martedì 27 luglio 2021

TRISTE MEMORIA PERSONALE DEI SARDI

Da alcune pagine del mio libro Roba da sardi

 

Ricordai tristemente di quando mio padre, avendo acquistato negli anni cinquanta tre appezzamenti diversi di terra per circa sette ettari in una località tra Senorbì e Suelli chiamata Sarais, distante poco più di 50 Km da Cagliari e confinante su lati oppo- sti con due paesetti orridi e ancor più squallidi, S. Basilio e Arixi, provvide prima a far costruire dei muri di pietra di recinzione lungo tutto il confine dell’oliveto e a fare impiantare degli alti eucalipti come frangivento della vigna e del frutteto, pagando di tasca sua la mano d’opera. Successivamente provvide a fare impiantare un altro frutteto. Ai piedi della vigna scorreva un rio che all’inizio di giugno diventava secco. Per cui provvide a far costruire un grande pozzo che con una pompa a benzina portava

l’acqua in una grossa vasca di cemento che serviva ad irrigare i frutteti e la vigna. Aveva poi fatto impiantare una nuova vigna nel terzo appezzamento. Egli curava personalmente gli innesti per migliorare la qualità della frutta, essendo diventato esperto in essi, pur non avendo mai prima avuto esperienza in agricoltura, essendo un colonnello in pensione e ingegnere civile. Aveva sco- perto in età ormai avanzata una passione per la campagna, a cui si era dedicato senza fini di lucro. Ma questa sua passione gli pro- curò solo amarezze. I pastori, per fare entrare le pecore nell’olive- to, avevano fatto varie brecce nel muro, invadevano la vigna e mettevano fuoco nel frutteto incendiando anche i bellissimi euca- lipti. Mio padre resistette per qualche anno pagando anch’egli i barracelli perché impedissero l’azione distruttiva dei pastori. Ma questi erano d’accordo con i pastori o erano incuranti, nella piana omertà, dei compiti per cui erano pagati dai proprietari. Alla fine dovette arrendersi e vendere la terra per quattro soldi, magari a quegli stessi che l’avevano sempre danneggiato e che mai furono scoperti.

Quando mio padre ebbe l’incarico di progettare ed eseguire a Dorgali la costruzione di una grande cantina sociale nella zona della maggiore barbarie sarda, chiamò la più importante impresa italiana nel settore enologico, che aveva sede a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, e che tuttavia impiegava mano d’opera locale. Dopo la costruzione del primo lotto gli fu scatenata la guerra da una impresuncola sostenuta dalla mafia locale, che si impose anche con le minacce, costringendo mio padre a dare le dimissioni, non essendo egli disposto a venir meno ad un precedente contratto con l’impresa e ad affidarsi a gente priva di competenze e di esperienza. E con la scusa che aveva dato le dimissioni la cantina non voleva nemmeno pagarlo per il primo lotto già costruito. Dovette fare causa per essere pagato. Io ero adolescente, e sentii crescere in me l’odio per una terra i cui abitanti, unendo l’invidia distruttiva ai secolari odi tribali, avrebbero meritato di essere eliminati con metodi nazisti. Nulla negli ultimi anni era cambiato. Faide tra allevatori, tra pastori, con furto o uccisione di “bestiame”, sequestri, imboscate, attentati, atti vandalici contro imprese sane e di crudeltà contro gli animali. Questa era stata l’autonomia della Sardegna. Autonomia nel delinquere. Terra maledetta piena di assassini miserabili, privi anche del cosiddetto codice d’onore della mafia.

 

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