"La Chiesa inviti i fedeli a rinunciare al sacrificio degli agnelli"
L'appello in una lettera
di Manuela Repetti
e dell'ex ministro Bondi
Caro direttore, approssimandosi la Pasqua, e predisponendoci come credenti a celebrarla nell’ambito della nostra comunità, sentiamo prorompente il bisogno di esternare pubblicamente, sempre con rispetto, una richiesta alla Chiesa.
La festività pasquale rappresenta, per la fede cristiana, la speranza della resurrezione dopo la morte terrena. Di più ancora, il sacrificio della propria vita, della vita di Gesù, per riscattare l’umanità dal peccato originale. Questa testimonianza d’amore, la partecipazione divina all’umano dolore degli uomini, costituisce la promessa, grazie alla fede, di una vita ultraterrena.
Il simbolo del sacrificio dell’agnello nella tradizione pasquale ha una storia antica: dall’ebraismo fino al cristianesimo.
Si tratta, in effetti, soltanto di un simbolo che non fa certamente parte del corpo dottrinario irrinunciabile del cristianesimo, che si riassume, come ci ricorda la Pasqua, nel principio fondamentale dell'amore di Cristo per gli uomini.
In fondo, l’agnello rappresenta al tempo stesso il simbolo dell’estrema tenerezza, dell’infinita dolcezza e dell’assoluta innocenza.
Proprio per questo, il rito del sacrifico dell’agnello che ogni anno si celebra in occasione della Pasqua cristiana, e che si traduce nell’uccisione di migliaia e migliaia di agnelli davvero innocenti e incolpevoli al fine di allietare le nostre tavole imbandite, è diventato un inutile e orribile massacro.
Per questo confidiamo che la Chiesa abbia il coraggio di invitare i propri fedeli a evitare il sacrificio degli agnelli per celebrare la Santa Pasqua.
Perché l’amore di Dio non si festeggia attraverso la morte, di qualunque essere vivente si tratti.
Il valore di una fede autentica, profondamente spirituale e rispettosa di tutto il creato, ne sarebbe accresciuto, e la Chiesa tutta ne sarebbe avvantaggiata da una prova di grande umanità.
E ORA GUARDATE QUESTA IMMAGINE. MALEDETTI COLORO CHE SONO PRIVI DI COSCIENZA. LA LORO VITA VALE MENO DI QUELLA DI UN ANIMALE NON UMANO
Tratto da: Cibo E Tradizione | AutodifesAlimentare.it http://www.autodifesalimentare.it/blog/category/cibo-e-tradizione#ixzz1qcUujCoN
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Articolo di Sussanna Tamaro (dal sito La coscienza degli animali)
la storia
Il pianto degli agnelli e il dolore del mondo
la storia
Il pianto degli agnelli e il dolore del mondo
La Pasqua si avvicina. Gli scaffali dei supermercati sono un trionfo di uova di cioccolata di ogni dimensione, di colombe con tutte le possibili varianti — con uvetta, senza uvetta, ricoperte di cioccolata, con lo zabaione — per accontentare i gusti più stravaganti. Da qualche anno poi, alle più tradizionali colombe, si sono affiancati dolci a forma di campane e di agnelli, anche questi in svariate versioni. Per chi vive in campagna, e ha lo sguardo abituato ad osservare ciò che succede nella realtà circostante, la Pasqua è quel momento in cui le gemme sui rami iniziano a ingrossarsi e i peschi e gli albicocchi, spesso temerariamente, schiudono i loro fiori. Le prime lucertole si svegliano e il loro fruscio si sente in prossimità dei muretti mentre le uova dei rospi, avvolte a migliaia da una lunga collana gelatinosa, ondeggiano tra le piante dei laghetti. Nel sottobosco spuntano le primule, le violette, i crochi, le pervinche e il mesto pigolio invernale degli uccelli si trasforma nella grande sinfonia che prelude al corteggiamento.
Il periodo che precede la Pasqua è il periodo in cui la vita si muove nuovamente verso la sua pienezza e, con questa sua forza oggi così poco compresa, spinge anche noi a rinnovarci, ad abbracciare con una nuova visione lo scorrere incerto della vita. Anche molti animali partecipano a questo rinnovamento. La maggior parte dei capretti e degli agnelli nascono con la luna piena di febbraio e, dopo i primi giorni di timidezza trascorsi zampettando dietro l'ombra rassicurante della madre, si lanciano in corse scatenate con i coetanei del gregge. Chi non ha mai visto gli agnellini giocare, non avrà mai un'immagine chiara della gioia che può pervadere la vita. Si inseguono in gruppi, sterzano, cambiano direzione, saltellano sulle zampe anteriori e posteriori, se c'è un punto più alto nel pascolo, una roccia, un tronco abbattuto, un fontanile, fanno a gara a saltarvi sopra e questo per loro è il massimo divertimento, e poi di nuovo riprendono a rincorrersi, ogni tanto si affrontano e si caricano a testate, simulando l'età adulta. Poi le madri li richiamano, e allora è tutto un correre, un raggiungere con misteriosa abilità, tra la folla del gregge, la propria genitrice, uno spingere con testa, un vibrare di codine soddisfatte. Sul pascolo scende allora il tenero silenzio della poppata. Ma poi un giorno, poco prima della Pasqua, mentre gli agnellini pan di spagna sorridono invitanti sui banchi dei supermercati, nelle campagne arrivano i furgoni e caricano i piccoli delle pecore e delle capre. La gioia se ne va dai pascoli e subentrano gli strazianti belati delle madri che per tre giorni corrono incredule da un lato all'altro chiamando a gran voce le loro creature con le mammelle gonfie di latte. Poi, dopo tanta agitazione, sulle campagne scende il silenzio e i pascoli tornano ad essere delle distese brulle in cui i corvi zampettano tra le madri svuotate dal dolore. Intanto gli agnellini, avvolti nel cellophan, sono arrivati nei banconi dei supermercati: interi, a pezzi, o solo la testa, che pare sia una prelibatezza. Non posso non sussultare quando vedo, schiacciati dalla pellicola, quegli occhi opachi e quei dentini che già strappavano la prima erba.
L'altro giorno mi ha chiamato un'amica che lavora vicino al mattatoio. «Mi sono messa i tappi, ma non serve a niente. Vengono scaricati ogni giorno, a centinaia, e urlano con voci da bambini, disperate, rauche, in preda al terrore, ma, a parte me, nessuno sembra farci caso. In fondo ogni anno è così. È la vita, è la tradizione, è Pasqua e questo è il rumore della Pasqua». Già, perché la Pasqua è soprattutto un pranzo tradizionale, una mangiata di quelle che si fanno di rado, con l'abbacchio trionfante in mezzo alla tavola, un abbacchio ridotto a prelibatezza culinaria, a segno di una cultura gastronomica mai tradita, spogliato da ogni valenza che superi il tratto gastrointestinale. Ma in quei belati, in quelle urla, in quella vita che è pura innocenza, non è forse celata la domanda più profonda sul senso dell'esistere? Perché la morte irrompe e devasta, senza guardare in faccia nessuno. Nella nostra società così asettica e così impregnata di onnipotenza, lo dimentichiamo un po' troppo spesso, ma dimenticare l'ingombrante presenza della morte vuol dire abdicare, fin da principio, al senso della vita. Quando la morte scende su uno dei miei animali, gli altri fanno dei lunghi giri per non avvicinarsi al corpo, per non guardarlo e, per qualche giorno, il loro comportamento cambia, diventa stranamente assente, come se qualcosa, al loro interno, all'improvviso avesse cominciato a vibrare in modo diverso. La contemplazione della morte non può non provocare un profondo senso di timore, timore per quell'occhio brillante che improvvisamente diventa opaco, per quel vivo tepore che si trasforma in fredda rigidità. È per questa ragione che tutte le culture dell'uomo hanno sviluppato dei rituali di macellazione per rendere questo passaggio meno temibile — temibile per l'animale, ma temibile soprattutto per noi, temibile per la potenza evocativa racchiusa nel sangue che scorre. «L'agnello» (1913) del pittore tedesco Franz Marc (1880-1916) considerato uno dei padri fondatori del movimento «Der Blue Reiter»
Ma in una società come la nostra, totalmente profana, in cui nulla è più sacro e gli unici timori concessi sono legati alla materia, la catena di morte del macello non è che una realtà tra le altre. Le urla degli agnelli sono un rumore di fondo, uno dei mille rumori che frastornano i nostri giorni. E forse non sapere ascoltare questo lamento è il non saper ascoltare tutti i lamenti — i lamenti delle vittime delle guerre, dei malati, dei bambini torturati, uccisi, delle persone seviziate, abbandonate, dei perseguitati, di tutte quelle voci che invano gridano verso il cielo. È anche il non saper ascoltare il nostro lamento, di persone sazie, annoiate, risentite, incapaci di vedere altro orizzonte oltre quello del nostro minuscolo ego, incapaci di interrogarci, di affrontare le grandi domande e di accettare il timore che, da esse, inevitabilmente deriva. Sdraiati sul comodo divano della teodicea, continuiamo a ripetere che Dio non può esistere perché permette il male degli innocenti e questo assunto ci placa, ci quieta, ci mette dalla parte della ragione, proteggendoci dall'insonnia delle notti e dall'angoscia straziante del dolore del mondo. Quanti orrori — e quanti errori — derivano da quest'immagine di Dio onnipotente, da quest'idea di un Dio con la barba, seduto su una nuvola, parente stretto di Zeus, con i fulmini in mano, pronto a scagliarli sugli empi della terra. L'onnipotenza di questa società ipertecnologica, non deriva forse proprio da questo? Dio non è onnipotente, come ci aveva promesso, e dunque diventa nostro compito assumerci l'onnipotenza, raddrizzare le cose storte in cose dritte, creare il paradiso in terra, un paradiso in cui la giustizia finalmente trionfa, grazie alle nostre leggi. Il paradiso in terra però, come già abbondantemente ci hanno mostrato le tragedie del Novecento, ben presto si trasforma nel suo opposto perché, quando l'uomo crede di agire unicamente secondo i principi assoluti della ragione, sta già srotolando un reticolato e prepara potenti luci al neon per illuminare ogni angolo della prigione.
Forse il pianto delle migliaia di agnelli immolati per routine consumistica in questi giorni non è che il pianto di tutti i milioni di vite innocenti che ogni giorno in modi diversi, da che mondo è mondo, vengono stritolate dal male. E quel pianto che si alza verso il cielo senza ottenere risposta, ci suggerisce forse che il passaggio, la vera liberazione — la vera Pasqua — è proprio questa. Sapere che Dio non è onnipotente, ma, come Agnello, condivide la stessa nostra disperata fragilità. E solo su quest'idea — sull'idea che condividiamo la fragilità, che le tue lacrime sono le mie e le Sue sono le nostre — si può immaginare un mondo che non scricchioli più sotto il delirio dell'onnipotenza ma che si incammini nella costruzione di una vera umanità.
Susanna Tamaro28 marzo 2010