I partigiani non furono dei
regolari combattenti. Furono delle bande che attuarono una guerriglia
con attentati e sparando spesso proditoriamente alle spalle. Commisero
atrocità che passarono come atti di valore. La guerra di liberazione fu
fatta in realtà dagli americani, che non riconobbero i partigiani come
forza belligerante. Perciò i partigiani giustamente furono considerati
dei banditi. E poi basta con la menzogna storica che i partigiani
liberarono l'Italia dal nazismo con una rivolta popolare cacciando i
nazisti dall'Italia. Da notare che la rivolta contro i nazisti a Genova e
a Milano avvenne solo a partire dal 25 aprile 1945 quando i nazisti si
stavano ormai ritirando dall'Italia. Dunque i partigiani furono dei
maramaldi che sparavano contro un nemico ormai in fuga, due giorni prima
che Mussolini (con la Petacci ed altri gerarchi fascisti) fosse
fucilato a Dongo il 28 aprile, e 5 giorni prima del suicidio di Hitler
il 30 aprile. Pertini, per dichiarazione risentita ieri alla TV comandò
al comunista Luigi Longo di inviare a Dongo una pattuglia di partigiani
perché Mussolini venisse ucciso prima che arrivassero a Milano gli
americani, a cui Mussolini doveva essere consegnato secondo l'ordine del
governo Badoglio. Si voleva così impedire un regolare processo per
chiudere per sempre la bocca a chi sicuramente avrebbe avuta salva la
vita da parte degli americani e soprattutto degli inglesi, data la
simpatia che sempre aveva avuto Churchill per Mussolini, sin da quando
aveva lodato la sua legislazione sociale definendola la migliore del
mondo. Inoltre Pertini e compagni volevano tappare la bocca a chi
avrebbe potuto accusare gli antifascisti dell'ultima ora, come Norberto
Bobbio, che divennero antifascisti per salire sul carro dei vincitori.
Né bisogna tralasciare di considerare che i partigiani non comunisti che
avevano arrestato Mussolini mentre, travestito con uniforme tedesca,
tentava di fuggire in Svizzera in un camion di tedeschi che liberamente
si ritirava dall'Italia, avevano intenzione di rispettare l'ordine di
Badoglio di consegnare Mussolini agli americani. I partigiani non
comunisti che avevano in consegna Mussolini a Dongo furono sopraffatti
da una squadraccia inviata da Pertini perché Mussolini venisse ucciso
prevenendo la consegna agli americani. Chi abbia veramente ucciso
Mussolini non si aprà mai. Vi sono cinque versioni. Tra le quali quella
secondo cui sia stato lo stesso Luigi Longo, futuro segretario del
P.C.I. succedendo a Togliatti. E' comunque da escludere la versione
ufficiale secondo cui sia stato l'oscuro ragioniere Walter Audisio, noto
come colonnello Valerio (gente che si attribuiva da sé i gradi). Questa
falsa versione fu accettata dal regista Carlo Lizzani nel film Mussolini ultimo atto. Pertini
lodò il fim di Lizzani ma gli disse che non era stato Walter Audisio ad
uccidere Mussolini. E allora chi fu? gli domandò Lizzani. Questo non
posso dirtelo, rispose il fanatico assassino Sandro Pertini, che volle
portarsi nella tomba la verità storica. Egli voleva così salvare
l'immagine di individui della sua stessa risma. E poi ci siamo trovati
questo stesso individuo come capo dello Stato. Ho dedicato un intero
capitolo a questi fatti esponendo le 5 versioni della morte di Mussolini
nel mio libro Io non volevo nascere. Un mondo senza certezze e senza giustizia.
Da altra fonte riporto quanto segue.
Di
norma, i delitti dei partigiani, quando è impossibile negarli, vengono
liquidati come eccessi di singoli individui e reazioni alla “barbarie”
criminale fascista e nazista il che sottintende che era giusto e
comprensibile che i partigiani reagissero in quel modo alle ‘barbare‘ esecuzioni di combattenti per la “libertà” e alle rappresaglie naziste.
Come
abbiamo già visto, uno degli esempi più ricorrenti nella liturgia
resistenziale è l’eccidio delle Fosse Ardeatine; anche e soprattutto in
questo caso, si tratta di un ribaltamento totale della verità.
Per
dare un giudizio di quanto accaduto in maniera imparziale, l’unico
metodo è quello di affidarsi alle leggi internazionali. Nel caso
specifico alla Convenzione dell’Aja vigente a quell’epoca e alle
successive conclusioni del Tribunale di Norimberga.
Cominciamo per ordine.
L’art. 42 della Convenzione dell’Aja dice testualmente:
“La
popolazione ha l’obbligo di continuare nelle sue attività abituali
astenendosi da qualsiasi attività dannosa nei confronti delle truppe e
delle operazioni militari. La potenza occupante può pretendere che venga
data esecuzione a queste disposizioni al fine di garantire la
sicurezza delle truppe occupanti e al fine di mantenere ordine e
sicurezza. Solo al fine di conseguire tale scopo la potenza occupante
ha la facoltà, come ultima ratio, di procedere alla cattura e alla
esecuzione degli ostaggi“.
Basta questo articolo, da solo, a togliere qualsiasi parvenza di legittimità alla cosiddetta resistenza.
Secondo
il diritto internazionale (Art. 1 della convenzione dell’Aia del 1907)
un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo
dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari i quali rispondano a
determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona
responsabile per i subordinati, abbiano un segno distintivo fisso
riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi.
Ciò premesso, si
può senz’altro affermare che gli attentati messi in atto dai
partigiani fossero atti illegittimi di guerra, essendo stati compiuti
da appartenenti a un corpo sì di volontari che però non rispondevano ad
alcuno dei sopra citati requisiti.
Consapevole
di questo, il governo del Sud, per mezzo di Badoglio, aveva diramato
l’ordine a tutti gli uomini della resistenza di evitare di fare
attentati nelle città, proprio per evitare quel tipo di prevedibili (e
ripeto, per il nemico e per le Leggi internazionali, legittime)
rappresaglie che avrebbero coinvolto anche civili.
Una
pietra tombale su questo argomento è stata poi posta dalla Sentenza
del Tribunale Supremo Militare del 1954; nel processo contro alcuni
ufficiali della “Legione Tagliamento”, ricorrenti contro la sentenza del
Tribunale di Milano che aveva tra l’altro negato che la R.S.I. avesse
costituito un governo di fatto e che, pertanto, i suoi ordini potessero
ritenersi legittimi; il Tribunale Supremo Militare pronunziò una
sentenza di eccezionale importanza (26 aprile 1954, Presidente
Buoncompagni, Relatore Ciardi)
che ha affrontato e risolto, con alto senso giuridico e storico, le più
dibattute ed ardenti questioni in tema di collaborazionismo. La suddetta Sentenza, fra l’altro, recita quanto segue:
“Pertanto
deve concludersi che i partigiani, equiparati ai militari, ma non
assoggettati alla legge penale militare, per l’espresso disposto
dell’articolo 1 del decreto legge 6 settembre 1946 n. 93, non possono
essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le
condizioni che le norme di diritto internazionale cumulativamente
richiedono”.
Stabilito
che l’attentato di via Rasella, così come qualsiasi altro attentato
dei sedicenti partigiani (i quali, ai sensi della Sentenza del 1954,
data la loro caratteristica non legittimi belligeranti, dovrebbero essere chiamati banditi),
costituì un atto illegittimo di guerra, occorre accertare, per le
diverse conseguenze giuridiche che ne derivano, quale fosse la posizione
degli attentatori nei confronti dello stato italiano in quel preciso
momento (e del governo del Sud Badoglio, che aveva diramato l’ordine a
tutti gli uomini della Resistenza di evitare di fare attentati nelle
città, proprio per evitare quel tipo di prevedibili (e ripetiamo, per il
nemico legittime) rappresaglie che avrebbero coinvolto anche civili).
Solo successivamente lo Stato considerò come propri combattenti i partigiani che avessero combattuto contro i tedeschi.
Con
decreto Legge n. 96 del 25 aprile 1944 (qualche giorno dopo
l’attentato di via Rasella) e col successivo decreto Legge n. 194 del 12
aprile 1945, lo Stato italiano dichiarò non punibili (amnistiati) gli
atti compiuti dai partigiani. Il che equivale a dire che li riteneva
illegittimi, tanto da sentire la necessità di due appositi decreti per
amnistiarli.
Veniamo ora alle Fosse Ardeatine.
Secondo
l’Art. 2 della convenzione di Ginevra del 1929 non potevano essere
utilizzati per una rappresaglia né feriti né prigionieri di guerra e
neppure personale sanitario.
Il Tribunale di Norimberga d’altra parte affermò:
“Le
misure di rappresaglia in guerra sono atti che, anche se illegali,
nelle condizioni particolari in cui esse si verificano possono essere
giustificati: ciò in quanto l’avversario colpevole si è a sua volta
comportato in maniera illegale e la rappresaglia stessa è stata
intrapresa allo scopo di impedire all’avversario di comportarsi
illegalmente anche in futuro“.
E
per finire la parte legale del discorso ecco le condizioni che
ammettevano una rappresaglia, sia per il diritto internazionale, sia per
la interpretazione data dal Tribunale di Norimberga:
1. Dopo
attacchi contro la potenza occupante, laddove la rappresaglia si
rendesse necessaria dal punto di vista militare. La rappresaglia serviva
innanzi tutto per impedire ulteriori delitti commessi dall’avversario.
L’ordine dell’alto comando dell’esercito di data 5 giugno 1941
imponeva “rappresaglie severe” quando esse si rendessero necessarie per la sicurezza della truppa che occupava il territorio.
2. Quando
le ricerche degli autori di atti illeciti avessero dato esito
negativo. Anche l’ordine Barbarossa (13 maggio 1941) contrario al
diritto internazionale consentiva l’arresto collettivo di ostaggi “quando le circostanze non consentano una rapida individuazione degli autori di un fatto criminoso”.
3. Che esse fossero ordinate da ufficiali superiori.
4. Che tenessero conto della proporzionalità. Nel citato caso n. 9 il tribunale di Norimberga confermò che “misure di ritorsione, qualora consentite, debbono essere proporzionate al fatto illecito commesso”. Questo
è un punto di particolare importanza dal momento che si tratta di vite
umane. Nel caso n. 7, cioè nel processo a carico dei generali List,
von Weichs e Rendulic tenutosi nel 1948, la proporzione accettata dal
tribunale di Norimberga come equa era 10:1, vale a dire fucilazione di
dieci ostaggi per ogni soldato tedesco ucciso da un atto terroristico.
5. Che
la cerchia delle persone colpite dalla rappresaglia fosse in qualche
modo in rapporto col reato commesso a danno delle forze occupanti. Che
gli ostaggi o le persone destinate alla rappresaglia fossero tratte
dalla cerchia della resistenza. Cosa questa che venne applicata anche
dai tribunali postbellici francesi.
Non venivano stabiliti i criteri per la scelta degli ostaggi, ma la scelta stessa era affidata a criteri di discrezionalità.
Il Tribunale di Norimberga a tale proposito, afferma:
“Il
criterio discrezionale nella scelta può essere disapprovato ed essere
spiacevole, ma non può essere condannato e considerato contrario alle
norme del diritto internazionale. Deve tuttavia esserci una connessione
fra la popolazione nel cui ambito vengono scelti gli ostaggi e il reato
commesso” (quindi il luogo dello attentato e/o l’appartenenza a gruppi clandestini che compiono atti terroristici).
Ricordiamo
agli immemori che il cosiddetto “tribunale” di Norimberga fu la più
grande farsa giuridica e criminale della Storia, ove si pretese di
affermare che il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn fosse opera
dei Tedeschi (fatto notorio, supportato da centinaia di testimonianze e perizie medico legali), nonché “prova della bestialità della Wehrmacht”,oltre
che accettare come fatti reali che ad Auschwitz fossero morti 4
milioni di ebrei, che i tedeschi utilizzassero gli ebrei per produrre
sapone e che le cosiddette confessioni dello SS – Obersturmbannführer
Rudolf Franz Ferdinand Höss”, comandante di Auschwitz, certificanti i
2.500.000 di gasati”, OGGI pubblicamente ammesso ottenute con la
tortura fisica e psicologica dagli stessi torturatori, fossero
veritiere… Indi, il fatto che quel cosiddetto tribunale abbia
considerato “eque” e legittime le rappresaglie germaniche, costituisce
di per sé una prova schiacciante di questa verità storica e giuridica.
Il diritto alla rappresaglia venne accolto anche dalle forze britanniche nel paragrafo n. 454 del “British Manual of Military Law“. Le forze americane a loro volta prevedevano la rappresaglia nel paragrafo n. 358 dei “Rules of Land Warfare”
del 1940. Per le truppe francesi, l’allegato I alle istruzioni di
servizio del 12 agosto 1936 consentiva all’Art. 29 il diritto di
prendere ostaggi nel caso in cui l’atteggiamento della popolazione fosse
ostile agli occupanti, e il successivo Art. 32 prevedeva la esecuzione
sommaria degli stessi ostaggi se si fossero verificati attentati.
“Nel
1947 i magistrati militari britannici, nel processo a carico di Albert
Kesselring, commentarono che nulla impediva che una persona innocente
potesse essere uccisa a scopo di rappresaglia“.
(F. J. P. Veale, Advance to barbarism (ed. The Mitre Press, Londra
1968) e dello stesso autore, Crimes discretely veiled (ed. IHR,
Torrance, California, 1979)
Interessante anche ricordare alcune rappresaglie alleate, minacciate o realizzate:
· A
Stoccarda il generale francese Lattre de Tassigny minacciò la
uccisione di ostaggi tedeschi nel rapporto di 25:1 se fossero stati
uccisi soldati francesi.
· A Marcktdorf erano previste fucilazioni di ostaggi nel rapporto di 30:1.
· A
Reutlingen i francesi uccisero 4 ostaggi tedeschi affermando che era
stato ucciso un motociclista che in realtà era rimasto vittima di un
incidente.
· A
Tuttlingen, i francesi annunciarono il 1° maggio 1945 che per ogni
soldato ucciso sarebbero stati fucilati 50 ostaggi. (L’originale del
manifesto appare nel libro di Spataro che citiamo sotto)
· Ad Harz le forze americane minacciarono di esecuzione punitive nel rapporto di 200:1.
· Quando
il generale americano Rose, nel marzo del 1945, rimase vittima di una
imboscata, gli americani fecero fucilare per rappresaglia 110 cittadini
tedeschi. (In realtà Rose era stato ucciso in un normale
combattimento, soldati contro soldati e la imboscata è pur sempre un
atto di guerra se si portano le mostrine e la divisa).
· A
Tambach, presso Coburg, in data 8 aprile 1945 il tenente americano
Vincent C. Acunto fece fucilare 24 prigionieri di guerra tedeschi e 4
civili; accusato di omicidio venne assolto.
· A
Berlino l’Armata Rossa che l’occupava minacciò fucilazione di ostaggi
nel rapporto di 50:1. Il testo del comunicato era il seguente: “Chiunque
effettui un attentato contro gli appartenenti alle truppe
d’occupazione o commette attentati per motivi di inimicizia politica,
provocherà la morte di 50 ex appartenenti al partito nazista“. (Pubblicato sul quotidiano Verordnunsglatt di Berlino in data 1 luglio 1945).
· A
Soldin, Neumark, i russi andarono al di là di questa cifra: furono
fucilati 120 cittadini tedeschi perché un maggiore russo era stato
ucciso nottetempo da una guardia tedesca (che poi risultò essere stato
ucciso perché il russo gli stuprò la moglie (Mario Spataro, Dal caso
Priebke al nazi gold, Ed. 7° Sigillo, vol. 2, Pag. 913).
· Una
delle più gravi fu la strage di Annecy del 18 agosto 1944, in un campo
di prigionieri tedeschi gestito da americani e francesi; proporzioni
di 80:1(Ib).
· A Bengasi, gli inglesi di Montgomery contro gli italiani applicarono quella del 10:1 (Ib.).
Tecnicamente
possono essere equiparate ad azioni di rappresaglia anche gli stupri di
massa eseguiti come vera e propria tattica di guerra decisa a tavolino
nei confronti della popolazione civile italiana da parte degli
Alleati. Ad esempio, nell’area del Cassinate e del Sorano furono
violentate sessantamila persone.
Il generale Alphonse Juin, a capo del
corpo di spedizione francese composto da circa 130 mila unità, per lo
più formate da marocchini, algerini, tunisini e senegalesi, diede ai
suoi soldati cinquanta ore di “libertà”, durante le quali si
verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione
denominate appunto marocchinate. Prima della battaglia il generale
avrebbe fatto alla truppa questo discorso:
«Soldati!
Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se
vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case,
c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà
vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e
passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per
cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là
del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà
conto di ciò che prenderete».
A
seguito delle violenze sessuali molte persone furono contagiate da
sifilide, gonorrea ed altre malattie veneree, e solo l’intervento della
penicillina americana escluse una vasta epidemia in quelle zone. C’è da
dire che le violenze non si limitarono alle donne: ci furono centinaia
di uomini e ragazzi sodomizzati e alcuni impalati vivi. Le violenze si
estesero talvolta a bambine di 7 – 8 anni per arrivare a vecchie di 80
anni e più.
Ovviamente, né
lo schifoso generale francese, né qualcuno dei suoi sottoposti, né
nessun altro autore di rappresaglie facente parte degli eserciti
alleati, fu mai sottoposto a processi, né tanto meno condanne!
Ma torniamo alle Fosse Ardeatine.
Coerentemente
con le Leggi militari già citate, nessun Tribunale italiano fu infatti
in grado di imputare a Kappler l’atto di rappresaglia; la condanna di
quest’ultimo, infatti, si basò solo e soltanto sul numero delle
vittime. Nelle Fosse Ardeatine furono infatti ritrovati i corpi di 345
persone e non i 330 che ci si aspettava. Dieci di quelli in
soprannumero potevano essere giustificati con la morte di un ulteriore
soldato tedesco avvenuta prima della rappresaglia, gli altri cinque no.
Per inciso, se si fossero aspettati alcuni giorni, le persone giustiziate legalmente sarebbero state molte di più, visto che nei giorni successivi morirono ulteriori soldati tedeschi, portando il totale dei morti a 46.
Per
completezza aggiungo che non fu mai trovata la lista di coloro che
dovevano essere fucilati e che, di sette corpi, non si riuscì a
stabilire l’identità.
Dunque, è bene ribadirlo con forza per sottolineare l’infamia del complotto giudaico – comunista a danno di Priebke: nel
1948 ebbe luogo il processo per la rappresaglia delle Fosse Ardeatine;
Kappler venne condannato per aver fatto fucilare 5 persone in più,
anche se la responsabilità non era stata sua. Tutti i sottoposti di
Kappler, compreso Priebke (che non venne mai citato e preso in
considerazione in quel processo), vennero assolti il 21 luglio 1948,
per la circostanza attenuante di aver obbedito ad un ordine.
L’assurdo
giuridico del processo a Priebke consiste nel fatto che venne
condannato nel 1996 per tutti i 335 fucilati mentre era stato assolto
nel 1948, e inoltre venne condannato a una pena superiore a quella
inflitta al suo comandante Kappler.
Tornando alla lista che portò alla fucilazione di 5 persone in più (anche se dovremmo parlare di 125 fucilati in meno,
considerando i soldati morti nei giorni successivi, dei quali Kappler
non riferì ad Hitler per evitare l’aggravarsi della rappresaglia), la
lista dei condannati fu scritta in gran parte dai tedeschi, ma mancando
alcuni nomi fu chiesto di completarla al questore di Roma, Caruso.
Questi scrisse 55 nomi (sembra anche i cinque in più) scelti tra i
reclusi.
Nel 1944 fu fatto il processo contro Caruso. Il primo
testimone contro di lui fu Donato Carretta, direttore delle carceri da
cui furono prelevati i condannati. Caruso fu condannato a morte il 21
settembre e subito fucilato. Carretta
era tranquillo. Aveva un certificato di benemerenza rilasciato da
Nenni ed era in contatto con il CLN. Ma venne il suo turno e fu
accusato di essere il responsabile di quelle 56 morti. Incredulo fu
portato in Tribunale dove, durante l’udienza, una donna balzò in piedi
urlando come un’ossessa: “Ha fatto morire mio figlio, è stato lui a mandarlo alle Ardeatine, deve pagare, uccidetelo (…)”.
La
folla travolse i carabinieri, Carretta fu afferrato da cento mani,
sollevato da terra, spinto a calci e pugni verso l’uscita. Venne
trascinato fino al bordo del Lungotevere; intanto sopraggiungeva un tram
e l’ infelice fu sdraiato sulle rotaie perché il veicolo lo
straziasse, parendo troppo dolce per lui qualsiasi altra morte. Il
tramviere fermò il tram, tolse la manovella dal comando e scese. Agli
energumeni che gli si scagliarono addosso disse che lui non era un
assassino, e alle accuse di essere invece un fascista rispose mostrando
la sua tessera del partito
comunista: si chiamava Angelo Salvatori e credo che il suo nome
dovrebbe essere ricordato. Carretta, ancora in sé, fu scaraventato nel
Tevere dal Ponte Umberto. Cadde in acqua, si afferrò ai bordi, ma gli
schiacciarono le mani con i piedi, sicché si abbandonò alla corrente.
Due uomini saltarono su una barca, lo raggiunsero e cominciarono a
colpirlo con i remi sulla testa. L’ infelice urlava e aveva ancora la
forza di tentare di salvarsi, nuotando e lasciandosi andare sott’ acqua
per evitare i colpi. Ma ogni volta che riemergeva il linciaggio riprendeva,
finché una larga chiazza rossa di sangue intorno al suo corpo fece
intendere che era morto. Il fiume trascinava via il cadavere, ma al
Ponte Sant’ Angelo riuscirono a tirarlo a riva, la folla non era ancora
sazia del suo orrendo pasto. Si udiva gridare “A Regina Coeli, a Regina
Coeli”, perché si voleva che Carretta avesse l’estrema punizione di
essere esposto là dove avrebbe commesso i suoi delitti. Arrivati alla
prigione, Carretta seminudo, sfigurato, ricoperto di sangue, con la
testa maciullata, fu crocifisso al portone. Le urla, la marea
di gente raccolta nella strada, i colpi, le esplosioni selvagge d’ un
giubilo bestiale fecero affacciare alla finestra due donne. Erano la
moglie e la figlia di Carretta e questo completò la ferocia di una scena
che si apparenta nella vergogna e nell’orrore soltanto alla macelleria
messicana di piazzale Loreto.