Sono in attesa della sentenza della Cassazione dopo 25 anni di una vicenda giudiziaria assurda, con giudici disonesti collusi con il liquidatore. Ciò che segue è soltanto una piccola parte delle pagine che irritualmente ho inviato al giudice relatore della sentenza in Cassazione perché non gli sfugga che tutto il processo è nullo per violazione del principio del contraddittorio.Ho analizzato tutte le contraddizioni a cui sono dovuti arrivare i giudici del Tribunale e della Corte d'Appello pur di salvare un disonesto liquidatore che mi vendette la mia proprietà del 66% per precedere la revoca della sua nomina di liquidatore perché la sua nomina fu definita abnorme, dato il mio documentato dissenso.Il peggiore individuo con cui ebbi a che fare nella mia vita. E giudici corrotti.
Sono stato vittima di due fratelli che volevano costringermi a vendere anche la mia quota di socio di maggioranza (66%) per sanare i loro debiti personali dopo avere avuto soltanto io una vittoria anche in Cassazione contro i soci che avevano truffato mio padre essendomi occupato solo io della vicenda giudiziaria ereditata da mio padre. I fratelli avevano fatto rinuncia all'eredità di mio padre, e la fecero fare anche a mia madre (facendomi così passare al 66% delle azioni sociali), credendo che la causa fosse ormai persa dopo che mio padre aveva perso sulla prima domanda (annullamento della vendita del terreno e dei magazzini alla Cinecorallo a causa dell'inadempimento della società). Mio padre perse sulla prima domanda a causa di un avvocato di Roma suo amico e pasticcione tremendo. I fratelli, come detto, avevano fatto rinuncia all’eredità di mio padre (e l’avevano fatta fare anche a mia madre) anche perché gli altri immobili erano stati intestati a mia madre. Per questo ereditarono 1/3 dalla parte di mia madre, mentre io alla parte di mio padre aggiunsi 1/3 dalla parte di mia madre arrivando così al 66%. Rimaneva la seconda domanda (risarcimento dei danni richiesta ai soci e non alla Società ritenuta falsamente adempiente). Mio padre e mia madre sarebbero diventati proprietari unici del cinema (salvo indennizzo, ma meno il risarcimento danni) se avessero fondato la richiesta di nullità o annullamento della vendita sul fatto che arbitrariamente il loro apporto era stato ridotto da 25 milioni di lire a 13 milioni addebitando ad essi il costo di lavori che sarebbero stati fatti nell'interesse del bar tabacchi di proprietà dei miei genitori, mentre erano stati fatti necessariamente a favore del cinema, confinante con il bar tabacchi che faceva un unico ingresso con il cinema nelle ore di proiezione. Ma ammesso, e non concesso, che i lavori fossero stati fatti a vantaggio del bar tabacchi, l'importo del loro costo, per altro facente parte di una causa parallela, doveva essere richiesto a parte, non diminuendo il valore dell'apporto valutato in 25 milioni di lire da tradurre in azioni della Cinecorallo (S.p.A. bastando allora un capitale di un milione).
Il contratto sociale prevedeva che ogni gruppo di soci (Melis, Nurchi e Angius) avesse 1/3 delle azioni della Cinecorallo. A costruzione ultimata si sarebbero fatti i dovuti conguagli perché ogni gruppo di soci avesse 1/3 delle azioni con l’aumento del capitale, che doveva corrispondere al costo totale del cinema. Ma l'intento degli altri soci (meglio dell’amministratore, che aveva sposato una Nurchi) era quello di estromettere i Melis dalla società riconoscendo ad essi 13 milioni in contanti. Mio padre morì disperato nel 1977 a 86 anni non riuscendo a vedere la fine della vicenda. Della domanda di risarcimento dei danni si era già occupato l'avv. Beniamino Piras, a cui si era rivolto mio padre dopo avere sostituito l’avvocato pasticcione che era suo vecchio amico abitante in Roma. L'avvocato Piras (uno dei migliori ricordi della mia vita, non scriveva una riga senza la mia presenza) era stato messo fuori strada da mio padre, di cui si era fidato, mi disse, perché era una persona colta. Ma mio padre non gli disse che l'apporto era stato ridotto da 25 milioni a 13 milioni. Quando ci presentammo io e i due fratelli nello studio dell'avv. Piras, questi ci disse che la causa era ormai persa essendo stata persa la domanda di nullità o annullamento della vendita da cui dipendeva la seconda domanda, di risarcimento danni richiesti alla società, essendo questa risultata in giudizio, se pure falsamente, adempiente al pagamento in azioni dei 25 milioni di lire che erano il valore dell'apporto dei miei genitori conferito nella Cinecorallo, consistente nel terreno su cui sarebbe stato costruito il cinema e nei due magazzini che sarebbero diventati l'ingresso e l'uscita del cinema. Inoltre era difficile, secondo l'avv. Piras, contestare il costo della costruzione risultante dalla perizia di ufficio. Ma l'avvocato Piras non sapeva, perché mio padre, colpevolmente, non glielo aveva mai detto, che i giudici avevano ritenuto per vero sia in Tribunale che in Corte d'Appello che ai miei genitori fosse stato riconosciuto il valore dei 25 milioni come apporto in società perché i giudici non avevano controllato il bilancio finale dopo l'aumento del capitale, a cui i miei genitori non aderirono e da cui risultava che la società era stata inadempiente perché era stato ridotto da 25 milioni a 13 milioni il valore dell'apporto di mio padre e mia madre. Pertanto l'avv. Piras, considerando anche che la perizia di ufficio dava ragione ai soci nel calcolo del costo della costruzione, ci disse di accettare ciò che i soci di mio padre e mia madre ci avrebbero dato uscendo dalla società. Praticamente i 13 milioni in contanti posti in bilancio, e fuori dalla società. I due fratelli mi domandarono che cosa avessi deciso di fare. Io non accettai il consiglio dell'avvocato Piras prima di avere conoscenza per la prima volta della causa, e mi buttai su una montagna di fascicoli rubando molto tempo alla Facoltà dove insegnavo storia della filosofia. Dopo un mese scoprii come era stato fatto l'aumento del capitale. Aumentando le spese di costruzione del cinema e riconoscendo ai miei genitori un apporto in società di soli 13 milioni. Già mio padre, ingegnere, aveva capito che vi era stato un aumento del costo della costruzione e per questo si era rivolto all'avvocato Piras. Ma il perito di ufficio, ingegner Iolao Farci, era amico di uno dei fratelli Nurchi, soci della Cinecorallo, e aveva aggiunto voci (come l’utile di impresa) che non dovevano essere aggiunte perché i lavori non erano stati fatti in appalto ma in economia dagli stessi soci, essendo essi stessi costruttori. Mio padre aveva fatto in tempo ad avere conoscenza della perizia di ufficio e per questo si era rivolto all'ingegnere Domenico Cellesi, che fece una puntuale perizia di parte diminuendo il costo della costruzione riportandolo da circa 50 milioni di lire (degli anni 1961-62) a circa 38 milioni. Per questo i miei genitori rifiutarono di aderire all'aumento di capitale iniziale di un milione e rimasero a un terzo del capitale sociale iniziale di un milione. Il contratto sociale prevedeva che a costruzione ultimata si facessero i dovuti conguagli tra i soci perché ogni gruppo di soci avesse 1/3 delle quote sociali. Mio padre non fece in tempo a produrre in giudizio la perizia di parte dell'ingegner Cellesi perché morì prima a 86 anni. Con il senno di poi penso che la sua morte abbia posto fine agli errori da lui commessi in sede di giudizio. Io ero disperato perché non riuscivo a trovare la perizia di parte dell'ing. Cellesi, di cui mio padre mi aveva parlato in uno degli intervalli di lucidità negli ultimi due mesi della malattia. La trovai dopo che in casa di amici di una mia amica, fu fatta, pur contro il mio totale scetticismo, una "seduta spiritica" con un cartellone dove vi erano in cerchio tutte le lettere dell'alfabeto. Il bicchierino, sfiorato da un dito dei presenti, si mosse dal centro per toccare in successione le lettere che composero la seguente frase: cerca in un tiretto del comò della mia stanza in una busta gialla dentro una cartella azzurra. Mi vennero dei brividi quando, tornando a casa dopo la mezzanotte, svegliai mia madre accendendo la luce per aprire, pur scettico, tutti cassetti del comò, e scoprii che la perizia dell'ingegner Cellesi si trovava inspiegabilmente sotto tutta la biancheria di mia madre in una busta gialla dentro una cartella azzurra. Preso dallo sbigottimento gridai: papà, allora sei vivo. Cadde in crisi il mio ateismo-agnosticismo. Della perizia l'avv. Piras non aveva avuto ancora conoscenza. Quando all'avv. Piras spiegai come era stato fatto l'aumento del capitale, collegando il costo fraudolento della costruzione del cinema all'aumento del capitale, l'avv. Piras si mise le mani sui suoi pochi capelli e mi disse che si era fidato di mio padre che mai gli disse che l'apporto in società era stato ridotto da 25 milioni a 13 milioni per lavori fatti nell'interesse dell'adiacente bar tabacchi di proprietà dei miei genitori, mentre invece erano stati fatti necessariamente nell'interesse del cinema, a parte l'aumento del costo della costruzione. Purtroppo, ci disse l'avvocato Piras, non si può più fare causa alla società perché risulta adempiente, anche se falsamente (con una sentenza passata in giudicato in Corte d’Appello), al pagamento in azioni della società (allora la Cinecorallo era una S.p.A.) dei 25 milioni, ma si può fare causa ai soci. In Corte d'Appello trovai un giudice, Oliviero Mighela, che, sicuro psicologicamente, prima che giudiziariamente, che mio padre era stato vittima di soci disonesti smontò la perizia d'ufficio riducendo da 50 milioni a 38 milioni il costo della costruzione sulla base della perizia di parte. Avendo preso atto che i miei genitori non avevano, pur giustamente, aderito all’aumento del capitale, ad essi dovevano essere riconosciuti i 25 milioni rimasti fuori del capitale, e con la rivalutazione dell’importo su cui si sarebbero calcolati gli interessi.
Dopo la mia vittoria anche in Cassazione come controricorrente (rel. Gianfranco Bibolini, che fece una sentenza di 40 pagine), i soci furono condannati in Tribunale (sentenza 738/1991, qui riportata) a pagare un miliardo di lire (come conteggiato dal Tribunale rivalutando i 25 milioni con l'aggiunta degli interessi dopo la vittoria in Cassazione, e allora, a compensazione del miliardo di lire in contanti, i soci Nurchi, disfattisi dell'amministratore della Cinecorallo loro cognato e rispedito in Sicilia, preferirono, come i soci eredi Angius, cedere tutte le quote sociali agli eredi Melis. Dalla citata sentenza del Tribunale risulta in sintesi la precedente vicenda giudiziaria. Pagai solo io le tasse allo Stato (lire 27.000.150) sull’importo di circa un miliardo di lire. I fratelli, invece di ringraziarmi per una eredità inaspettata, mi ricattarono pretendendo che io firmassi una scrittura privata per obbligarmi a vendere (stabilendo io l'importo) altrimenti non sarebbero andati dal notaio per formalizzare il passaggio delle quote sociali dai Nurchi e dagli Angius agli eredi Melis. Io, ormai stanco per avere condotto per 13 anni questa vicenda, firmai dicendo però che avrei accettato di vendere solo se il compratore avesse pagato almeno un miliardo e 800 milioni, credendo che per quel prezzo nessuno si sarebbe presentato per acquisire tutte le quote della Cinecorallo (che dal 1973 era passata da S.p.A a s.n.c.). E invece si presentò Gesuino Fenu (che allora aveva 40 anni e voleva trasformare l'immobile del cinema in un supermarket). Oggi è proprietario di una catena di supermarket chiamata GF. Non mi interessavano i soldi e mi ero affezionato all'immobile del cinema, il cui tetto spiovente partiva dall'alto della galleria per arrivare, degradando, all'altezza minima di 8 metri all'altezza dello schermo. Mi affacciavo spesso dalla veranda di casa e potevo guardare il tetto del cinema dicendomi: "questo me lo sono guadagnato io con la mia fatica e la mia intelligenza". Pertanto non ero disposto a subire il ricatto e al notaio che mi telefonò dicendomi che erano presenti i fratelli e il signor Gesuino Fenu, mancando solo la mia firma, risposi che non sarei venuto per la firma perché non sopportavo il ricatto. Visto che non ero disposto a cedere anche la mia quota i fratelli promossero contro di me una causa civile chiedendo i danni per mancato rispetto della scrittura privata, ma persero anche in Corte d'Appello perché i danni non erano stati dimostrati (giudice estensore Assunta Brizio). Contestualmente, preso dalla rabbia, li accusai di estorsione. Ma la mia accusa si trasformò da parte di uno dei due fratelli (Gianluca, il peggiore, morto nel 2003 di cancro al mediastino a 59 anni) in grave accusa di calunnia. Da cui fui assolto perché, difensore l'avv. Carboni, il fatto non sussisteva. Sentenza agli atti e citata nel Ricorso. Venne pertanto riconosciuta l'estorsione di detta scrittura privata. Non essendo riusciti a costringermi a cedere anch'io la mia quota (per di più del 66%) uno dei due fratelli (il solito Gianluca), asserendo l'esistenza di dissidi sociali domandò la mia sospensione dalla carica di amministratore. Dopo di ciò inviai ai due soci di minoranza una raccomandata A.R. in data 22 dicembre 1995 con la quale invitavo i due soci a fare uno di essi l'amministratore della società, persino ringraziandoli perché in tal modo non avrei perso tempo venendo liberato dall'incombenza di dover trattenere rapporti con il commercialista e con la banca. Con questa lettera doveva ritenersi eliminato qualsiasi motivo di asserito dissidio. Ma, non avendo avuto alcuna risposta, il solito Gianluca fece domanda di nomina di un curatore speciale, che fu nominato nella persona di Antioco Angius il 29 gennaio 1996 dal presidente del tribunale con la formula: "in attesa che si ricostituisca la normale rappresentanza della società". Ma non contento di ciò il Gianluca (e sempre egli solo) fece domanda di nomina di un liquidatore, ma non indirizzando anche al socio Paolo l'atto di citazione. Tale nomina, avvenuta l'11 marzo 1996, era priva di qualsiasi fondamento perché gli asseriti dissidi tra i soci non potevano sussistere per legge essendo il cinema affittato al gestore, e pertanto la Cinecorallo, che era stata da sempre in attivo, non poteva essere liquidata non sussistendo i motivi 2 e 3 di cui all'art. 2272 del Codice Civile. Spiego sotto perché i contrasti erano di natura extra societaria. Tanto meno poteva essere giustificata la nomina di un liquidatore se lo stesso Gianluca era stato da me invitato a fare egli o il fratello l'amministratore. Nel procedimento in volontaria giurisdizione risultò sempre assente il curatore speciale Antioco Angius, nonostante che, a causa dei dissidi tra i soci circa la richiesta di nomina di un liquidatore, fosse l’Angius, nella sua carica di curatore speciale, a dover rappresentare in causa la Cinecorallo.
Vi era dunque da ritenere che non fosse stato rispettato il contraddittorio con la Cinecorallo (rilevabile d’ufficio), anche se nell'ultima udienza si presentò anche l'altro socio Paolo. La stessa Corte d'Appello (p. 17 della sentenza impugnata) aveva riconosciuto - contraddittoriamente, citando la sentenza della Cassazione n. 7886/2006 - che in presenza di conflitto tra i soci occorreva una unitarietà di forme di azione. La Cinecorallo, litisconsorte necessaria, rimase sempre assente nell'intero giudizio di volontaria giurisdizione perché non fu citata in giudizio nella persona del curatore speciale Antioco Angius. E in caso di dissidio tra i soci, con la presenza dei tre soci (ma il socio Paolo Melis non era stato citato in giudizio) non poteva ritenersi presente la Cinecorallo nel giudizio di nomina del liquidatore. Non poteva essere riconosciuta presente in giudizio la società quando per errore materiale fu nominato il liquidatore dal presidente del Tribunale dandomi come consenziente, nonostante la mia difesa avesse osservato l'infondatezza della domanda di nomina del liquidatore avendo la società come rappresentante il curatore speciale, precisando che in ogni modo non potesse essere nominato un liquidatore sino a quando non si fosse definita la causa riguardante la mia sospensione dalla carica di amministratore. E aveva precisato: "Nell'interesse del prof. Melis si conclude pertanto per il rigetto del ricorso avversariamente proposto e comunque perché qualsiasi decisione al riguardo venga assunta solo successivamente alla definizione della causa pendente presso il medesimo tribunale, contraddistinta col R.G. n. 4369/95". E si sa che in caso di asseriti dissidi societari i soci dissidenti potevano solo richiedere la liquidazione della loro quota. Come d'altronde rilevato nel Ricorso. Io fui revocato dalla carica di amministratore l'11 novembre 1997 a causa del motivo principale che era il ritardo di tre mesi nell'invio ai due soci di minoranza del bilancio annuale. Ma si sa che il ritardo nell'invio del bilancio non costituisce motivo di revoca dell'amministratore, essendo necessario il mancato bilancio. Per di più gli altri due soci avevano anch'essi acconsentito a che il commercialista spostasse la redazione del bilancio dal mese di marzo (previsto nello Statuto) al mese di giugno per farlo coincidere con il mese della dichiarazione dei redditi.
Per un caso simile la Corte d'Appello con sentenza 34/2001 dichiarò nullo tutto il procedimento (compreso quello cautelare) per il fatto che era stato citato in giudizio solo Pietro Melis e non era stato nominato un curatore speciale dato il dissidio tra i soci. In conseguenza di tale sentenza (passata in giudicato) fui reintegrato (ma solo nel 2001) nella carica di amministratore dal giudice del registro Vincenzo Amato. Nomina che apparve crudelmente paradossale visto che venivo reintegrato come amministratore di una società di fatto non più esistente perché il 13 novembre 1997 aveva perso il suo oggetto sociale a causa dell'avvenuta vendita. Vendita avvenuta in violazione della richiesta del mio difensore che nel giudizio di volontaria giurisdizione aveva già paventato tale assurdo se non si fosse attesa una sentenza passata in giudicato riguardante la mia revoca da amministratore. Perché tale revoca era stata l'unico motivo della richiesta di un liquidatore. Io stesso con raccomandata 22 agosto 1997 (agli atti del giudizio) inviata al promissario acquirente Bruno Cadeddu e p.c. al liquidatore Antioco Angius avevo paventato tale assurdo scrivendo che "Credevo che bastasse il giudizio in corso sulla mia revoca per convincere il nominato liquidatore ad astenersi dall'aprire trattative di vendita sino almeno alla definizione del giudizio, con sentenza esecutiva (passata in giudicato). E' evidente che, se la sentenza sarà a me favorevole, dovrà essere ripristinato il mio diritto a tornare ad essere amministratore, e non di una società che non esiste più".
Che tutto il processo, sin dall'inizio, dovesse essere sospeso ancor prima della nomina del liquidatore, si evince dal fatto che, nominato in data 29 gennaio 1996 il curatore speciale quale rappresentante della società, era necessario che si definisse il processo riguardante la revoca dell'amministratore, per evitare che si arrivasse al paventato pericolo, espresso dal mio difensore Mario Meridda e da me stesso nella racc. 23 agosto 1997, di una società che vedesse ripristinato nella carica Pietro Melis dopo la già avvenuta vendita.
Ma né il Tribunale né la Corte d'Appello si avvidero delle conseguenze della sentenza 34/2001, in base alla quale di fatto e di diritto io ero stato sempre amministratore, travolgendo tutto il precedente, non potendo coesistere insieme liquidatore e amministratore. Come rilevato nella Memoria difensiva in Cassazione. Questo motivo si aggiungeva alla "abnormità" della nomina del liquidatore dichiarata dal presidente del Tribunale
Né i giudici si accorsero mai di un altro motivo di nullità del processo derivante dal fatto che la Cinecorallo, sin dal 13 giugno 1998 (data dell’atto di citazione di Chessa Miglior), non era stata mai presente in giudizio perché permaneva la mia revoca dalla carica di amministratore, e pertanto sarebbe stato necessario nominare per la Cinecorallo un curatore speciale, che mai fu nominato.
A parte la considerazione che la nomina del liquidatore era avvenuta 1) in presenza del dissidio tra i soci e 2) per grave errore del presidente del Tribunale Marco Onnis, che mi diede come consenziente alla nomina del liquidatore. Senza questo grave errore non vi sarebbe stata la successiva annosa vicenda giudiziaria. E ciò nonostante che la nomina del liquidatore fosse stata revocata in data 11 dicembre 1997 dal presidente del tribunale "data la sua abnormità" a causa del mio documentato dissenso, per cui il presidente del tribunale Antonio Porcella scrisse che "questo presidente non aveva alcun potere di disporre la messa in liquidazione della società dovendosi in caso di contestazioni tra i soci sulla sussistenza delle cause di scioglimento intraprendere un normale procedimento contenzioso davanti al competente Tribunale". Decreto confermato in data 16 marzo 1998 dal presidente della Corte d'Appello, che rigettò il reclamo dei due soci con le stesse motivazioni del presidente del Tribunale. La vendita avvenuta poco prima, l'11 novembre 1997, risultava essere avvenuta da parte di un liquidatore di nomina abnorme, assumendo di conseguenza la figura di falsus procurator, anche perché in base all'art. 6 dello Statuto della Cinecorallo le operazioni di straordinaria amministrazione potevano essere eseguite solo con l'unanimità dei soci. Purtroppo nel corso di tutta la vicenda non poteva risultare il vero motivo, extra societario, dell'accanimento dei due soci di minoranza nel richiedere la vendita dell'immobile della Cinecorallo, pur dovendo, in caso di asserito dissidio, richiedere la liquidazione della loro quota, e non la liquidazione di una società da sempre in attivo, che continuava a conseguire pacificamente, al di là della volontà dei soci, l'oggetto sociale con l'affitto a terzi della sala cinematografica.
La Cassazione (Sez. II, 4 marzo 1977, 885) dice: Il principio del contraddittorio sancito in linea generale dall'art. 101 c.p.c. deve essere applicato nei procedimenti di volontaria giurisdizione tutte le volte che sia identificabile un controinteressato ...In difetto il procedimento di liquidazione è effetto da nullità e non produce effetto la pronuncia emessa nei confronti dei contradditori non sentiti". In data 11 dicembre 1997 il nuovo presidente del tribunale revocò la nomina del liquidatore "data la sua abnormità" a causa del mio documentato dissenso. La Cinecorallo era assente nel procedimento di liquidazione e pertanto non poteva avere effetto sulla Cinecorallo la pronuncia emessa nei confronti della Cinecorallo.
La sentenza della Cassazione (sez. I, 24 ottobre 1996,
n. 9267) ha ritenuto che in presenza di contrasti tra soci la nomina del
liquidatore dovesse definirsi abnorme. Così pure le sentenze Cass. 29
settembre 199, n. 10784; Cass. 28 dicembre 2009, n. 27428, che hanno
ritenuto abnorme un provvedimento emesso da un giudice carente di potere e
pertanto irriconoscibile come atto processuale.
Poiché in
base all’art. 1362 c.c. 2 c.c., al fine di valutare la buona fede del contraente valgono "le
manifestazioni posteriori al contratto provenienti da uno dei contraenti”
(Cass. 22 giugno 1972, n. 2055), non posso tralasciare un episodio riguardante
l'ex liquidatore Angius che in data 23 aprile 1998 con grave azzardo si
presentò al Banco di Napoli con i due soci di minoranza e per non esporsi in
prima persona rilasciò copia del certificato della Camera di Commercio del 5
aprile 1996 in cui figurava ancora come liquidatore e, dichiarando falsamente "la
piena validità di tutte le operazioni richieste”, rilasciava delega al
socio Paolo Melis perché riscuotesse tutto il ricavato della vendita (meno le
tasse) tramite 4 assegni circolari così intestati: Pietro Melis lire
654.736.036: Paolo Melis lire 169.471.559; Gianluca Melis lire 169.471.559;
dott. Antioco Angius lire 150.605.824. Per un totale di lire 1.144.284.436.
L'operazione truffaldina, tesa a pormi un'altra volta di fronte al fatto
compiuto, ed evitando così lo scomodo decreto ingiuntivo, non riuscì perché
precedentemente avevo avvisato la banca dell'avvenuta revoca dell'Angius dalla
carica di liquidatore . Il dossier del Banco di Napoli è agli atti del
giudizio. Successivamente l'Angius notificò il decreto ingiuntivo a tutti i tre
soci pur non essendo ancora ricostituita la rappresentanza legale della
Cinecorallo. Ma tale notifica non poteva ritenersi valida sempre per lo
stesso motivo, dato il perdurante dissidio (ma sempre extra societario) tra i
soci. Pertanto sarebbe stata necessaria la nomina di un curatore speciale. Né
si poteva trascurare il fatto che l'ex
liquidatore, se mai, avrebbe dovuto chiedere il pagamento della parcella anche ai
due soci di minoranza che non si erano opposti al decreto ingiuntivo, e
pertanto per essi il decreto ingiuntivo era diventato cosa giudicata. La Aru
nella sentenza falsamente non definitiva nelle conclusioni addebitò la parcella
dell’Angius solo al Melis Pietro e non agli due soci. Non si capisce perché
dato che la parcella era stata notificata ai tre soci. La Aru ritenne
ritualmente notificata alla Cinecorallo tramite la notifica ai tre soci, che
non poteva essere equivalere ad una notifica alla società a causa dei dissidi
tra i soci. Occorreva la nomina di un curatore speciale per la Cinecorallo. Ma
la Aru nella sentenza definitiva, dopo che si documentò l’iscrizione della
Cinecorallo nel registro delle imprese come voluta dalla Aru, il pagamento fu
spostato dal Pietro Melis alla Cinecorallo
pur risultando ancora assente in giudizio a causa della revoca del
Pietro Melis dalla carica di liquidatore. Un grosso pasticcio favorito
dall’inversione del rapporto giuridico tra sentenza non definitiva e sentenza
non definitiva.
Ma l'Angius arbitrariamente evitò la richiesta del
pagamento della parcella anche ai due soci di minoranza per riguardo ai soci
che ne ne avevano chiesto la nomina.
E’ necessario anche rilevare che la Corte d'Appello ha gravemente invertito il rapporto logico-giuridico tra sentenza NON definitiva e sentenza definitiva. Con l'evidente scopo di tutelare l'interesse del liquidatore e non quello della società e dovendo per questo compromettere anche nelle motivazioni la sentenza definitiva, le cui motivazioni venivano illogicamente predeterminate con la sentenza non definitiva. Che questa operazione fosse del tutto irregolare si capisce subito se si considera l'intestazione errata della sentenza non definitiva perché vi appare Pietro Melis non solo come socio ma anche come amministratore della Cinecorallo, pur risultante all’epoca ancora revocato dalla carica, mentre poi di fatto la Aru escluse la Cinecorallo dalla sentenza non definitiva, perché con ordinanza contestuale alla sentenza non definitiva chiese che si documentasse che la Cinecorallo fosse ancora in vita in quanto iscritta nel registro delle imprese. Pertanto nella sentenza non definitiva, in contrasto con l'intestazione, la Aru ha posto a carico del solo socio Pietro Melis la parcella del liquidatore, ma non le spese del giudizio. Dimostrato poi che la Cinecorallo era rimasta iscritta nel registro delle imprese la Aru ha ripescato la Cinecorallo nella sentenza definitiva ponendo a carico della sola Cinecorallo, e non più a carico di Pietro Melis, l'importo della parcella dell'Angius e aggiungendovi le spese del giudizio. Tutto ciò a causa della confusione derivante dall'inversione del rapporto logico-giuridico tra sentenza non definitiva e sentenza definitiva per avere anteposto il quantum debeatur all'an debeatur, ma con preannuncio nella sentenza falsamente non definitiva delle motivazioni della sentenza definitiva, avendo di fatto incanalato la sentenza definitiva in quella non definitiva. Mentre io dovetti subire un processo sino alla Cassazione (per vedervi dichiarata la prescrizione) per averlo definito metaforicamente dopo la sua revoca da liquidatore "piffero di montagna", ricordando il detto che diceva che i pifferi di montagna andarono a suonare e tornarono suonati (intendendo dire che il liquidatore era stato liquidato, ma nel senso di revocato.
Ed ecco i veri motivi, extra societari, del dissenso tra i soci.
Il Gianluca aveva ottenuto un mutuo di 180 milioni di lire dalla banca Cariplo ipotecando la casa di Poggio dei pini, terminata nel primo piano (dove si fermò) col regalo di miei soldi, indebitandomi per lui con la mia banca. Mentre il Paolo (più grande di me di tre anni) doveva ancora pagare 100 milioni di lire alla BNL per l'acquisto di una casa all'amante. Questi erano i veri dissidi tra soci, di natura extra societaria.
Purtroppo non potevano essere dedotti in causa, perché extra societari, i veri motivi dell'accanimento giudiziario nei miei confronti. E nella assoluta mancanza di riconoscenza nei miei riguardi per tutti i benefeci da me avuti, di cui parlo in altre pagine. Riguardo al Gianluca si aggiunga che soffriva di un complesso di inferiorità nei miei confronti perché io ero professore universitario mentre lui faceva il tabaccaio (per una licenza e un locale ereditati da mio padre) e aveva bisogno di liberarsene utilizzando la sua laurea in giurisprudenza (mai utilizzata, continuando a fare il tabaccaio) solo per schiacciarmi giudiziariamente.
Ha ragione Aristotele (Etica nicomachea, IX, 7) quando scrive che nel beneficato si crea uno spirito di ostilità nei riguardi del benefattore, che involontariamente fa nascere nel beneficato un senso di inferiorità da cui vorrebbe liberarsi trasformando il benefattore in nemico, giungendo a preferire che egli non esistesse.
Nessun commento:
Posta un commento