italiano, per quanto si riferisce al coinvolgimento
nell'attentato anche di vittime civili, dell'azione dei partigiani”. In sostanza, pur essendosi
ritenuta non applicabile con effetto retroattivo il decreto del 1945, tuttavia
gli attentatori non erano punibili perché il Governo legittimo (naturalmente
quello facente capo al fuggiasco governo regio di Brindisi) sin dal 31 ottobre
1943 “aveva incitato gli italiani a ribellarsi e a contrastare con ogni mezzo
l'occupazione tedesca”, e che ciò era stato già rilevato dalla citata sentenza
civile delle Sezioni Unite. A corredo di questa conclusione la sentenza del
1999 in esame faceva riferimento alla sentenza (25.10.1952, n.1711) del
Tribunale Supremo Militare che,
riconoscendo illegittimo l'esercizio della rappresaglia in quanto l'azione di
via Rasella doveva essere qualificata nella sua linearità come “atto di
ostilità a danno delle forze militari occupanti, commesso da persone che hanno
la qualità di legittimi belligeranti”, rovesciava la sentenza (27.7.1948,
n.631) emessa contro Kappler dal Tribunale Militare di Roma che, pur avendo riconosciuto
l'illegittimità della rappresaglia – ma solo per violazione del principio di
proporzionalità (ne erano stati uccisi 15 in più)[2] -
aveva negato la natura di legittimità azione di guerra dell'attentato.
Con ciò la Cassazione non si avvide, o fece
finta di non avvedersi, delle conseguenze aberranti. In primo luogo la
Cassazione si faceva complice dell'allora “governo” italiano nel riconoscere
come teatro di guerra una strada in cui vi furono delle vittime civili. In
secondo luogo si sarebbero dovute addebitare all'inconsistente governo regio
anche tutte le rappresaglie attuate dai partigiani, facendo finta che il
sedicente CLN prendesse ordini dal “governo” regio e che i vari gruppi di
partigiani non operassero anche separatamente tra loro con dei capi che si
erano autoinvestiti del titolo di comandanti delle rispettive bande. Dovrebbe
addebitarsi al “governo” italiano anche la vigliacca uccisione di Giovanni
Gentile, di uno che, pur non avendo mai rinnegato il suo passato di fascista,
si batté sino all'ultimo per una riconciliazione nazionale, osteggiata dai
partigiani comunisti. Gli assassini, appartenenti ai Gap toscani, tenendo dei
libri sottobraccio per essere creduti degli studenti, si avvicinarono all'auto
che era appena arrivata di fronte alla villa di Gentile, che ingenuamente aprì
il finestrino per parlare con essi. E fu ucciso con spietata freddezza. Anche
questa fu un'azione di guerra attuata da legittimi belligeranti? E l'uccisione
di Gentile è soltanto il più illustre esempio di ciò che molte bande partigiane
intendevano come “lotta di liberazione”. La conseguenza fu che anche con questa
sentenza politica fu negato il risarcimento dei danni ai parenti delle vittime
dei partigiani per non dover riconoscere che lo Stato repubblicano, erede di
quello regio, avrebbe dovuto farsi carico di tale risarcimento. Ma avrebbe
dovuto riconoscere di essere nato, non da una guerra di liberazione, ma da una
guerra persa.
La vergognosa sentenza della Cassazione ha
voluto ignorare una sentenza del Tribunale Supremo Militare del 26 aprile 1954,
che, mentre non riconosceva un potere sovrano al pur legittimo governo di
Badoglio, considerando che l'Italia del sud era di fatto sotto il controllo
degli alleati anglo-americani, da cui riceveva gli ordini, riconosceva che il
governo della R.S.I., nonostante il forte inserimento delle forze armate
tedesche, conservava la posizione giuridica di un governo di fatto con le sue
indipendenti istituzioni e con le sue leggi, su cui non aveva giuridicamente
alcun potere il governo del sud Italia. Conseguentemente lo stesso Tribunale
riconosceva la qualità di belligeranti regolari ai combattenti della R.S.I. e a
quelli regolari dipendenti dal governo del sud, mentre non riconosceva la
stessa qualità ai partigiani.
Dice la sentenza del Tribunale Supremo
Militare che i partigiani “non potevano essere trattati da belligeranti, ed
essendo certi che l'avversario - appunto per difetto di tale loro qualità - li
avrebbe spietatamente perseguiti. Infatti, i combattenti delle truppe regolari
italiane, se fatti prigionieri, non subivano le repressioni dei plotoni di
esecuzione; le subivano, invece, i partigiani che non potevano farsi usbergo
della qualifica suddetta...Al riguardo non vale argomentare che i partigiani fiancheggiavano
le truppe regolari italiane, e che facevano capo ai comandi italiani e alleati,
per poi dedurne che avevano dei capi responsabili; è necessario, invece, per
risolvere la questione, riferirsi esclusivamente alle formazioni partigiane,
considerate per se stesse, per quello che erano e per il modo con cui si
manifestarono, senza risalire ai comandanti superiori delle Forze Armate, ben
noti e riconosciuti sotto il loro vero nome".
La sentenza riconosce come legittimi
belligeranti non tutti i partigiani, ma solo quelli che avessero avuto
riconosciuta tale qualifica ai sensi del D.Lgs.C.P.S. 6 settembre 1946, n. 93
(Equiparazione, a tutti gli effetti, dei partigiani combattenti ai militari
volontari che hanno operato con le unità regolari delle Forze armate nella
guerra di liberazione).
Il 28 giugno 1997, pur non avendo ancora
fatto specifiche letture sull'attentato di via Rasella, mi lasciai guidare
dall'evidenza dei fatti, anche sulla base del ricordo del racconto fattomi da
mio padre, e inviai alla Procura presso il Tribunale penale di Roma una mia
denuncia per strage contro Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla
Capponi. In essa scrivevo: “Non si può nella fattispecie parlare di azione di
guerra, anche perché dalle notizie in mio possesso pare che la pattuglia di
soldati tedeschi fosse disarmata. Trattasi pertanto di azione proditoria che è
all'origine della rappresaglia tedesca prevista nel codice internazionale di
guerra. Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Pasquale Balsamo, nonché i loro
complici, sono dunque i veri responsabili della morte di coloro che furono
uccisi alle fosse ardeatine, e la giustizia attende ancora che i veri
responsabili rispondano del loro atto criminale. P.S. La gravità dell'atto
criminale descritto è tanto maggiore in quanto i suoi responsabili non si
costituirono quando il comando tedesco chiese che si presentassero per evitare
la annunciata rappresaglia. A chi indegnamente si fregia di una medaglia d'oro[3]
dovendo avere sulla coscienza la vita di centinaia di innocenti contrappongo la
luminosa figura di Salvo D'Acquisto che si immolò innocente per evitare una
rappresaglia. Non può essere teatro di guerra una strada cittadina dove
rimangono uccisi dei civili e persino un bambino”. Mi fu risposto
negativamente. Ma, non riuscendo a trovare oggi tra le mie carte la risposta,
non posso dire se essa sia stata di archiviazione per prescrizione o per insussistenza del
reato. D'altronde, non sapevo ancora che vi fossero ancora dei procedimenti in
corso contro i soprannominati assassini.
Il quotidiano Il Giornale dovette
subire in 10 anni ben quattro condanne per diffamazione per avere contrastato
la versione dell'attentato di via Rasella come azione di guerra. L'ultima
quella da parte del Tribunale di Monza, sezione di Desio (17 marzo 2009), dopo
la terza condanna del 7 agosto 2007 da parte della Cassazione),[4] e
il quotidiano Il Tempo, su querela della figlia del Bentivegna, subì
anch'esso una condanna (il 22 luglio 2009) da parte della Cassazione per avere
definito “massacratori” i responsabili dell'attentato. Eppure nei primi due
gradi del giudizio il quotidiano romano era stato assolto, e nel settembre del
2006 un altro tribunale aveva stabilito il non luogo a procedere nei confronti
del segretario romano di Fiamma Tricolore Giuliano Castellino per avere
anch'egli definito “massacratore” il Bentivegna.
Questo netto
contrasto tra tribunali civili, tra tribunali penali e gli stessi tribunali
militari dimostra che giustizia non è stata mai fatta per il prevalere di interessi
politici. Sino a quando si continuerà a trattare la storia sul piano di una
asserita superiorità etica (della parte vincitrice), invece che su quello
strettamente giuridico, si continuerà a sostituire la retorica ideologica della
“lotta di liberazione” all'analisi storica dei fatti.
Mi sono voluto addentrare nella
considerazione di questi tragici fatti perché voglio lasciare della mia vita
una testimonianza, se non di verità, almeno di ricerca della verità, perché per
tutta una vita sono stato costretto a subire la retorica del 25 aprile, che non
può più essere considerata una festa se non da coloro che ancora vogliano
partigianamente trovare il male solo da una parte e giustificare la nascita di
una Repubblica che non nacque da una guerra di liberazione, ma da una guerra
persa, al di là del giudizio che di essa possa essere dato, se sia stato meglio
vincerla o perderla.
Due mali si allearono fra loro. Ma la cura contro questi due mali fu la vittoria di un altro male, quello di un'altra dittatura, dell'Unione Sovietica di Stalin. Mali che nascono da governi sorretti da ideologie ispirantisi a certezze che generano opposti fanatismi.
Si può dire che
il nazismo sia stato la rovina del fascismo perché trascinò l'Italia in guerra
pur non essendo essa preparata. E questo dimostra come il fascismo non avesse
più altre aspirazioni di guerra nel 1939. A sua volta proprio l'impreparazione
dell'Italia fu la rovina del nazismo in guerra perché lo costrinse ad
intervenire ogni volta per salvare gli impreparati eserciti italiani che,
mandati allo sbaraglio da Mussolini, causarono l'intervento tedesco prima in
Grecia (dove la Germania dovette intervenire per salvare l'impantanato esercito
italiano pur non avendo in Grecia alcun interesse strategico di guerra) e poi
in Africa, dove scriteriatamente il governo fascista mosse guerra
all'Inghilterra invadendo l'Egitto pur non avendo colà alcun interesse, con la
conseguenza di una distrazione in Africa di un esercito di salvataggio tedesco,
sottratto alle operazioni di guerra in Europa e con la sconfitta evitabile di
El Alamein. Bisogna riconoscere che la Germania non si sottrasse mai ai doveri
di alleanza con l'Italia, pur ricavando da essa soltanto conseguenze negative.
Se l'Italia fosse rimasta neutrale la Germania dopo l'8 settembre non avrebbe
avuto bisogno di aprire un nuovo ed inutile fronte di guerra in Italia, e
soltanto per salvare il fascismo, pessimo alleato.
Due mali si allearono fra loro. Ma la cura contro questi due mali fu la vittoria di un altro male, quello di un'altra dittatura, dell'Unione Sovietica di Stalin. Mali che nascono da governi sorretti da ideologie ispirantisi a certezze che generano opposti fanatismi.
[1] Sulla
politica terroristica del P.C.I cfr. Jack Greene, Il principe nero. J.V.
Borghese e la X mas, Mondadori 2007;
Carlo Mazzantini, I balilla andarono a Salò, op. cit.; Arrigo
Petacco, L'esodo. La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e
Venezia Giulia, Mondadori 2000. Sulla guerra civile cfr. anche Saul Bellow,
La resa dei conti, Mondadori 200; Giorgio Pisanò, La generazione che on
si è arresa, C.D.L. ed. 1993; Marco Picone Chiodo, In nome della resa,
Mursia 1990.
[2] In
origine l'ordine partito da Berlino era di ucciderne 320, ma poi arrivò la
notizia che era deceduto un ferito, che portò il numero delle vittime del
battaglione altoatesino a 33. Dunque con la morte di 335 vittime della
rappresaglia ne erano stati uccisi 5 in
più.
[3] Allora
non sapevo che soltanto la pluriassassina Capponi avesse avuto la medaglia
d'oro in relazione ad altre sue imprese da terrorista.
[4] V.
il giusto commento di Massimo Fini su “Quella disparità di giudizio tra via
Rasella e la strage di Nassyria” (su Opinione del 17 agosto 2007,
riportato in www.ladestra.info. V. inoltre
di Pierangelo Maurizio “Via Rasella. Un mistero che dura sessant'anni” (Il
Giornale, 12.08.2007).
togliatti e nilde iotti andavano fucilati in parlamento.
RispondiEliminaOggi vanno fucilati gran parte degli italiani, sia di destra che di sinistra