sabato 28 settembre 2019

SI E' PADRONI DELLA PROPRIA VITA. DUNQUE SI HA IL DIRITTO ALLA MORTE

Lo Stato non deve intromettersi nella scelta di morte quando uno per ragioni proprie sceglie di por fine alla propria vita. Anche indipendentemente dalle condizioni di sofferenza a causa di una malattia. Altrimenti la vita dovrebbe appartenere prima allo Stato che a se stessi. Ho sentito dire in questi giorni tanti luoghi comuni che sono privi di senso: come il dire che la vita è un dono, la vita è sacra. La vita non può essere un dono perché nessuno ha chiesto di nascere: perché vi sia un dono è necessario che vi siano un donatore e un ricevente. Ma in questo caso manca il ricevente, se non si dica scriteriatamente che il ricevente è uno dei milioni di spermatozoi che corrono verso l'ovulo lasciando che tutti gli altri muoiano correndo inutilmente verso di esso. La gente fa figli per sbaglio o per egoismo perché ha bisogno di illudersi di sopravvivere nei figli e di sottrarsi al non senso della vita creandosi delle responsabilità nei riguardi dei figli non capendo che "donando" la vita si dona la morte. E così continua la staffetta della morte. Giovanni Paolo II nell'Evangelium vitae rivolgendosi alle donne che avevano abortito scrisse che i loro mancati figli erano stati accolti "nella gloria di Dio". Ma allora è meglio essere abortiti per non correre il rischio di non meritare, vivendo, la gloria di Dio. Aggiungo alcune pagine dal mio libro Io non volevo nascere. Un mondo senza certezzee senza giustizia. Filosofi odierni alla berlina.
La vita appare un bene soltanto perché, una volta nati, per dirla con il filosofo Hobbes (pref. del De cive), la morte appare "il peggiore dei mali". La vita è soltanto la condizione biologica che porta ogni organismo, una volta nato, a conseguire dei beni, cioè il suo benessere (Aristotele, Etica nicomachea, I). "Non è un bene il vivere, ma il vivere bene" (Seneca, Lettere a Lucilio, 70). Il bene, inteso come benessere è causa dei luoghi comuni - stronzate - della morale. Come direbbe il filosofo Frankfurt (Stronzate, Rizzoli 2005). Le stronzate sono luoghi comuni privi di senso linguistico. 
Ha scritto Oriana Fallaci (Lettera a un bambino mai nato), dopo avere abortito involontariamente e immaginando di parlare con il figlio, che le dice: 
"Non appena compresi che tu non credevi alla vita, io mi permisi la prima ed ultima scelta: rifiutare di nascere...Si nasceva perché altri erano nati e perché altri nascessero...Se non accadesse così, mi dicesti, la specie si estinguerebbe. Anzi, non esisterebbe. Ma perché dovrebbe esistere, perché deve esistere? Lo scopo qual è? Te lo dico io: un'attesa della morte, del niente. Nell'universo che tu chiamavi uovo lo scopo esisteva:era nascere: Ma nel tuo mondo lo scopo è soltanto morire: la vita è una condanna a morte. Io non vedo perché avrei dovuto uscire dal nulla per tornare nel nulla". E il mancato padre aggiunge: "Ti scrivo per congratularmi, per riconoscere che hai vinto...Sei riuscita a non cedere al bisogno degli altri, incluso il bisogno di Dio...Dio è un punto esclamativo con cui si incollano tutti i cocci rotti: se uno ci crede vuol dire che è stanco, che non ce la fa più a cavarsela da sé. Tu non sei stanca perché sei l'apoteosi del dubbio...E solo chi si strazia nelle domande per trovare risposte va avanti. Solo chi non cede alla comodità di credere in Dio per aggrapparsi ad una zattera e riposarsi può incominciare di nuovo: per contraddirsi di nuovo, smentirsi di nuovo, regalarsi di nuovo al dolore".         
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Non sapremo mai la verità sull’universo. Rimane inoltre la domanda suprema: perché l’essere piuttosto che il nulla? Rimarremo sempre nel campo delle ipotesi. Morremo tutti senza sapere se siamo soli sulla Terra o vi siano altre forme di intelligenza su altre galassie. Ignorabimus. Mi fece, d’altronde, impressione una frase di Ludwig Büchner (Forza e materia): È forse tremendo il pensiero che dopo la morte vi è il nulla o non è forse più tremendo il pensiero che, divenendo immortali, non possiamo più morire?
  Pensateci bene. Chi riesce a capire una vita immortale fatta di inazione, di pura inattività, di sola e noiosa contemplazione di Dio? Forse allora conosceremo tutta la verità sull’universo. Ma che noia! Forse è preferibile il nulla.
  Io non volevo nascere. Non deve nascere chi è condannato alla disperazione sapendo che lascerà la vita senza poter sapere alcunché della sua vera origine, nel senso che non sapremo mai se essa abbia un senso. Non deve nascere chi sa di dover subire l’alternativa: o la disperazione o l’incoscienza degli ebeti, di coloro che parlano di “dono della vita”. 

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Non deve nascere chi, come me, ha maturato delle domande che non potranno mai avere una risposta. E la domanda suprema nasce con Parmenide: perché l’essere piuttosto che il nulla? La risposta di Parmenide fu tautologica: il pensiero è pensiero dell’essere. Il nulla non può essere nemmeno pensato. Punto e basta. No. Non è così. Infatti dopo circa 2400 anni Heidegger (Essere e tempo, 1927) rispose: il nulla esiste. Esso è l’anticipazione della morte, cioè del nulla, in vita. Per chi muore è come se il mondo si annientasse con lui. Non esiste più l’universo. Esiste il nulla. La storia della filosofia è una storia o di oblio di questa domanda o di risposte che non danno alcun senso alla vita. Si è svolta o nascondendo la testa sotto la sabbia per non vedere la domanda o la ha aggirata ritenendola priva di senso. No, signori filosofi. La domanda rimane e non potete far finta che non esista. Soltanto quelli che non si pongano tale domanda possono vivere felici ma incoscienti. Gli altri debbono riconoscere di essere dei disperati, come me, anche se non vogliono riconoscerlo.
Chi si suicida non riesce più a conseguire dei beni dalla vita. Per lui si forma un corto circuito causato dall'impossibilità di conseguire ulteriormente dei beni a causa del prevalere di un danno, che può essere anche la consapevolezza della mancanza di senso della vita. Le religioni pongono riparo alla disperazione che può nascere dal prevalere del sentimento oscuro della mancancanza di senso della vita sulla naturale tendenza dell'organismo a conservarsi in vita. Infatti gli animali non umani non si suicidano.   

Heidegger ha distinto tra morire e perire. Gli uomini muoiono (e nel termine morior vi è il suo contrario, orior). Gli animali non umani periscono perché la loro vita è un per-ire, un andare per senza meta e progetto di vita. Solo per gli animali non umani la vita ha un senso, aggiungo io, perché non si pongono la domanda "che senso ha la vita?". 

4 commenti:

Sergio ha detto...

"Lo Stato non deve intromettersi nella scelta di morte quando uno per ragioni proprie sceglie di por fine alla propria vita."

Non sono tanto d'accordo. L'individuo da solo non può sopravvivere, ha bisogno del gruppo, della società che gli fornisce le cose di cui ha assolutamente bisogno, a cominciare dalla difesa (ma gli fornisce anche l'energia, l'istruzione, la sanità ecc.). E in compenso lo Stato, la comunità, esige da lui alcune cose: il rispetto delle regole del gruppo, il servizio militare, le tasse ecc. Lo Stato non può tollerare che l'individuo si sottragga ai suoi impegni, per es. la partecipazione alla difesa. Per gli Israeliani, costantemente minacciati, il servizio militare è più che un obbligo una necessità e gli obiettori sono pochi. Insomma, non si vive e sopravvive da soli, gli altri - il gruppo, la collettività, lo Stato - esigono qualcosa, addirittura la vita in casi estremi come in guerra - per la sopravvivenza dello Stato. C'era perciò una volta una certa logica nel punire il tentativo di suicidio. C'è una certa logica nella Chiesa di rifiutare il suicidio. Non è tanto la questione del dono, della sacralità della vita che sarebbe un bene non disponibile, bensì la questione più materiale e concreta di impedire all'individuo di sottrarsi agli obblighi verso il gruppo, la società. Infatti col battesimo l'individuo diventa letteralmente proprietà della Chiesa (come è affermato anche nel Nuovo Catechismo). La Chiesa, ma anche il potere tout court, cioè lo Stato, vuole dire l'ultima parola sulla sorte dell'individuo.

Dunque dire "la vita è mia e ne faccio, ne posso fare ciò che voglio" non è a ben vedere legittimo. Sarebbe legittimo se io vivessi solo in un deserto e non avessi alcun obbligo verso altri, del resto inesistenti. Una volta in società, in gruppo, ci sono regole da rispettare per la convivenza e sopravvivenza.

Ovviamente noi oggi consideriamo legittimo sottrarci a inutili sofferenze con la dolce morte e anche lo Stato lo consente, anzi può facilitarla per convenienza (a che pro mantenere in vita dei rottami, individui inutili che costano soltanto e non possono offrire più niente alla società?). La Chiesa invece insiste ancora perché vuole rivendicare un suo ruolo e lo fa appellandosi al fantomatico Dio in cui non crede ormai quasi più nessuno (Bergoglio è sicuramente ateo, non per niente è un gesuita, cioè un falso).

Il mio discorso può apparire contraddittorio. Vorrei solo sottolineare che non si può semplicemente dire: la vita è mia e ho diritto di farne ciò che voglio. Bisogna mettersi d'accordo, e oggi c'è in occidente un sostanziale accordo nel ritenere lecito sottrarsi a sofferenze inutili accorciando la vita o quel che ne resta.

Pietro Melis ha detto...

Caro Sergio
nel suo lungo commento colgo un errore di logica. Lo Stato può avere dei diritti sull'individuo, per esempio richiedendogli di pagare le tasse. Ha diritto sui vivi (quando i vivi a sua volta hanno diritti sullo Stato che li deve difendere ed assistere quando non siano in condizioni di avere una vita autosufficiente). Ma non ha più diritti sui morti. Tutto il suo ragionamento è fondato su una fallacia: che l'individuo nasca in funzione dello Stato e non sia invece lo Stato in funzione dell'individuo. Il giusnaturalismo ci insegna che lo Stato nasce sulla base di un tacito e sottinteso patto sociale: l'individuo rinuncia al suo stato di natura e perciò anche alla sua libertà naturale per PROPRIA convenienza,per avere dallo Stato una difesa in modo che non sia il più forte a prevalere sul più debole, come capita nel mondo animale. Dunque lo Stato in funzione dell'individuo e non il contrario. Lo Stato non può impossessarsi della vita dell'individuo e ciò rimane teoricamente valido anche nei regimi dittatoriali. Tutto ciò è spiegato meglio in Hobbes (che pure giustificava l'assolutismo di Stato). Una cosa è la libertà naturale, a cui l'individuo rinuncia per propria convenienza (cioè per la difesa della propria vita da parte dello Stato, un'altra cosa è la vita. Gli individui rinunciano a farsi giustizia da sé (come nello stato di natura) sulla base di un patto che ha solo la funzione di difendere la vita dei cittadini. Dunque la vita non appartiene allo Stato ma rimane proprietà dell'individuo se lo Stato è nato per difendere la vita del cittadino. Se la deve difendere non può esserne proprietario. Si ha cessione della propria libertà (in vari gradi sino all'assolutismo di Stato) ma non si ha mai cessione della propria vita.
Mi porti l'esempio di uno Stato dove il tentativo di suicidio sia reato. E anche se esistesse sarebbe una contraddizione.

Sergio ha detto...

"Mi porti l'esempio di uno Stato dove il tentativo di suicidio sia reato. E anche se esistesse sarebbe una contraddizione."

Ricordo di aver letto che un paio di secoli fa chi scampava a un tentativo di suicidio veniva massacrato di botte. Il suicidio era comparato a un omicidio, reato gravissimo. Non per niente la Chiesa rifiutava la sepoltura dei suicidi in terra consacrata (cimitero). Il suicida era un reprobo, anche per lo Stato.
Oggi naturalmente il suicidio non è più considerato reato dallo Stato (penso in tutti gli Stati). La Chiesa invece continua a considerare l'atto come colpa gravissima che potrebbe compromettere la salvezza eterna (per chi crede in queste cose - ma come avrà appreso adesso Bergoglio ha cancellato anche l'inferno). Il potere assoluto (tale è ancora la Chiesa cattolica) considera l'individuo sua proprietà, perciò gli nega la libertà di suicidarsi. Oggi lo Stato riconosce tale libertà, specie per situazioni estreme, la Chiesa invece continua a ripetere che la vita è un bene indisponibile essendo un dono di Dio. Ne fa una questione di principio, ma credenti e non credenti non ci fanno più caso, la Chiesa non ha più nessuna autorità o solo per quei pochi in occidente che ancora gliela riconoscono.

Pietro Melis ha detto...

Lasci peredere laChiesa, che oggi non nega funerali in chiesa anche per i suicidi. Le riporto da Wikipedia quanto si può leggere scrivendo su Google dei famosi versi di Dante.
Libertà va cercando, ch'è sì cara è un verso di Dante (v. 71), del I canto del Purgatorio della Divina Commedia: sono le parole rivolte da Virgilio a Catone Uticense (custode dell'accesso al monte del Purgatorio) per presentargli Dante in quanto "cercatore di libertà"; le successive (come sa chi per lei vita rifiuta, v. 72), sono invece riferite al suicidio di Catone.

Il giudizio dantesco sul suicidio, esplicitamente condannato nel canto infernale di Pier della Vigna, è qui capovolto come eccezione, in virtù dello scopo eroico di libertà "politica" di quel gesto di Catone (come accennato nel De Monarchia, II 5, 15); la libertà ricercata da Dante è invece quella dal male, intrinseco nella condizione umana[1].