Il mondo per Wittgenstein viene ingabbiato nel linguaggio, ovvero nel
logos, un modello logico che vanifica metafisica e scetticismo.
L’assioma sposato da Melis avvalora la tesi che per dare un
senso al mondo occorre dare un “non senso a Dio” collocando la morte in
una “non definizione”.Essa di fatto non può considerarsi un evento
della vita, in quanto la morte non si vive. Perciò:“nulla dire se non ciò che può
dirsi”. E mi perdoni Melis, ma la citazione che mi ha fatto amare
Wittgenstein per la sua esplicita semplicità è quella in cui ritiene
che le sue opere si dividono in due parti; quella che (da credente di fede cristiana e da grande filosofo pragmatico e antimentalista) ha scritto dopo la Grande Guerra con il suo "Tractatus Logico-Philosophicus", dove confessa quell'angoscia che deriva dalla consapevolezza di vivere su quel filo di rasoio che ci separa tra il certo e l'ignoto della morte, e
quelle che non ha scritto, queste ultime senza ombra di dubbio le più
importanti.
E’ comprensibile allora come il dipanarsi del saggio sia un incalzante
ed ossessivo dibattito con il Cristo e la Trinità, dove le domande
paiono sempre più esaurienti delle risposte di questo Dio chiedente
perdono perché non capisce che l’ossequio ad una morale religiosa
inficia l’azione morale pura, quella che è vera sostanza in quanto
autonoma dal ricatto della salvezza. Quindi non è Dio la fonte
dell’azione morale, ma l’uomo etico, quello contemplato negli imperativi
categorici di Kant dove il giudizio morale non è basato sul sentimento ma sulla ragione. Tuttavia Melis, pur accettando la distinzione
kantiana della morale dal diritto naturale e l’autonomia della morale e
del diritto naturale dalla religione, si appella coerentemente, contro
Kant, al filosofo empirista Hume per affermare che il giudizio morale è
fondato sul sentimento e non sulla ragione. Ma, al contrario di Kant, che afferma l'esistenza del diritto
naturale, pur attribuendolo antropocentricamente solo all’uomo, Hume
dal canto suo nega l’esistenza di qualsivoglia diritto naturale.
Melis risolve la diatriba forgiando una nuova simbiosi tra i pensieri di
Kant e Hume, ed estende il diritto naturale a tutti gli animali sulla base dell’evoluzione
biologica da una comune origine di tutte le forme di vita.
Dalla nuova, puntuale e rispettosa lettura di tutti i passi più
importanti dei Vangeli e delle Epistole di Paolo l’autore trae la
conclusione, solo apparentemente paradossale, che i Vangeli furono
scritti per uomini bambini –“da nutrire a latte, non di cibo solido” (S. Paolo, Lettera1 ai Corinzi, 3,1) -
perché fossero intimoriti e distolti dal peccare con la paura di una
condanna da parte di Dio, mentre avranno maggiori meriti di fronte a Dio i non credenti che rispettino le norme della giustizia fondate
sulla legge naturale (da cui discende il diritto naturale), e non per
timore di una condanna eterna, per cui, come aveva già annunciato San
Paolo (Lettera ai Romani, 2,14) anche i pagani si sarebbero salvati se
rispettosi della legge naturale, perché “essi mostrano che quel che la
legge comanda è iscritto nei loro cuori per la testimonianza che rende
loro la coscienza”.
Da qui l’inutilità del credere in Dio e nel proselitismo ai fini della
salvezza. E si sa che tutte le Epistole di Paolo precedono storicamente
la stesura di tutti i Vangeli.
Melis coglie due aspetti nel cristianesimo, quello cattolico della
fratellanza (nella carità) e quello protestante della non fratellanza,
cioè dell’individualismo.
Il principio di non fratellanza, che ha messo le prime radici con il
calvinismo, è il derivato dalla società capitalistica che vede nel
successo del singolo la predestinazione alla salvezza autentica. E al di
là della distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo l’autore
spiega documentatamente, sulla base di importanti osservazioni storiche
sulla rivoluzione scientifica del ‘600, perchè questa sia avvenuta, e
potesse avvenire, solo nell’Europa cristiana tramite il Logos greco,
fondamento della razionalità della natura, tradotto nel Verbo nella
trinità, in cui la ragione (il Verbo o il Figlio) vincola la volontà del
padre (la potenza). Pertanto non sarebbe potuta svilupparsi all’interno
della tradizione ebraica o islamica, dove la volontà divina, in assenza
di trinità, appare come puro arbitrio svincolato dalla ragione.
Gli argomenti trattati sono davvero tanti e non mancheranno di
accendere discussioni. Le accuse ad un testo che giudica San Paolo il
pluri-assassino che partecipò alla lapidazione di Stefano, il primo
martire cristiano ne è solo un piccolo esempio. La citazione rimanda
all’Anticristo di Nietzsche, che mise in discussione non il figlio di
Dio -riconoscendogli anzi il messaggio morale fondante- ma proprio San
Paolo di Tarso, colpevole di averne inventato la Resurrezione.
Inutile dire che si tratta di un saggio difficile, ma non pretende una
particolare dimestichezza con concetti filosofici od una buona
conoscenza dei testi evangelici, giacchè l’autore ha curato
un’esposizione tenendo conto anche dei lettori che non avessero alcuna
conoscenza di essi. Il libro è l’allenamento alla curiosità ed alle
argomentazioni delicate trattate, che in definitiva riguardano tutti noi: “che cosa so di Dio e del
fine vita?”. In fondo la Terra è un grande cimitero, miliardi di esseri soggiacciono ai nostri piedi ed è davvero il caso di dirsi: non ne usciremo vivi nemmeno noi.
Donata Bina
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