Il 30 aprile 1980 in qualità di docente di
storia della filosofia presso la Facoltà di Magistero (ma
provenivo da una laurea in Filosofia nella Facoltà di Lettere
e filosofia) tenni nell'Aula Magna delle Facoltà di Lettere e
Magistero una conferenza sul tema: "Marxismo, irrazionalismo e
violenza: un nodo non risolto?" Si trattava di un ciclo di
conferenze tenute in un giorno precedente al mio e nei giorni
seguenti sino al 5 giugno impostate sul titolo: La violenza
nei conflitti sociali e nella società. Intervenne l'8 maggio
il deputato radicale Marco Boato sul tema "Movimento
studentesco e nuova sinistra: violenza politica e rivoluzione
nelle ideologie del Sessantotto". Dopo di lui il 15 maggio
intervenne Giampiero Cella, ordinario di Sociologia economica
nella Facoltà di Magistero di Cagliari sul tema "Dieci anni di
conflittualità sociale; le lotte sindacali, i valori della
solidarità operaia,la violenza in fabbrica". Dopo ancora il 22
maggio fu la volta del prof. avv. Luigi Concas, docentedi
diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari sul
tema: "Disgregazione economico-sociale, violenza politica,
criminalità; il caso della Sardegna". Dopo di lui il 29
maggio Luigi Bonanate ordinario di relazioni internazionali
nella Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Torino
sul tema: "Il terrorismo politico organizzato: radici,
motivazioni, scopi". Per ultimo Salvatore Mannuzzu, magistrato
e deputato al Parlamento sul tema "Terrorismo, società,
istituzioni".
Il mio intervento, pur non essendo io
marxista, fu impostato sulla linea di confine e demarcazione
tra terrorismo e marxismo. Potevano le Brigate Rosse essere
considerate terroriste? NO. Esse non facevano attentati
gettando bombe ma ferendo o uccidendo singoli individui
ritenuti esponenti di uno Stato che essi combattevano
politicamente con la violenza armata. Si astennero dal
coinvolgere negli attentati persone che non fossero di un
certo rilievo nello Stato evitando i veri e propri atti
terroristici che, in quanto tali, potessero fare vittime nella
folla (come la strage della Banca dell'agricoltura a Milano,
quella di piazza della Loggia di Firenze o della stazione di Bologna,
con decine di vittime o quella del treno Italicus). Pertanto
in senso stretto non potevano definirsi terroristi. Tipico
il caso del sequestro di Moro con l'uccisione della sua scorta
e la successiva uccisione di Moro. Essi furono definiti da
molti comunisti compagni che sbagliano. In che cosa
sbagliavano? Potevano definirsi rivoluzionari? Nemmeno.
Si tratta solo di una differenza di numero.
Chi combatte con le armi contro lo Stato è nemico dello Stato
costituito, a cui ne vuole sostituire un altro. Allora una
delle due: o il nemico dello Stato riesce a vincere oppure è
destinato a soccombere. Se vince è stato un rivoluzionario, se
perde è considerato dallo Stato un assassino, pur paludato da
motivazioni politiche, ma non può essere considerato alla
stregua di un comune assassino che uccida per danaro. E tanto
meno un terrorista. E' la somma che fa la differenza. I
brigatisti si erano illusi di poter trascinare con essi la
classe operaia contro il capitalismo. Non la ebbero perché
erano dei gruppi ristretti senza seguito nella società. Se
avessero avuto un grande seguito nel popolo avrebbero dovuto
essere considerati dei combattenti armati contro lo Stato, ma
non dei comuni assassini o criminali, come se ci si riferisse alla
criminalità organizzata. E avrebbero potuto pretendere dallo
Stato di essere dei rivoluzionari. Perché è la forza armata
che in politica garantisce la vittoria contro uno Stato. Ogni
Stato si regge sulla forza. Come ben capì Benedetto Croce,
anche se si riferiva alla criminalità comune organizzata, in
teoria non vi è differenza alcuna tra lo Stato e una
associazione a delinquere in quanto, dando bando anche alla
illusione dell'esistenza di una democrazia pur fondata su una
Costituzione che salvaguardi i diritti individuali del
cittadino, la stessa Costituzione non avrebbe alcun valore se
non si reggesse sulla forza delle armi per contrastare le
criminalità organizzate che corrompono la democrazia tramite
il controllo dei voti. E quando, come nelle
Regioni del sud Italia, dominano le varie mafie armate, lì lo
Stato è destinato a soccombere di fronte ad un tessuto sociale
mafioso nonostante le decantate vittorie con gli arresti di
vari capi mafia (morto un capo se ne fa un altro), quando
addirittura non diventa connivente con esso per continuare ad
esercitare un potere politico. Proprio allora ci si avvede che
in tali casi, cioè in società permeate da tradizioni mafiose,
è la stessa democrazia che diventa il bacino del potere delle
mafie che possono introdursi nell'appato politico. Quale
rimedio? Un potere più forte di quello delle mafie per
impedire che la politica dipenda da esse. Questo potere non
può essere democratico perché deve essere tanto forte da non
dover dipendere da coloro che esercitano un potere sulla
politica. La quale può sottrarsi alle mafie con la sospensione
delle garanzie costituzionali e con la pena di morte. L'aveva
capito lo stesso Beccaria in Dei delitti e delle pene,
dove, pur prendendo posizione contro la pena di morte,
tuttavia la giustificava in tutti quei i casi in cui ne
andassero di mezzo le stesse istituzioni dello Stato con la
perdita della libertà dei cittadini, costretti ad obbidire non
alle leggi ma contro le leggi.
Lungi
da qualsiasi considerazione
filosofico-umanitaria l’illuminista Beccaria è indotto a
chiedere per il
carcere perpetuo “una schiavitù perpetua! “fra ceppi o le
catene”, in cui “il
disperato non finisce i suoi mali”, come, invece, con la
pena di morte.
Beccaria condanna lo Stato che compra le delazioni e
impone taglie: “Chi ha la
forza di difendersi non cerca di comprarla. Di più, un tal
editto sconvolge
tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo
vento svaniscono
nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed
ora lo puniscono…Invece
di prevenire un delitto, ne fa nascere cento. Questi sono
gli espedienti delle
nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che
istantanee riparazioni di un
edificio rovinoso che crolla da ogni parte”. D’altra
parte, Beccaria (Dei delitti e delle pene, cap.
XXVII) continuò a giustificare la pena
di morte se “la morte di qualche cittadino diviene
necessaria quando la nazione
ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo
dell’anarchia, quando i disordini
tengon luogo di leggi”.
Dunque
Beccaria certamente non sarebbe stato contrario alla pena
di morte per le organizzazoni mafiose come unico rimedio
allo stato di anarchia che si genera quando le mafie fanno
perdere ai cittadini la loro libertà perché esse "tengono
luogo di leggi".
In
conclusione, mentre certamente non furono le Brigate Rosse
a porre in pericolo le Istituzioni nella loro illusione di avere un appoggio popolare, cercato soprattutto
nella classe operaia, che non li seguì (e senza appoggio
popolare non vi può essere rivoluzione), le mafie, al
contrario, cercano tuttora l'appoggio popolare, e in parte
lo riscuotono o per convenienza o per timore della
propria vita, non per sovvertire lo Stato, come era nelle
intenzioni delle Brigate Rosse, ma per sfruttarlo dal suo
interno ai loro fini con le loro potenti armi della
corruzione al livello politico.
DA Bambilu ho ricevuto un commento che non ho potuto pubblicare perché quando mi è arrivato nella posta per pubblicarlo avevo già cambiato il titolo.
RispondiEliminaIl commento suo diceva:
il fatto è che le leggi le fanno "loro" i governi che hanno usurpato lo Stato svendendolo ai privati [mafie]. Non abbiamo bisogno di "leggi" illeggibili ed incomprensibili per il popolo comune, appositamente rese indecifrabili [e che ci vuole per degli ignoranti analfabeti anche se laureati con lauree fasulle solo nozionistiche?] Le FFOO dovrebbero stare col Popolo NON CONTRO il Popolo, cioè le FFOO dovremmo essere Noi, come in Corea del Nord. Solo così si difende la Nazione, tutti i giorni dai nemici interni [i peggiori] e da quelli esterni.