Da alcune pagine del mio libro Roba da sardi
Ricordai
tristemente di quando mio padre, avendo acquistato
negli anni cinquanta
tre appezzamenti diversi di terra per circa
sette ettari in una località
tra Senorbì e Suelli chiamata
Sarais, distante poco più di 50 Km da Cagliari e confinante
su lati oppo- sti con due paesetti orridi e ancor più squallidi,
S. Basilio e Arixi, provvide prima a far costruire
dei muri di pietra di recinzione
lungo tutto il confine dell’oliveto e a fare impiantare degli alti eucalipti come frangivento della vigna e del frutteto,
pagando di tasca sua la mano d’opera. Successivamente provvide a fare impiantare un altro frutteto. Ai piedi della vigna scorreva un rio che all’inizio di giugno diventava secco. Per cui provvide a far costruire un grande pozzo che con una pompa a benzina portava
l’acqua in una grossa vasca di cemento che serviva ad irrigare i
frutteti e la vigna. Aveva poi fatto impiantare
una nuova vigna nel
terzo appezzamento. Egli curava personalmente gli innesti per
migliorare la qualità
della frutta, essendo diventato esperto in
essi, pur non avendo mai prima avuto esperienza
in agricoltura, essendo un colonnello in pensione e ingegnere
civile. Aveva sco- perto in età ormai avanzata una passione per la campagna, a cui si era dedicato
senza fini di lucro. Ma questa sua passione gli pro- curò solo amarezze. I pastori,
per fare entrare le pecore nell’olive- to, avevano fatto varie brecce nel muro, invadevano la vigna e mettevano fuoco nel frutteto incendiando anche i bellissimi
euca- lipti. Mio padre resistette per qualche anno pagando anch’egli i barracelli perché impedissero l’azione distruttiva dei pastori. Ma questi erano d’accordo con i pastori
o erano incuranti,
nella piana omertà, dei compiti per cui erano pagati dai proprietari. Alla fine
dovette arrendersi
e vendere la terra per quattro soldi, magari a
quegli stessi che l’avevano sempre danneggiato e che mai furono scoperti.
Quando mio padre ebbe l’incarico
di progettare ed eseguire a Dorgali la costruzione di una grande cantina sociale nella zona
della maggiore barbarie
sarda, chiamò la più importante impresa italiana nel settore enologico,
che aveva sede a
Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, e che
tuttavia impiegava
mano d’opera locale. Dopo la costruzione del
primo lotto gli fu scatenata
la guerra da una impresuncola sostenuta dalla mafia locale, che si impose anche con le minacce,
costringendo mio padre a dare le dimissioni, non essendo egli disposto a venir meno ad un precedente
contratto con l’impresa e ad affidarsi a gente priva di competenze
e di esperienza. E con la scusa
che aveva dato le dimissioni la cantina non voleva nemmeno pagarlo per il primo lotto già costruito. Dovette fare causa per
essere pagato.
Io ero adolescente, e sentii
crescere in me l’odio per una terra i cui abitanti, unendo l’invidia distruttiva ai secolari odi tribali, avrebbero meritato di essere eliminati con metodi
nazisti. Nulla negli ultimi anni era cambiato.
Faide tra allevatori, tra pastori, con furto o uccisione
di “bestiame”, sequestri, imboscate, attentati, atti vandalici contro
imprese sane e di crudeltà
contro gli animali. Questa era stata l’autonomia della Sardegna. Autonomia nel delinquere.
Terra maledetta piena di assassini miserabili, privi anche del
cosiddetto codice d’onore
della mafia.