La
mattina del 9 febbraio del 1619 un lugubre corteo attraversò le vie di
Tolosa, in Francia, per dirigersi verso la Place du Salin. Sul sagrato
della Chiesa di Santo Stefano da un carro trainato da tre cavalli fu
fatto scendere in maniera spiccia un uomo vestito con la tunica da
penitente e con appeso al collo un vistoso cartello recante la scritta
“ateo e bestemmiatore”.
Dopo
averlo costretto ad inginocchiarsi reggendo in mano una torcia, a capo
scoperto e piedi nudi, il Commissario del locale Parlamento lo invitò a
chiedere perdono a Dio, al Re e alla Giustizia per i crimini di ateismo,
blasfemia ed empietà, solo per sentirsi opporre un fiero rifiuto al
grido di: “Non esiste un Dio, né un diavolo, perché se ci fosse un Dio
gli chiederei di scagliare un fulmine sul vostro iniquo Parlamento e se
ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra. Ma non
essendoci né un Dio, né un diavolo, non farò nulla!”.
Quella
reazione stizzita indispettì il pubblico ufficiale il quale, temendo
una reazione della folla, ordinò di riprendere il macabro rituale
accelerando i tempi. Allora il boia, che lo aveva scortato fino a lì
sentendosi dire da quell’uomo “Andiamo a morire allegramente, da
filosofi!”, gli chiese di tirare fuori la lingua e al suo diniego, con
l’aiuto di due aguzzini, gli spalancò la bocca per strappargli con le
tenaglie l’organo che aveva offeso Dio e il Re, appendendo poi il suo
corpo martoriato ad una forca issata su un rogo al quale fu subito
appiccato il fuoco, affinché delle sue spoglie mortali non restasse che
un mucchietto di cenere da disperdere nella acque della Garonna, il
fiume cittadino.
Questa
fu la tragica fine del filoso e pensatore Giulio Cesare Vanini, nato
nel 1585 a Taurisano, nel Leccese, da un funzionario statale e una
nobildonna spagnola. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza
dell’Università di Napoli fu temporaneamente costretto ad abbandonare
gli studi per mancanza di mezzi di sostentamento dopo la precoce morte
del padre, principale motivo che lo spinse ad entrare nell’Ordine
Carmelitano dove, come Fra Gabriele, si laureò in “Utroque iure”.
Trasferitosi
in un monastero di Padova, città appartenente alla Serenissima
Repubblica a quei tempi invischiata in un’accesa disputa diplomatica con
lo Stato Pontificio di Papa Paolo V, sulla scia delle posizioni prese
dal celebre Fra Paolo Sarpi il nostro si schierò subito dalla parte di
Venezia. Quando l’Ordine Carmelitano gl’impose di ritrattare, l’ormai
ex-Fra Gabriele preferì chiedere asilo in Inghilterra insieme ad un
confratello per abiurarvi pubblicamente, alla presenza del filosofo
Francesco Bacone, la fede cattolica in favore di quella anglicana.
Ben
presto però le prediche di quei due Italiani risultarono troppo poco
ortodosse anche per gli Inglesi, tanto da richiamare l’attenzione delle
autorità che iniziarono a guardarli con sospetto, incarcerandoli con la
convinzione che si trattasse di spioni al soldo di qualche potenza
straniera.
Riparato
a Parigi dopo una fuga rocambolesca, Vanini fu qui riaccolto in seno al
Cattolicesimo dopo aver ancora una volta abiurato e fatto ammenda,
venendo inizialmente ricevuto con grande favore dall’aristocrazia
francese, soprattutto di sesso femminile visto che era pur sempre un
gran bel giovane, per le sue doti di brillante oratore e conversatore.
Proprio
nella capitale francese fra il 1615 ed il 1616 scrisse le uniche opere
che di lui ci sono pervenute: l’”Amphiteatrum aeternae Providentiae
divino-magicum” e il “De admirandis naturae reginae deaeque
mortaliumarcanis”. Qui in forma dialogica fra un “divulgatore del
sapere” (lui stesso) ed un immaginario ascoltatore di nome Alessandro,
illustrò i misteri della natura attaccando il dogma della creazione,
sostituendo l’azione di Dio con quella della natura e infine bollando le
religioni col marchio della “falsità e superstizione”.
Tuttavia,
nella Francia del giovane Re Luigi XIII, un bigotto impregnato del
concetto della derivazione divina della sua autorità, la negazione di
Dio costituiva, oltreché un orribile peccato, un crimine di lesa maestà,
tanto che su Vanini non tardarono ad appuntarsi gli strali della
Facoltà di Teologia della Sorbona, che lo indussero a cambiare
prudentemente aria.
Trasferitosi
a Tolosa sotto falso nome, dopo alcuni mesi di silenzio nell’agosto del
1618 fu arrestato dagli agenti di polizia del locale “Capitoul” (il
Parlamento cittadino), i cui magistrati dovettero però ricorrere alla
falsa testimonianza di un notabile per incastrarlo e rilegarlo su quel
carro, con la necessità di far presto perché si sarebbe subito dovuta
ripulire la piazza dalle ceneri di quel rogo per festeggiare il
matrimonio programmato per l’indomani, proprio nella Chiesa di Santo
Stefano, fra la principessa Maria Cristina di Borbone, figlia di Enrico
IV di Francia, ed il futuro Duca Vittorio Amedeo I di Savoia.
Accompagna questo scritto il “Busto di Giulio Cesare Vanini”, di Eugenio Maccagnani, 1886, Villa Garibaldi, Lecce.
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