RIPORTO UN CAPITOLO DAL MIO LIBRO IO NON VOLEVO NASCERE. Voglio mettere in risalto che il vile attentato di via Rasella fu organizzato da una sedicente giunta militare formata da Riccardo Bauer, Giorgio Amendola e Sandro Pertini, che fu colui che volle che Mussolini venisse sottratto ai partigiani non comunisti perché venisse subito fucilato. E come premio ebbe la presidenza della Repubblica.
“IO NON VOLEVO NASCERE” DI PIETRO MELIS.
Una storia metaculturale, non ideologica, dovrà riconoscere un giorno la responsabilità di quei partigiani che, mosche cocchiere della resistenza, fatta in realtà dagli anglo-americani, provocarono le rappresaglie dei nazisti (previste dai trattati internazionali a partire dalla Convenzione dell'Aja del 1907). Ai sensi dell'art. 42 di tale Convenzione “la popolazione ha l'obbligo di continuare nelle sue attività abituali astenendosi da qualsiasi attività nei confronti delle truppe e delle operazioni militari. La potenza occupante può pretendere che venga data esecuzione a queste disposizioni al fine di garantire la sicurezza delle truppe occupanti e al fine di mantenere ordine e sicurezza. Solo al fine di conseguire tale scopo la potenza occupante ha la facoltà, come ultima ratio, di procedere alla cattura e alla esecuzione degli ostaggi”. E l'art.1 della stessa Convenzione (come ribadito dalla Convenzione di Ginevra del 1929)[1] pone come condizione che i corpi di volontari affianchino gli eserciti regolari, siano riconoscibili in base ad una divisa, rispondano ad un responsabile e portino apertamente le armi. E lo stesso Tribunale di Norimberga al caso 9 disse: “Le misure di rappresaglia in guerra sono atti che, anche se illegali, nelle condizioni particolari in cui essi si verificano possono essere giustificati. Ciò in quanto l'avversario colpevole si è comportato a sua volta in maniera illegale e la rappresaglia stessa è stata intrapresa allo scopo di impedire all'avversario di comportarsi illegalmente anche in futuro”.Lo stesso Tribunale ritenne equa la proporzione di 10 ad 1. Certamente perché gli stessi alleati tra il 1944 e il 1945 avevano anch'essi, quando pure non attuato, minacciato rappresaglie da una proporzione minima di 1 a 25 ad un massimo di 200 a 1. [2] E nel processo che si svolse a Mestre nel febbraio del 1947 contro Kesserling (conclusosi con sentenza di condanna a morte, commutata in ergastolo e seguita da concessione di libertà dal 1952) la Corte accolse la tesi, formulata dalla stessa pubblica accusa, che la rappresaglia era legittima, ma aggiunse che Kesserling doveva essere accusato del fatto che per errore erano state uccise 335 persone invece di 330. E per quanto riguarda le stragi che furono compiute tra l'agosto e il settembre del '44, culminanti in quella di Marzabotto si riconobbe da parte dello stesso pubblico Ministero che Kesserling si trovò ad affrontare “alcune persone irresponsabili con le quali non poteva negoziare e ai cui capi non poteva dire: controllate i vostri uomini”.[3]
Inoltre, i partigiani non potevano pretendere di essere rappresentanti del popolo, rimasto pressoché passivo o indifferente ad essi nell'Italia occupata dai nazisti (come dimostrerà il referendum che vide prevalere di poco la repubblica sulla monarchia – pur responsabile del fascismo - soltanto per il sospetto di brogli elettorali). Il cosiddetto Comitato di Liberazione Nazionale, giuridicamente inesistente, in quanto costituito da individui che si erano autoinvestiti di un potere politico, non fu mai ufficialmente riconosciuto dalle forze belligeranti. Dagli Alleati e dal governo monarchico fu riconosciuto, e solo dal 7 settembre 1944 (Protocolli di Roma) il Corpo dei Volontari della Libertà, al comando del generale Raffaele Cadorna e a condizione che esso operasse a fianco degli Alleati. Ma il CLN accettò solo nominalmente tale accordo per darsi una veste giuridica, mentre le varie bande partigiane continuarono ad operare indipendentemente da esso e separatamente tra loro.
Una parte di esse, formata da comunisti e dai loro fiancheggiatori, come Pertini, rifiutò infatti di consegnare agli americani Mussolini, contro la volontà degli emissari del governo regio di Badoglio, e ordinò che Mussolini fosse fucilato forse anche per timore che egli potesse rendere pubblico un carteggio con Churchill, che, facendo il doppio gioco - con la promessa nascosta di Nizza, (a spese dell'alleata Francia) e della Dalmazia all'Italia - pare avesse indotto Mussolini ad entrare in guerra perché, considerata ormai persa la guerra – quando gli Stati Uniti non erano ancora intervenuti – moderasse le pretese della Germania. [4]
Quando verranno tolte le medaglie agli assassini materiali che, causando anche vittime civili, il 23 marzo del 1944 provocarono, in una strada di Roma (via Rasella) la rappresaglia delle Fosse ardeatine, perché vigliaccamente rifiutarono di costituirsi, allora finalmente si inizierà a rendere giustizia alle vittime della rappresaglia, come a quelle di altre.[5] I mandanti dell'attacco proditorio, e perciò i maggiori responsabili della rappresaglia, furono i componenti di una sedicente Giunta militare del sedicente Comitato di Liberazione Nazionale (CNL). Di tale Giunta erano responsabili Giorgio Amendola (uno dei futuri capi del P.C.I.), Riccardo Bauer (Partito d'Azione) e Sandro Pertini (socialista), un fanatico che poi cercò di scaricare su Amendola la responsabilità dicendo che non era stato informato della decisione di porre in atto l'attentato terroristico e fu premiato con la presidenza della Repubblica. E fu principalmente lui a volere ad ogni costo la morte di Mussolini sovrapponendosi al governo monarchico (riconosciuto dagli alleati) e impedendo che Mussolini, tramite l'accordo cercato con il cardinale Schuster, si consegnasse agli americani, come da essi richiesto in quanto veri legittimati a chiederne la consegna, e non i cosiddetti partigiani, che, pur privi di qualsiasi autonoma legittimazione politica, volevano acquisirla decidendo, con la loro ala oltranzista, di passare per le armi tutti i gerarchi della Repubblica Sociale, senza alcun processo, come si fece, invece, a Norimberga. Fu assassinato dai comunisti persino Nicola Bombacci, che, uomo mite, teorizzatore della socializzazione delle imprese, era stato prima segretario del partito socialista e poi cofondatore nel 1921 del partito comunista, delegato a Mosca dei comunisti italiani nel 1920 ed amico di Lenin, ma espulso nel 1923 dai miopi del suo partito quando alla Camera propose un'alleanza tra fascismo e comunismo sovietico, capendo l'affinità tra le origini socialiste del fascismo e il comunismo sovietico sino a quando condannò la svolta staliniana. Nella Repubblica sociale, dove fu consigliere economico di Mussolini, continuava a chiamare “compagni” gli operai. Morì gridando:”Viva il socialismo”. Mussolini, anche contro la volontà di quei partigiani che l'avevano arrestato nella sua fuga verso la Svizzera, disposti a consegnarlo agli americani, fu sottratto ad essi da una banda di assassini che, al comando di una cupola di fanatici (in prevalenza formata da comunisti, ma tra cui si trovava anche Pertini), furono inviati da Milano a Dongo per anticipare l'arrivo a Milano degli americani e permettere a questi fanatici vigliacchi di fregiarsi di fronte ai vincitori di un'autorità che non avevano e di dare poi in pasto ad una folla scatenata la visione dei cadaveri appesi a testa in giù in piazzale Loreto. Quella stessa folla che, come commentò con disprezzo lo stesso Leo Valiani, leader del Partito d'Azione (e uno dei mandanti dell'assassinio di Mussolini), non era mai stata antifascista. E ora saltava indegnamente sul carro dei vincitori. E poi si parla di guerra di liberazione. Come se fosse stata una guerra di popolo.
I vigliacchi partigiani (per lo più comunisti) agivano sempre proditoriamente con imboscate esponendo le popolazioni alle rappresaglie con il rifiuto di presentarsi. Nel processo contro Kappler (Tribunale Militare di Roma, 20 luglio 1948) – che riconobbe che l'attentato era da ritenersi illegittimo secondo il diritto internazionale - il Bentivegna disse di avere ricevuto l'ordine di attaccare il battaglione di altoatesini e che si sarebbe presentato se fosse stata richiesta dai tedeschi la presentazione degli attentatori, che, invece, non vi sarebbe stata perché sarebbe stato deciso dai tedeschi di attuare comunque la rappresaglia. Ma la stessa accusa riconobbe che già due mesi prima erano stati affissi dei manifesti preannunciando rappresaglie per gli attentati: Soltanto il 28 marzo 1974 (settimanale “Panorama”) si fece vivo un testimone (Domenico Anzaldi) per dire che la sera stessa dell'attentato era stato affisso un manifesto sui muri di Roma.[6] Non basta. Questo principale manovale dell'attentato cambiò versione quando si accodò a quanto Paolo Emilio Taviani, ex partigiano ed esponente dei passati governi democristiani, dichiarò nel 1977 al quotidiano Il Giornale (del 10 luglio 1997 affacciando la tesi che “l'attentato di via Rasella fu un atto di guerra compiuto dai partigiani, non per regolamento di conti al loro interno (questa è un'altra versione, che vorrebbe che i partigiani comunisti volessero sbarazzarsi di quelli non comunisti o anche di quelli comunisti non affiliati al P.C,I. che si trovavano già in carcere, in modo da farli finire vittime della prevedibile rappresaglia – n. d. r.),[7] ma su richiesta dei comandi alleati. L'azione doveva alleggerire la pressione delle forze tedesche che impedivano l'avanzata angloamericana verso Roma”.[8] La tesi apparve a chi non fosse disonesto del tutto insostenibile. Non si era mai affacciata prima d'allora una simile tesi. Se fosse stata vera la banda degli attentatori, a incominciare dal Bentivegna, sarebbe stata la prima a dirlo. Invece la banda tacque di fronte alla tesi di Taviani, smentendo così se stessa, giacché lo stesso Bentivegna aveva detto che tutto era stato programmato all'interno della “giunta militare” del CLN, anche se poi, all'interno di questa asserita giunta, Amendola, come detto, si assunse inverosimilmente la responsabilità per tutti, non sconfessando Bauer e Pertini, che, per ridurre al minimo le responsabilità, disse che egli e Bauer erano ignari della decisione presa da Amendola.
Per salvare questa banda di assassini si mosse subito il governo Badoglio (dimentico della sua connivenza con il fascismo e delle stragi da lui operate in Etiopia) e provvide subito ad una amnistia con decreto legge n.96 del 5 aprile 1944 e con quello del 12 aprile, n. 194, riconoscendo retroattivamente questa banda come composta da legittimi belligeranti. Era infatti già incalzato dai partiti antifascisti, che sarebbero entrati organicamente nel II governo Badoglio il 22 aprile, con Togliatti vicepresidente del Consiglio. Se gli attentati fossero stati azioni di guerra non ci sarebbe stato bisogno di amnistia. Ciò in contrasto con l'ordine che lo stesso Badoglio aveva diramato di evitare di fare attentati nelle città proprio per evitare prevedibili rappresaglie.[9]
I parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine si videro negato il risarcimento dei danni nella causa promossa nel 1949, conclusasi negativamente in tre gradi del giudizio con la sentenza della Cassazione del 9 maggio 1957 che riconosceva che l'attentato era stato un'azione di guerra condotta da “legittimi belligeranti”.
Ciò in contrasto con la citata sentenza del Tribunale militare del 1948 (processo Kappler), a cui si aggiunse la sentenza del Tribunale Supremo Militare del 26 aprile 1954, che stabiliva che, per espresso disposto dell'art. 1 del Decreto legge 6 settembre 1946, n.93 i partigiani non potevano essere considerati belligeranti. [10]
. Però la Corte Costituzionale, abrogando l'art. 270 del codice penale militare, che vietava la presenza di parti civili in un processo militare, permise che i familiari delle vittime e il Comune di Roma alla fine degli anni '90 si costituissero parte civile nel processo militare e civile contro Priebke, ritenuto uno dei responsabili dell'attuazione della rappresaglia. Così si passò giudiziariamente dalla tragedia alla farsa. Si immagini che cosa avrebbero potuto avere i familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine da Priebke, a parte l'età ormai avanzata. Lo Stato avrebbe dovuto pagare il risarcimento dei danni ai parenti. Ma come avrebbe potuto farlo se non riconoscendo di essere nato dalla complicità con coloro che furono degli assassini? In alternativa i parenti delle vittime avrebbero dovuto chiedere i danni allo Stato tedesco, che infatti pagò i danni ai parenti degli ebrei morti nei lager. Ma per ragioni di amicizia con la nuova Germania lo Stato italiano non fece nemmeno questo. Oppure agì ipocritamente non sentendosi giudiziariamente forte nel sostenere di fronte alla Germania che l'attentato fosse un'azione di guerra. E così preferì scaricare le colpe su chi non avrebbe potuto pagare. Gli bastò aver trovato un capro espiatorio per salvare la faccia.[11]
Basta ripercorrere le varie fasi del processo contro Priebke per accorgersi della confusione ideologica in cui esso si svolse. Assolto per prescrizione del reato dal Tribunale militare di Roma l'1 agosto 1996, la sentenza fu cambiata dal Tribunale in una condanna, prima a 15, poi a 10 anni dopo che la prima sentenza fu annullata dalla Cassazione, sensibile al tumulto suscitato nella stessa aula alla lettura della prima sentenza e alla reazione del governo, a sua volta sensibile al tumulto alimentato soprattutto dalle comunità ebraiche, senza le quali quasi certamente la Cassazione non sarebbe intervenuta. Da notare che Kappler nel 1948 era stato condannato all'ergastolo solo per il fatto di essere stato responsabile per sbaglio di cinque vittime in più alle Fosse Ardeatine e di averne aggiunto altre dieci dopo la morte in ospedale di un altro soldato rimasto ferito in via Rasella, mentre Priebke fu riconosciuto colpevole della morte di tutte le 335 vittime. La Corte d'Appello nel marzo del 1998 condannò Priebke all'ergastolo, con conferma della Cassazione nel mese di novembre (che celerità!). Ma poi, a causa dell'età, fu concessa a Priebke la detenzione domiciliare. Il 12 giugno gli fu concesso di uscire di casa per recarsi nello studio del suo avvocato. Ma le comunità degli ebrei – che si credono ancora l'ombelico dell'umanità e che credono di poter vivere di rendita per tutto l'avvenire a motivo dell'asserito olocausto – ottennero dal magistrato dell'ufficio di sorveglianza, e poi dalla Cassazione il 3 novembre 2007, che fosse revocato tale permesso.
Indro Montanelli – che si era visto sequestrare su querela dei vigliacchi attentatori di via Rasella il volume “L'Italia della guerra civile” (scritto con Mario Cervi) perché aveva ritenuto gli attentatori responsabili della rappresaglia – per quieto vivere il 22 marzo 1998 (Corriere della sera) si limitò a condividere il giudizio di Enzo Forcella secondo cui l'attentato era privo di rilevanza militare, suggerendo ingiustamente che non si disseppellissero i cadaveri e non si tenessero ancora aperti i conti con il processo contro Priebke, che, invece fu condannato. E il 26 marzo aggiunse che non si poteva tenere aperta un caso giudiziario dopo che 50 anni prima era passata in giudicato una sentenza di assoluzione che aveva riconosciuto colpevole Kappler e non i suoi subordinati, come Priebke. Concludeva scrivendo che non si poteva continuare ad avvelenare il presente compromettendo il futuro. Ma in sede storica il passato deve essere rivisitato, non per avvelenare il presente, ma per illuminarlo alla luce della verità. E la verità è scomoda per uno Stato nato dalla disonestà.
Il Gip Pacioni, affiancato dai familiari delle vittime nel processo contro Priebke, quando respinse la richiesta di archiviazione per le responsabilità dei partigiani, fu assalito da tutta la sinistra, compreso l'attuale capo di Stato Napolitano, che, insieme con tanti altri del suo partito, definì “aberrante” la decisione del Gip, che fu sottoposto ad un linciaggio morale e minacciato, per cui rinunciò all'incarico. Anche l'intellighenzia giornalistica, ben rappresentata a sinistra dall'ex partigiano Giorgio Bocca (La Repubblica, 28.6.97), si scatenò contro il Gip cercando di ridicolizzarlo. L'ineffabile capo dello Stato di allora, Scalfaro, disse che non si poteva portare la storia in Tribunale dopo 50 anni. Seguì a ruota Prodi con una frase assai simile. E perché allora dopo 53 anni si portò in giudizio Priebke?
Per contrasto non si può non citare la luminosa figura del carabiniere Salvo d'Acquisto, che a Palidoro (a pochi km da Roma), dopo che una bomba - che si trovava in una cassa di munizioni ispezionata da alcuni componenti del corpo di S.S. che si era acquartierato in una caserma abbandonata della Guardia di Finanza - scoppiò uccidendone uno e ferendone due, sacrificò la sua vita per evitare la fucilazione, per rappresaglia, di 22 ostaggi presi tra la popolazione civile. Si disse che la bomba fosse scoppiata accidentalmente. Come mai fu trovata dai nazisti quella cassa nonostante la caserma fosse stata abbandonata? I finanzieri l'avevano dimenticata lì? La cosa appare inverosimile. I nazisti sapevano che d'Acquisto era innocente, ma preferirono evitare la rappresaglia facendo finta che fosse lui il colpevole, e solo lui. Né si possono dimenticare i carabinieri Vittorio Marandola, Alberto La Rocca e Fulvio Sbarretti, che anch'essi, a Fiesole, si sacrificarono per salvare dieci ostaggi innocenti. Questi furono veri patrioti, non gli scellerati partigiani, soprattutto quelli comunisti, che avevano in mente non tanto il progetto di combattere contro il nazismo, ma quello di combattere per una rivoluzione comunista, strumentalizzando i partigiani non comunisti.[12]
Non voglio e non posso addentrarmi nei particolari di altre stragi, che furono tali più che rappresaglie, come quella commessa ai nazisti a Marzabotto. Infatti in questi casi furono uccisi indiscriminatamente anche dei bambini, e senza alcun preavviso che permettesse un'alternativa alle stragi. Si disse subito che i morti fossero stati 1800, mentre oggi si sa che furono 750. Ma il minore numero accertato non diminuisce la gravità della strage. Nonostante ciò, anche in questo caso non si deve nascondere la verità che fu all'origine della rabbiosa vendetta dei nazisti. La propaganda ideologica ha voluto tacere di questa verità. Nel settembre del 1944 i nazisti erano ormai in fuga ed avevano già abbandonato la difesa della linea gotica. Il maresciallo Kesserling volle assicurarsi almeno che la ritirata potesse compiersi indisturbata, senza ulteriori attacchi proditori delle bande dei partigiani, che nella zona di Marzabotto e degli altri paesi ad esso vicini avvenivano soprattutto per le frequenti incursioni di una brigata di partigiani comunisti chiamata Stella Rossa. Perciò inviò una delegazione per contrattare la pacifica ritirata del suo esercito. Ma la delegazione non tornò mai perché i suoi componenti furono uccisi dai partigiani. Questo fu un atto di pazzia, che contravveniva ad una delle più antiche tradizioni in tempo di guerra, che voleva che fossero fatte salve le vite dei componenti di un'ambasceria. La reazione nazista fu feroce, folle, ma pari alla follia di coloro che l'avevano scatenata. La storia dei vincitori fa apparire il male solo da una parte, ma la verità storica deve fare apparire il male da ogni parte. La feroce reazione nazista seguì alla vigliacca e maramaldesca azione delle bande dei partigiani che nella loro follia volevano apprestarsi a presentarsi come liberatori. Né si può escludere che effettivamente una buona parte della popolazioni di quei luoghi, che nel dopo guerra rappresenteranno la fortezza elettorale del comunismo, fosse connivente con le bande dei partigiani e avesse dato ad essi rifugio.[13] Al contrario di quanto avvenne nei confronti dei maggiori responsabili della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, abbandonati a stessi dal governo della nuova Germania, nei confronti del maggiore responsabile della strage di Marzabotto, Walter Reder, estradato e condannato all'ergastolo nel 1951, si mosse il governo austriaco, a tal punto che nel 1985 ottenne perfino la grazia dal governo italiano. Come è spiegabile ciò pur in presenza di un numero assai maggiore di morti rispetto a quelli della rappresaglia di Roma? Penso che, nonostante tutta l'ufficialità della retorica di Stato, si sia voluto ammettere nascostamente la responsabilità delle azioni maramaldesche dei partigiani che operavano in quella zona sparando su un esercito in fuga. L'attribuzione della medaglia d'oro a Marzabotto (il 30 settembre 1945) tradisce scioccamente la verità nel suo attribuire alla popolazione locale - certamente oltre i limiti della sua vera azione di fiancheggiamento attivo dei partigiani – il merito – del tutto inesistente - di avere contribuito alla ritirata dell'esercito tedesco e alla liberazione dei paesi circostanti, quando, invece, la ritirata era stata già decisa. Si racconti bene ciò nei libri di storia prima di continuare a commemorare le vittime di tali stragi, facendole passare tutte per martiri.
« Incassata fra le scoscesi rupi e le verdi boscaglie della antica terra etrusca, Marzabotto preferì ferro, fuoco e distruzioni piuttosto che cedere all'oppressore. Per 14 mesi sopportò la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare la fierezza dei suoi figli arroccati sulle aspre vette di Monte Venere e di Monte Sole sorretti dall'amore e dall'incitamento dei vecchi, delle donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovanetti, delle fiorenti spose e dei genitori cadenti non la domarono ed i suoi 1830 morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l'amore per la Patria.»
E' questa la lapide commemorativa di una falsità storica che vuole nascondere le responsabilità di quelli che provocarono la folle reazione nazista. La lapide vuole dare ad intendere che tutte le popolazioni delle zone partecipassero attivamente alla resistenza contro i nazisti, non accorgendosi che in tal modo le si rendeva, al contrario, responsabili delle conseguenti stragi. Ci si dimentica di tutti quei parrocchiani che si erano rifugiati in chiesa, dove morirono uccisi tre anziani con il parroco Ubaldo Marchioni, mentre altri 195 (tra cui 50 bambini), prelevati dalla chiesa, furono uccisi nel cimitero. Furono uccisi anche altri quattro sacerdoti, che certamente erano estranei ad azioni di resistenza attiva.
Prima di Marzabotto vi furono altre stragi, su cui, considerando che esse furono attuate da un esercito tedesco che si apprestava ad una ritirata, cade il ??fondato sospetto che, come per Marzabotto, esse siano state la risposta ad azioni proditorie dei partigiani. Non si spiega altrimenti il fatto che gli stessi tedeschi avessero deciso di impiegare Sant'Anna di Stazzema come “zona bianca” per gli sfollati da altri paesi. Non avrebbe avuto senso una simile protezione iniziale di quella località per sottrarre la sua popolazione a teatri di guerriglia partigiana. Ma evidentemente, come verrà riconosciuto, degli incoscienti irresponsabili approfittarono della calma creatasi a Sant'Anna per creare dei collegamenti con i partigiani causando la furibonda reazione tedesca. Ciò è stato taciuto da chi ha voluto ricostruire storicamente i fatti riguardanti la strage di Sant'Anna di Stazzema.[14]
“Ai primi di agosto 1944 Sant'Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco 'zona bianca', ossia una località adatta ad accogliere sfollati: per questo la popolazione in quell’estate aveva superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò, all’alba del 12 agosto '44 tre reparti di SS salirono a Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle, sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant’Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide, gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi, restarono nelle loro case.
In poco più di tre ore vennero massacrati 560 innocenti, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano, compiendo atti di efferata barbarie. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Fu trovata, ancora viva ma gravemente ferita, da una sorella miracolosamente superstite tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell'ospedale di Valdicastello. Infine il fuoco, a distruggere e cancellare tutto. Non si trattò di rappresaglia. Come è emerso dalle indagini della Procura Militare della Spezia, si trattò di un atto terroristico, di una azione premeditata e curata in ogni minimo dettaglio. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra le popolazioni civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.
La ricostruzione degli avvenimenti, l’attribuzione delle responsabilità e le motivazioni che hanno originato l’eccidio sono state possibili grazie al processo svoltosi al Tribunale militare della Spezia e conclusosi nel 2005 con la condanna all’ergastolo per dieci ex SS colpevoli del massacro; sentenza confermata in Appello nel 2006 e ratificata in Cassazione nel 2007. Nella prima fase processuale si è svolto, grazie al Pm Marco de Paolis, un imponente lavoro investigativo, cui sono seguite le testimonianze in aula di superstiti, di periti storici e persino di due SS appartenute al battaglione che massacrò centinaia di persone a Sant’Anna. Fondamentale, nel 1994, anche la scoperta avvenuta a Roma, negli scantinati di Palazzo Cesi, di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi “ Armadio della vergogna”, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra. Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spingevano in comune di Fivizzano (Massa Carrara) , seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca, nella zona di San Terenzo. Nel giro di cinque giorni uccidevano oltre 340 persone mitragliate, impiccate, addirittura bruciate con i lanciafiamme. Nella prima metà di settembre, con il massacro di 33 civili a Pioppetti di Montemagno, in comune di Camaiore (Lucca), i reparti delle SS portavano avanti la loro opera nella provincia di Massa Carrara. Sul fiume Frigido venivano fucilati 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano (Lucca), e per finire a Bergiola e a Forno. i nazisti facevano circa 200 vittime. Avrebbero continuato la strage con il massacro di Marzabotto.”[15]
Di tali stragi fu considerato colpevole anche Kesserling, comandante delle forze armate tedesche operanti in Italia. Egli aveva provveduto a rendere pubblico, con manifesti, con volantinaggio aereo e con comunicato radio che sarebbero stati fucilati coloro che avessero aiutato e protetto i partigiani. Infine si annunciava: “ogni villaggio in cui sia provata la presenza di partigiani...o nel quale siano avvenuti tentativi di sabotaggio a depositi di guerra sia raso al suolo. Inoltre siano fucilati tutti gli abitanti maschi del villaggio di età superiore ai 18 anni. Le donne e i bambini saranno internati in campi di lavoro”.Fu la risposta a quanto il generale Alexander, comandante delle forze alleate in Italia aveva proclamato rivolgendosi alle bande di partigiani.“Assalite comandi e piccoli centri militari! Uccidete i germanici alle spalle, in modo da sfuggire alla reazione per poterne uccidere degli altri”.
Si può dunque dire che le stragi culminanti in quella di Marzabotto andò oltre i limiti che erano stati imposti dallo stesso Kesserling, che infatti non poté essere riconosciuto colpevole degli eccessi compiuti, che non risparmiarono donne e bambini. Ma lo stesso Diritto Militare Britannico, prevedendo la rappresaglia quale “ritorsione per atti illegittimi di guerra allo scopo di far osservare in futuro al nemico le riconosciute leggi di guerra”, prevedeva anche “il ricorso alla rappresaglia contro una località o una comunità per alcuni atti commessi dai suoi abitanti o membri che non possano essere identificati”. E anche le regole di guerra degli Stati Uniti prevedono che “villaggi o case possano essere bruciate per atti ostili commessi da persone che non possono essere identificate, processate e punite”. Questo principio, applicato nel Vietnam, portò a bruciare con bombe al napalm interi villaggi.[16] D'altra parte, fu forse un'azione di guerra il bombardamento della città di Dresda,[17] rasa al suolo tra il 13 e 15 febbraio 1945, quando esso non aveva più nemmeno il significato di deterrente psicologico, considerando che ormai la guerra volgeva verso la fine? Vi è anche da considerare che il bombardamento tedesco della città di Coventry (11 agosto 1940) ebbe da prima obiettivi mirati, cioè le industrie, al fine di distruggere l'aviazione inglese (e infatti fece solo 176 morti), mentre il secondo bombardamento (14 nov. 1940), con complessivi 1.236 morti, fu una rappresaglia dopo il bombardamento inglese di Monaco di Baviera (8 nov. 1940), E che significato potevano avere i bombardamenti americani anche sulla città di Roma e persino sulla Sardegna (in particolare su Cagliari), dove non vi erano obiettivo militari? Come mai non esistono lapidi per i nomi di tali vittime? Si dimentica anche che il bombardamento di Tokio causò più di 83.000 morti e che ben maggiori furono le vittime dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, espressione massima della violazione di ogni norma del diritto internazionale di guerra. Strana guerra di liberazione quella attuata da "liberatori" americani che bombardavano città senza alcun riguardo per la popolazione civile. Valga come esempio per tutti il bombardamento di Roma (quartiere S.Lorenzo). Si può dire tutto dei nazisti, ma essi ebbero rispetto per le città e risparmiarono sempre i palazzi. Non vi è stato un monumento, un'opera d'arte, un museo, che sia stato bombardato dai nazisti.
Non posso fare a meno di raccontare la commuovente storia di Fido. Il padrone Carlo Soriani, che abitava a Luco di Mugello, l'aveva trovato cucciolo e ferito. Ogni mattina Fido alle 5,30 svegliava il padrone sapendo che a quell'ora doveva alzarsi per prepararsi e prendere la corriere che l'avrebbe portato al lavoro, essendo operaio in una fabbrica di Borgo San Lorenzo. Alle 19 Fido era sempre puntuale alla fermata della corriera in attesa del ritorno del padrone, che alcune non scendeva dalla corriera e di nascondeva dietro il sedile per farsi cercare da Fido, che, dopo che tutti gli altri erano scesi, saliva per andare a scovare il padrone. Ritornavano sempre insieme a casa. Ma un brutto giorno, il 30 dicembre del 1943, uno dei tanti vigliacchi ed inutili bombardamenti americani distrusse la fabbrica causando la morte del Soriani. Per la prima volta quel maledetto giorno Fido attese inutilmente il padrone. Ma un cane non può capire. Eppure Fido qualcosa si sarà pur domandato. Perché il mio padrone non scende più dalla corriera? Egli non poteva pensare di essere stato abbandonato perché continuava a vivere nella casa del padrone. Dunque doveva essere vivo. Questo soltanto può avere pensato. Qualche causa di forza maggiore, pensò certamente Fido, deve avere trattenuto altrove il mio padrone. Prima o dopo tornerà. Perché gli animali non vivono coscientizzando la morte. Sotto questo aspetto sono più fortunati degli uomini. Ma Fido aspettò con tenacia il ritorno per 14 anni, andando alla fermata della corriera cinquemila volte. Fido venne premiato in vita con medaglia d'oro il 9 novembre 1957 durante una cerimonia nel Comune di Borgo San Lorenzo. Sino a quando un giorno, l' 8 giugno 1958, forse aspettando ancora il ritorno del padrone, fu trovato senza vita in un podere vicino alla sua casa. Fu sepolto all'esterno del cimitero di Luco, vicino alla tomba del padrone. Lo scultore Salvatore Cipolla costruì per lui un monumento raffigurandolo in piedi con la testa rivolta verso Borgo San Lorenzo. Della morte di Fido diede notizia il quotidiano la Nazione, ma già alcuni settimanali (tra cui la Domenica del Corriere con grande disegno di Fido in copertina) tra il 1957 e il 1958 avevano narrato la storia di Fido. E questo libro è nato quando Billo, “il mio unico grande affetto” mi accompagnava ancora in vita. E rimango certo che nemmeno un essere umano è capace di nutrire un amore così grande, perché puro, essendo disinteressato. Maledetti siano anche per questo i vigliacchi “liberatori” americani con i loro indiscriminati e vigliacchi bombardamenti. Non si ritengano per questo migliori dei nazisti.
Sarebbe troppo lungo riferire di tutte le reciproche rappresaglie avvenute nella R.S.I., causate sempre da vili attentati dei partigiani. Basti qui riportarne alcune come esempio di una follia che nella storia dei vincitori è riuscita a trasformarsi in eroismo della lotta di “liberazione”. Il mattino del 31 marzo 1944 vengono arrestati nel Duomo di Torino dei componenti del CLN piemontese. Alle ore 13 dello stesso giorno per ritorsione due gappisti, Sergio Bravin e Giovanni Pace uccidono nell'androne di casa il direttore della Gazzetta del Popolo, Alther Capelli. La rappresaglia tedesca porterà alla condanna a morte di 8 membri del CLN piemontese. In piazzale Loreto alle ore 9 dell'8 agosto 1944 esplode una bomba posta dai partigiani sul sedile di un camioncino tedesco. Muoiono sei bambini, una donna e due padri. Dei 13 feriti ne moriranno altri 6. Il comando tedesco, nonostante l'opposizione di Mussolini e del cardinale Schuster, procede alla rappresaglia nella proporzione di 1 a 1 prelevando 15 incarcerati accusati di avere collegamenti con i partigiani. La rappresaglia dei partigiani seguì con la fucilazione di 45 prigionieri, 15 tedeschi e 30 fascisti che erano stati catturati sui treni dai partigiani dell'Ossola, dunque nemmeno in azione di guerriglia. Il comandante partigiano Batista e 8 suoi compagni furono catturati e fucilati il 29 settembre 1944, nonostante la Curia torinese avesse convinto un comando “garibaldino” ad offrire 120 suoi prigionieri (tra cui alcuni ufficiali tedeschi). Per rappresaglia tutti i 120 prigionieri furono uccisi. Molte strade sono state dedicate ai 7 fratelli Cervi. Ma essi furono indirettamente vittime dei comunisti, che non li nascosero, come fecero per i loro compagni. Dopo il loro arresto fu comunicato dai tedeschi che non si mettesse in pericolo la vita dei fratelli Cervi con attentati. Non vi fu alcuna ritorsione dopo l'uccisione del seniore della Milizia fascista Giovanni Fagioni. Allora il 27 dicembre un gruppo partigiano uccise il segretario comunale di Bagnasco in Piano, Davide Onfiani. Questa volta la rappresaglia colpì tutti i fratelli Cervi. Così i comunisti riuscirono a liberarsi di essi, come risulta da una lettera all'Anpi di Reggio Emilia scritta nel 1980 da un membro di un asserito Comitato Militare partigiano, Osvaldo Oppi, che disse che precedentemente non aveva avuto il coraggio di eliminare egli stesso i fratelli Cervi perché godevano di una “grande statura morale”. Ma i comunisti, al culmine della disonestà, fecero dei fratelli Cervi un loro emblema.[18]
I partigiani, specialmente i fanatici comunisti, provocarono solo disastri e i loro asseriti meriti non furono affatto riconosciuti dalle potenze vincitrici, che non tennero affatto conto di essi quando si trattò di considerare l'Italia come nazione sconfitta e responsabile della guerra, al contrario della Francia, di cui fu riconosciuta la resistenza partigiana. Si dice che i partigiani nel dicembre 1944 fossero 100.000, ma di questi solo 10.000 combatterono realmente. I dati ufficiali delle autorità italiane dicono che i morti per mano dei partigiani furono soltanto 17.322. Ma si calcola che la cifra reale si aggiri sui 100.000 morti, tra uomini, donne e bambini.[19] Escludendo gli uccisi nella Venezia Giulia ad opera dei partigiani jugoslavi (23.000) gli uccisi dal 25 aprile al 31 maggio 1945 furono 42.000.[20]
Torniamo all'attentato di via Rasella. I parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine chiesero il risarcimento danni. Ma in tre gradi del giudizio (ultimo quello della Cassazione del 9 maggio 1957) si videro respingere le loro richieste da una magistratura ideologizzata e connivente con gli assassini con la sconcertante conclusione che quella di via Rasella dovesse essere considerata un'azione di guerra. Assurdo. Come poteva essere considerata un'azione di guerra un attentato terroristico in pieno centro cittadino, che causò anche la morte di alcuni civili?[21] Come poteva essere stata un'azione di guerra quella svoltasi in una strada dove stavano giocando a pallone dei ragazzini, che, per confessione dello stesso Balsamo, furono allontanati dalla strada calciando lontano il loro pallone? Come potevano essere ritenuti combattenti dei gruppi che non erano militari in divisa e che agivano disordinatamente senza che vi fosse un comando giuridicamente giustificato? Si può dire che essi agissero come rivoluzionari, ma con tutti i rischi che un'azione rivoluzionaria comporta. Compresa quella di essere considerati dei fuorilegge, almeno sino quando essi, prendendo il potere, non costituiscano a posteriori una nuova legalità. E così infatti è successo.
Si trovò subito la scappatoia “legale” per salvare i partigiani dall'accusa di essere dei terroristi. Con una serie di decreti legislativi[22] essi furono riconosciuti come combattenti. Una volta attribuita ad essi questa assurda veste, ne conseguì anche che la rappresaglia attuata dai nazisti non poteva più essere considerata tale, e pertanto i familiari delle vittime non potevano avere diritto ad alcun risarcimento. Ma se i governi italiani fossero stati coerenti avrebbero dovuto chiedere il risarcimento dei danni alla Germania.
Eppure, lo stesso tribunale dei vincitori di Norimberga aveva riconosciuto che “le misure di rappresaglia in guerra sono atti che, anche se illegali, nelle condizioni particolari in cui si verificano, possono essere giustificati in quanto l'avversario si è a sua volta comportato in maniera illegale e la rappresaglia stessa è stata intrapresa allo scopo di impedire all'avversario di comportarsi illegalmente anche in futuro”.La proporzione ritenuta come equa fu quella di 10 a 1.
Quando si insegnerà finalmente nelle scuole una storia non ideologizzata che non sia più quella scritta dai vincitori?
Non posso addentrarmi nei fatti tragici di Cefalonia più di quanto occorra per rilevare anche in questo caso l'uso strumentale che ne è stato fatto. Infatti quanto colà accadde non può rientrare a rigor di termini nella storia della guerra civile. Due tesi si oppongono fondamentalmente.[23] Sebbene tutte e due ritengano che i morti della Divisione Acqui siano da considerarsi vittime della ferocia nazista, tuttavia l'una attribuisce la maggiore, se non unica, responsabilità, al generale Antonio Gandin a causa del suo ambiguo comportamento tenuto con i tedeschi, a cui avrebbe detto che la sua truppa si era rifiutata di consegnare le armi dopo la dichiarazione di armistizio dell'8 settembre. Questa pare, infatti, fosse stata la condizione posta dai tedeschi perché gli italiani avessero salva la vita, e in conformità con l'ordine arrivato il 9 settembre da Atene da parte del gen. Vecchiarelli, comandante della XI armata. Ma sembra che Gandin, che pare volesse salvare capra e cavoli – cioè la volontà di non considerare i tedeschi come nemici e allo stesso tempo, in cambio di ciò, la volontà di salvare l'onore della Divisione evitando la consegna delle armi, ottemperando così all'ordine del governo Badoglio - non avesse trasmesso tale ordine alla sua Divisione.[24] Era una sorta di compromesso tra l'accusa di tradimento dovuto all'armistizio e l'impossibile trasformazione della Divisione in esercito nemico considerando che soltanto il 13 ottobre il fatiscente governo Badoglio di Brindisi dichiarerà guerra alla Germania. Dal punto di vista giuridico la Divisione si trovò in una condizione indefinibile. Non era più alleata dei tedeschi ma non poteva essere ancora considerata nemica. Pertanto qualsiasi azione di guerra fosse stata da essa promossa sarebbe andata incontro ad una mancanza di tutela dovuta ai prigionieri di guerra. In tale condizione l'unica decisione giusta che qualsiasi generale avrebbe dovuto prendere sarebbe stata quella di consegnare le armi ai tedeschi come dimostrazione della volontà di non più combattere, né con loro né contro di loro. La prima delle due tesi, che addebita al gen. Gandin la massima responsabilità, afferma che con quella dichiarazione Gandin avrebbe, se pur involontariamente, tradito la sua truppa offrendo ai tedeschi l'opportunità di considerare la Divisione Acqui formata da traditori che avevano intenzione di combattere contro gli ex alleati. La seconda tesi sostiene che la massima, se non l'unica, responsabilità fu quella del governo Badoglio che lasciò la Divisione indifesa dopo l'armistizio, incitandola, con un comunicato radio del 13 settembre, a combattere i tedeschi pur in mancanza di una dichiarazione ufficiale di guerra contro la Germania, avvenuta solo il 13 ottobre. Gandin dunque non sarebbe stato un traditore ma una vittima del governo Badoglio nel suo avere accettato alla fine l'ordine di resistere ai tedeschi. Mi pare che le due responsabilità possano intrecciarsi, quella del governo fantoccio Badoglio, prigioniero degli anglo-americani, e quella del gen. Gandin e degli ufficiali subalterni su cui non seppe imporsi, se è vero che essi nei giorni tra il 9 settembre e il 22 settembre 1943, volenti o non volenti che fossero - i primi avendo il sostegno di quella parte della Divisione che voleva combattere, i secondi subendone la volontà (come lo stesso Gandin) - rivolsero contro i tedeschi le armi. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto, pare documentato, che i tedeschi (di cui non facevano parte le SS ma solo soldati della Wehrmacht) si limitarono a fucilare come traditori, dopo la resa, soltanto quelli che avevano partecipato realmente ad una azione di guerra, non dichiarata, contro di essi. In quei giorni i combattenti della Divisione Acqui combatterono come nemici pur non potendo più essere considerati come legittimi combattenti dal punto di vista giuridico. I morti furono vittime del governo Badoglio ma anche di se stessi se rivolsero le armi contro i tedeschi volendo forse fare la parte di eroi, anche se del tutto inutili. Si dice che il gen. Gandin, prima di morire costretto a dare le spalle al plotone di esecuzione, avendo buttato per terra la croce di ferro attribuitagli dai tedeschi sul fronte russo, abbia gridato: “Viva l'Italia! Viva il re!”. Poveretto. Che confusione aveva in testa. Era stato sempre un convinto fascista e filonazista, e non aveva capito che proprio quel re (nano più per cervello che per altezza) era la causa maggiore della sua morte. Anche per non aver quel nano voluto firmare il foglio predisposto nel 1922 dal primo ministro Facta per ordinare lo stato d'assedio disperdendo i fascisti armati di soli bastoni della scalcinata “marcia su Roma” e per avere, al contrario, chiamato al governo Mussolini, che arrivò a Roma in vagone letto.
Di fronte a tali considerazioni appare di minore importanza la disputa sul numero dei morti in combattimento e di quelli fucilati dopo la resa ai tedeschi. Ma la retorica politica, ad iniziare da quella dei presidenti della Repubblica, almeno da Pertini in poi, non soltanto continua ad esagerare il numero dei morti (come se quasi tutti gli 11.500 componenti della Divisione Acqui fossero morti), ma continua anche a prescindere dalle vere responsabilità.
Non ho scritto queste righe con la presunzione di saperne più di quanti a tale argomento hanno dedicato dei libri. Ma dalle letture fatte posso dedurre che le tesi opposte mi sono apparse parziali perché mancanti di logica. Sia di chi abbia voluto far ricadere la maggiore responsabilità sul governo Badoglio (al cui tardivo ordine del 13 settembre Gandin si sentì in obbligo di obbedire senza considerare che ancor prima avrebbe dovuto obbedire il 9 settembre al suo diretto superiore gen. Vecchiarelli, che gli aveva ordinato di consegnare le armi ai tedeschi), sia di chi abbia voluto far ricadere la maggiore responsabilità su Gandin senza tener conto del fatto che egli si trovò nella condizione di non potersi opporre a quella forte minoranza (esistente specialmente nell'artiglieria) che, facendosi forte dell'ordine del governo Badoglio, mise in atto un'insubordinazione il 13 settembre sparando contro i tedeschi e dando a questi un motivo per reagire militarmente. Questa minoranza risultò essere stata obbediente a dei sottufficiali sottrattisi agli ordini di Gandin, e, ciononostante, la sua insubordinazione fu poi premiata, per interessi politici, soprattutto dei comunisti, come prima manifestazione della Resistenza.
Il fanatismo ideologico portò i comunisti cosiddetti partigiani a sentirsi prima comunisti che italiani nel combattere a favore dell'esercito comunista jugoslavo per favorire l'occupazione dell'Istria e nel cooperare al massacro dei partigiani non comunisti e degli italiani istriani finiti nelle foibe. L'infamia storica ricada su di essi, a incominciare da Togliatti - il Peggiore – che, facendo parte del primo governo De Gasperi, impedì in sede internazionale la difesa del confine istriano, favorendo in compenso, con totale spregiudicatezza, l'introduzione nella Costituzione (art. 7) dei Patti Lateranensi, così da costituire uno Stato laico dimezzato.
Ricordiamo quanto il Peggiore fece a danno dell'Italia dopo essere tornato dalla sua vera patria, l'Unione Sovietica. Questo doppiogiochista da una parte aderì al governo Badoglio su direttiva di Stalin, in un momento storico in cui, sulla base degli accordi di Yalta, l'Europa era stata già divisa in due, con l'esclusione dell'Italia dal blocco sovietico, dall'altra nei giorni 12 e 13 settembre 1943 aveva convenuto con il partito comunista croato che l'Istria (compresa Trieste) dovesse far parte della Croazia, facendo presente che sarebbe stato utile per la causa comunista che Tito occupasse anche la Venezia Giulia. A tal fine ritenne opportuno che il movimento partigiano dell'Istria passasse sotto il controllo del partito comunista croato in cambio del riconoscimento dei comunisti italiani come rappresentanti della minoranza italiana all'interno della Jugoslavia. Per questo osteggiò qualsiasi tentativo di pacificazione con i fascisti voluta dalla maggioranza del CLN e promosse una campagna di attentati terroristici, rifiutando che i comunisti affiancassero le poche unità regolari rimaste dell'esercito regio e gli eserciti alleati. Delle due divisioni italiane che operavano nella Venezia Giulia (la Osoppo e la Garibaldi Natisone) la seconda (di comunisti) decise di passare agli ordini del IX Korpus sloveno. Nel contesto di queste direttive dei comunisti va posto la trappola in cui caddero alcuni partigiani bianchi sul monte Canizza (al di qua del confine attuale della Venezia Giulia), massacrati da quelli comunisti comandati da Mario Toffanin, detto Giacca. Gli autori della carneficina, identificati nel numero di 37, furono condannati dopo la guerra a 800 anni di carcere. Ma sopraggiunse poi l'amnistia voluta dal ministro della giustizia Togliatti, non tanto per salvare i fascisti, quanto per salvare i comunisti. Ma Giacca e il suo compagno Vanni, che erano già fuggiti in Jugoslavia e poi in Cecoslovacchia, furono condannati a 30 anni. Il secondo fu graziato nel 1959 e il primo, maggiore responsabile, fu graziato nel 1978 da Pertini, mandante di plurimi assassini.[25]
Erede degno della antitalianità del comunismo è oggi il capo dello Stato Giorgio Napolitano, che aveva 22 anni nel 1946 e doveva sapere delle foibe istriane. Ma non se ne poteva parlare allora nemmeno da parte di altri partiti, facenti parte dei primi governi di coalizione, né se ne parlò successivamente per evitare di tenere aperta una ferita cocente, non esasperando il conflitto con i comunisti ed evitando di compromettere i rapporti di vicinato con la Jugoslavia di Tito, scomparso il quale venne fuori la verità. In nome dell'unità nazionale dei partiti non fu contrastata in sede internazionale, subito dopo la guerra, la cessione dell'Istria alla Jugoslavia, già occupata dalle armate comuniste, e i 300.000 profughi istriani vennero accolti come stranieri in Italia, con fastidio e sopportazione. Con lacrime da coccodrillo Napolitano si accorse dopo molti decenni dell'esistenza delle foibe. Ma non si pentì mai di avere plaudito, insieme con tutta la dirigenza del P.C.I., alla repressione della rivolta ungherese che causò 20.000 morti.
La mattina stessa della sua elezione a capo dello Stato gli inviai una racc. A. R. in Senato, scrivendogli: “Lei con soli 543 voti mi rappresenta un cazzo! Lei nel 1956, sentendosi più sovietico che italiano, plaudiva con Togliatti ai carri armati sovietici a Budapest. Questo è un marchio di infamia. Il passato non può essere cancellato. Ci si può redimere nella coscienza, ma non – e per ragioni di opportunismo politico – come figura pubblica. Si dovrà, comunque, fare la verifica dei voti nulli per sapere se la Sua nomina sia legittima. Anche per questo, se Lei avesse avuto dignità, non avrebbe dovuto accettare la nomina. Si consideri, al massimo, presidente di metà degli italiani”.
Analizzo la sconcertante sentenza della Cassazione (Sezione I penale, n.1560/99)[26] che è un vero pasticcio di contraddizioni, scaturenti dal tentativo scoperto di salvare gli assassini, protetti dal clima politico-ideologico da cui nacque l'identificazione degli attentati dei partigiani come azioni di guerra. La sentenza riprende nel 1999 in esame l'attentato di via Rasella in conseguenza del fatto che i parenti, sia quelli dei civili vittime dell'attentato di via Rasella, sia quelli delle vittime della rappresaglia, avevano aperto un procedimento contro i tre principali e citati manovali dell'attentato. Il P.M aveva presentato richiesta di archiviazione, formulata sulla base della considerazione che l'attentato ricadeva nell'amnistia disposta con D.P.R. del 5 aprile 1944 n. 96. Il G.I.P. aveva accolto la richiesta ma soltanto dopo avere ordinato un supplemento di indagini per cambiare le motivazioni dell'archiviazione. Non si trattava di applicare l'amnistia ma di stabilire se l'attentato fosse da ritenere lecito in quanto da considerarsi come azione di guerra (con la conseguente caduta dell'accusa mossa contro gli attentatori). Il G.I.P. ritenne che l'attentato non fosse un'azione di guerra, ma, pur essendo esso condannabile, ritenne di dover archiviare il procedimento perché esso non era più punibile in base la Decreto L.vo luogotenenziale n.194 del 1945 che diceva che non erano punibili “gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica”. Gli attentatori si salvarono grazie a provvedimenti successivi agli attentati. Legge ad personas. A questo punto i tre principali manovali dell'assassinio di via Rasella (i citati Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo) - non contenti né della motivazione della richiesta di archiviazione del P.M. (che faceva riferimento all'amnistia) né di quella che accompagnava la decisione di archiviazione del G.I.P., che riconosceva implicitamente che essi non fossero dei legittimi combattenti - per paura di apparire veramente quali essi erano, degli assassini, impugnarono l'ordinanza di archiviazione nel suo contenuto. La sentenza della Cassazione, che ho esaminato interamente, appare un cumulo di affermazioni del tutto illogiche, e perciò disoneste. Partendo dalla premessa che l'archiviazione potesse essere prevista, non per sopravvenuta amnistia o sopravvenuta legge (il citato decreto n.194 del 1945), non potendo questa avere valore retroattivo in sede penale se il reato di strage fosse stato confermato (secondo la tesi del G.I.P.), la Cassazione non aveva altra via di uscita per salvare gli attentatori se non quella di considerare l'attentato come una normale azione di guerra, pur sapendo che nell'attentato erano morti anche dei civili, tra cui un bambino. Pertanto confermò l'archiviazione del G.I.P. ma ne cambiò il contenuto considerando che già le Sezioni Unite Civili della Cassazione (con sentenza 19 luglio 1957, n. 3053) avevano ritenuto che le organizzazioni partigiane non fossero da considerarsi clandestine e prive dei requisiti previsti dalla Convenzione dell'Aja del 18.8.1907 e che pertanto tali organizzazioni fossero riconducibili allo Stato italiano. Questa cervellotica conclusione partiva dalla premessa che “il tema della liceità dell'attentato...non poteva essere risolto con riferimento al decreto luogotenenziale n.194 del 1945, emanato successivamente alla “rappresaglia” in questione...qualificata con effetto retroattivo 'azione di guerra'...Ma ciò posto in evidenza non ne deriva affatto la non riconducibilità allo Stato italiano, per quanto si riferisce al coinvolgimento nell'attentato anche di vittime civili, dell'azione dei partigiani”. In sostanza, pur essendosi ritenuta non applicabile con effetto retroattivo il decreto del 1945, tuttavia gli attentatori non erano punibili perché il Governo legittimo (naturalmente quello facente capo al fuggiasco governo regio di Brindisi) sin dal 31 ottobre 1943 “aveva incitato gli italiani a ribellarsi e a contrastare con ogni mezzo l'occupazione tedesca”, e che ciò era stato già rilevato dalla citata sentenza civile delle Sezioni Unite. A corredo di questa conclusione la sentenza del 1999 in esame faceva riferimento alla sentenza (25.10.1952, n.1711) del Tribunale Supremo Militare che, riconoscendo illegittimo l'esercizio della rappresaglia in quanto l'azione di via Rasella doveva essere qualificata nella sua linearità come “atto di ostilità a danno delle forze militari occupanti, commesso da persone che hanno la qualità di legittimi belligeranti”, rovesciava la sentenza (27.7.1948, n.631) emessa contro Kappler dal Tribunale Militare di Roma che, pur avendo riconosciuto l'illegittimità della rappresaglia – ma solo per violazione del principio di proporzionalità (ne erano stati uccisi 15 in più)[27] - aveva negato la natura di legittimità azione di guerra dell'attentato.
Con ciò la Cassazione non si avvide, o fece finta di non avvedersi, delle conseguenze aberranti. In primo luogo la Cassazione si faceva complice dell'allora “governo” italiano nel riconoscere come teatro di guerra una strada in cui vi furono delle vittime civili. In secondo luogo si sarebbero dovute addebitare all'inconsistente governo regio anche tutte le rappresaglie attuate dai partigiani, facendo finta che il sedicente CLN prendesse ordini dal “governo” regio e che i vari gruppi di partigiani non operassero anche separatamente tra loro con dei capi che si erano autoinvestiti del titolo di comandanti delle rispettive bande. Dovrebbe addebitarsi al “governo” italiano anche la vigliacca uccisione di Giovanni Gentile, di uno che, pur non avendo mai rinnegato il suo passato di fascista, si batté sino all'ultimo per una riconciliazione nazionale, osteggiata dai partigiani comunisti. Gli assassini, appartenenti ai Gap toscani, tenendo dei libri sottobraccio per essere creduti degli studenti, si avvicinarono all'auto che era appena arrivata di fronte alla villa di Gentile, che ingenuamente aprì il finestrino per parlare con essi. E fu ucciso con spietata freddezza. Anche questa fu un'azione di guerra attuata da legittimi belligeranti? E l'uccisione di Gentile è soltanto il più illustre esempio di ciò che molte bande partigiane intendevano come “lotta di liberazione”. La conseguenza fu che anche con questa sentenza politica fu negato il risarcimento dei danni ai parenti delle vittime dei partigiani per non dover riconoscere che lo Stato repubblicano, erede di quello regio, avrebbe dovuto farsi carico di tale risarcimento. Ma avrebbe dovuto riconoscere di essere nato, non da una guerra di liberazione, ma da una guerra persa.
La vergognosa sentenza della Cassazione ha voluto ignorare una sentenza del Tribunale Supremo Militare del 26 aprile 1954, che, mentre non riconosceva un potere sovrano al pur legittimo governo di Badoglio, considerando che l'Italia del sud era di fatto sotto il controllo degli alleati anglo-americani, da cui riceveva gli ordini, riconosceva che il governo della R.S.I., nonostante il forte inserimento delle forze armate tedesche, conservava la posizione giuridica di un governo di fatto con le sue indipendenti istituzioni e con le sue leggi, su cui non aveva giuridicamente alcun potere il governo del sud Italia. Conseguentemente lo stesso Tribunale riconosceva la qualità di belligeranti regolari ai combattenti della R.S.I. e a quelli regolari dipendenti dal governo del sud, mentre non riconosceva la stessa qualità ai partigiani.
Dice la sentenza del Tribunale Supremo Militare che i partigiani “non potevano essere trattati da belligeranti, ed essendo certi che l'avversario - appunto per difetto di tale loro qualità - li avrebbe spietatamente perseguiti. Infatti, i combattenti delle truppe regolari italiane, se fatti prigionieri, non subivano le repressioni dei plotoni di esecuzione; le subivano, invece, i partigiani che non potevano farsi usbergo della qualifica suddetta...Al riguardo non vale argomentare che i partigiani fiancheggiavano le truppe regolari italiane, e che facevano capo ai comandi italiani e alleati, per poi dedurne che avevano dei capi responsabili; è necessario, invece, per risolvere la questione, riferirsi esclusivamente alle formazioni partigiane, considerate per se stesse, per quello che erano e per il modo con cui si manifestarono, senza risalire ai comandanti superiori delle Forze Armate, ben noti e riconosciuti sotto il loro vero nome".
La sentenza riconosce come legittimi belligeranti non tutti i partigiani, ma solo quelli che avessero avuto riconosciuta tale qualifica ai sensi del D.Lgs.C.P.S. 6 settembre 1946, n. 93 (Equiparazione, a tutti gli effetti, dei partigiani combattenti ai militari volontari che hanno operato con le unità regolari delle Forze armate nella guerra di liberazione).
Il 28 giugno 1997, pur non avendo ancora fatto specifiche letture sull'attentato di via Rasella, mi lasciai guidare dall'evidenza dei fatti, anche sulla base del ricordo del racconto fattomi da mio padre, e inviai alla Procura presso il Tribunale penale di Roma una mia denuncia per strage contro Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi. In essa scrivevo: “Non si può nella fattispecie parlare di azione di guerra, anche perché dalle notizie in mio possesso pare che la pattuglia di soldati tedeschi fosse disarmata. Trattasi pertanto di azione proditoria che è all'origine della rappresaglia tedesca prevista nel codice internazionale di guerra. Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Pasquale Balsamo, nonché i loro complici, sono dunque i veri responsabili della morte di coloro che furono uccisi alle fosse ardeatine, e la giustizia attende ancora che i veri responsabili rispondano del loro atto criminale. P.S. La gravità dell'atto criminale descritto è tanto maggiore in quanto i suoi responsabili non si costituirono quando il comando tedesco chiese che si presentassero per evitare la annunciata rappresaglia. A chi indegnamente si fregia di una medaglia d'oro[28] dovendo avere sulla coscienza la vita di centinaia di innocenti contrappongo la luminosa figura di Salvo D'Acquisto che si immolò innocente per evitare una rappresaglia. Non può essere teatro di guerra una strada cittadina dove rimangono uccisi dei civili e persino un bambino”. Mi fu risposto negativamente. Ma, non riuscendo a trovare oggi tra le mie carte la risposta, non posso dire se essa sia stata di archiviazione per prescrizione o per insussistenza del reato. D'altronde, non sapevo ancora che vi fossero ancora dei procedimenti in corso contro i soprannominati assassini.
Il quotidiano Il Giornale dovette subire in 10 anni ben quattro condanne per diffamazione per avere contrastato la versione dell'attentato di via Rasella come azione di guerra. L'ultima quella da parte del Tribunale di Monza, sezione di Desio (17 marzo 2009), dopo la terza condanna del 7 agosto 2007 da parte della Cassazione),[29] e il quotidiano Il Tempo, su querela della figlia del Bentivegna, subì anch'esso una condanna (il 22 luglio 2009) da parte della Cassazione per avere definito “massacratori” i responsabili dell'attentato. Eppure nei primi due gradi del giudizio il quotidiano romano era stato assolto, e nel settembre del 2006 un altro tribunale aveva stabilito il non luogo a procedere nei confronti del segretario romano di Fiamma Tricolore Giuliano Castellino per avere anch'egli definito “massacratore” il Bentivegna.
Questo netto contrasto tra tribunali civili, tra tribunali penali e tribunali militari dimostra che giustizia non è stata mai fatta per il prevalere di interessi politici. Sino a quando si continuerà a trattare la storia sul piano di una asserita superiorità etica (della parte vincitrice), invece che su quello strettamente giuridico, si continuerà a sostituire la retorica ideologica della “lotta di liberazione” all'analisi storica dei fatti.
Mi sono voluto addentrare nella considerazione di questi tragici fatti perché voglio lasciare della mia vita una testimonianza, se non di verità, almeno di ricerca della verità, perché per tutta una vita sono stato costretto a subire la retorica del 25 aprile, che non può più essere considerato un giorno di festa se non da coloro che ancora vogliano partigianamente trovare il male solo da una parte e giustificare la nascita di una Repubblica che non nacque da una guerra di liberazione, ma da una guerra persa, al di là del giudizio che di essa possa essere dato, se sia stato meglio vincerla o perderla.
Si può dire che il nazismo sia stato la rovina del fascismo perché trascinò l'Italia in guerra pur non essendo essa preparata. E questo dimostra come il fascismo non avesse più altre aspirazioni di guerra nel 1939. A sua volta proprio l'impreparazione dell'Italia fu la rovina del nazismo in guerra perché lo costrinse ad intervenire ogni volta per salvare gli impreparati eserciti italiani che, mandati allo sbaraglio da Mussolini, causarono l'intervento tedesco prima in Grecia (dove la Germania dovette intervenire per salvare l'impantanato esercito italiano pur non avendo in Grecia alcun interesse strategico di guerra) e poi in Africa, dove scriteriatamente il governo fascista mosse guerra all'Inghilterra invadendo l'Egitto pur non avendo colà alcun interesse, con la conseguenza di una distrazione in Africa di un esercito di salvataggio tedesco, sottratto alle operazioni di guerra in Europa e con la sconfitta evitabile di El Alamein. Bisogna riconoscere che la Germania non si sottrasse mai ai doveri di alleanza con l'Italia, pur ricavando da essa soltanto conseguenze negative. Se l'Italia fosse rimasta neutrale la Germania dopo l'8 settembre non avrebbe avuto bisogno di aprire un nuovo ed inutile fronte di guerra in Italia, e soltanto per salvare il fascismo, pessimo alleato.
Due mali si allearono fra loro. Ma la cura contro questi due mali fu la vittoria di un altro male, quello di un'altra dittatura, dell'Unione Sovietica di Stalin. Mali che nascono da governi sorretti da ideologie ispirantisi a certezze che generano opposti fanatismi.
[1] V. voce“Leggi di guerra nel XX secolo” nel sito www.cronologia.leonardo.storia.it/guerra03.htm.
[2] Quando fu ucciso il generale americano Rose nel marzo del 1945 furono uccisi per rappresaglia 110 civili tedeschi. Per le rappresaglie attuate da inglesi ed americani cfr. “1945 seconda guerra mondiale le RAPPRESAGLIE” nel sito www.cronologia.leonardo.storia.it/storia/a1945s.htm.
[3] www.inilossum.it/comunismo6.html (La strage di via Rasella:un atto “eroico”).V. la descrizione del procedimento contro Kesserling in www.difesa.it/GiustiziaMilitare/RassegnaGM/Processi/AlbertKesserling. Per una rassegna dei processi condotti negli anni 1947-51 contro i nazisti v. www.storicamente.org/Focardi_shoa/htm. Per conoscere la contraddittoria difesa dell'attentato di via Rasella da parte dell'Associazione Nazionale Partigiani v. www.anpibagnoaripoli/doc//testiNoteDominiciSuViaRasella.
[4] V. su Google carteggio Churchill-Mussolini. In particolare cronologia.leonardo.it e controstoria.it.(Mussolini fucilato-da chi?).
[5] I principali manovali dell'attacco proditorio, da ritenersi di natura terroristica e non azione di guerra perché attuato fuori di un'azione di guerra tra nemici dichiarati sono stati Rosario Bentivegna (che fece esplodere la bomba posta in un carretto dopo essersi travestito da spazzino), Carla Capponi, Pasquale Balsamo e Franco Calamandrei. Gli ultimi tre avevano il compito di segnalare al primo l'arrivo di un battaglione del reggimento (Bozen) di altoatesini che aveva solo compiti di polizia e si dice transitasse disarmato (almeno perché avevano l'ordine di transitare con le armi scariche). Un gruppo di sostegno lanciò altre bombe sulla coda del battaglione portando i morti a 32. I primi tre ebbero nel 1951 dal presidente della Repubblica, su proposta di De Gasperi, rispettivamente una medaglia d'argento, d'oro e di bronzo. Evidentemente la Capponi come terrorista aveva più benemerenze. L'attacco proditorio fu preparato da Carlo Salinari, che negli anni '60 mi ritrovai come professore ordinario di letteratura italiana nella Facoltà di Magistero di Cagliari. Suo è il noto manuale di letteratura italiana adottato in molte scuole. Di indirizzo marxista, come lo era Giuseppe Petronio, professore di letteratura italiana, con cui detti l'esame da studente del corso di filosofia della Facoltà di Lettere e filosofia.
[6] V. l'articolo citato “La strage di via Rasella: un atto “eroico”. V. anche (a cura di Reno Bromuro) “L'attentato di via Rasella”, in www.nonsoloparole.com. (riportante un articolo di Ivaldo Giaquinto (“L'imboscata di via Rasella. Ma questa era guerra?”, in www.italia-rsi.org.
[7] Tra i comunisti non appartenenti al P.C.I. vi erano quelli di “Bandiera Rossa” (formata da troskisti), alcuni dei quali finirono a Regina Coeli e poi alle Fosse Ardeatine. Alcuni sopravvissuti dissero che la loro presenza in via Rasella fu voluta dal P.C.I. per farli cadere in una trappola e far ricadere su di essi le responsabilità. V. di Pierangelo Maurizio “via Rasella, un mistero che dura sessant'anni” (Il Giornale, 12 agosto 2007), in www.mascellaro.it/taxonomy/term/35.
[8] V. voce “D'Acquisto Salvo (salvatore) 23 settembre 1943 in www.cronologia.leonardo.it/storia/a1943za.htm.
[9] V. cronologia.leonardo.it/storia/a1945s. Le rappresaglie. V. anche nota 103.
[10] In questo senso è stato citata la sentenza da Giampaolo Pansa in Sconosciuto 1945 (Sperling&Kupfer 2005, pp.376 sgg.). In realtà il decreto del 6 settembre 1946 riconosceva la qualifica di belligeranti anche ai partigiani, come confermato dal decreto legislativo 4 marzo 1948, n.137. Una rassegna faziosa di processi a vari comandanti nazisti (tra cui Kapler, Priebke, Haas, Stommel, Reder) è volta a condannare la rappresaglia a posteriori, dopo la guerra, secondo il diritto internazionale delle Nazioni Unite (www.difesa.it/GiustiziaMilitare/RassegnaGM/Proces cessi/HeinrichNordhom.17.La rappresaglia).
[11] Per tali notizie v. Salvo D'acquisto e la strage di via Rasella, compreso nell'articolo citato nella nota 89.
[12] V. D'Acquisto Salvo-23 settembre 1943, art. cit. (nota 89).
[13] V. la voce “La strage di Marzabotto: le vittime furono 750 e non 1820, nel sito laperfetta letizia.blogspot.com (3.7.09). Si tratta di un sito che è la “rivista giornalistica cattolica di informazione e attualità”.
[14] Paolo Pezzino, Sant'Anna di Stazzema. Storia di una strage, Il Mulino 2008.
[15] “La strage di Sant'Anna di Stazzema”, da Wikipedia.
[16] V. di Giuseppe di Bella “Le rappresaglie dei nazisti in Italia:una strage annunciata”(4 maggio 2009), sito www.siciliainformazioni.com/giornale/cultura/50915/rappresaglia.
[17]V.“Dresda 1945-Un inutile massacro”(cronologia.leonardo.it/storia/a1945n.htm);“Dresda 1945:la barbarie”.(www.chefare.org/archivcf/cf52/dresda45html);“I crimini dei vincitori-I bombardamenti in Germania” (ww.controstoria.it). Il numero dei morti è oggi valutato sui 40.000. Ma non si tien conto del fatto che Dresda ( che nel 1939 aveva circa 630.000 abitanti) era divenuta rifugio degli sfollati della Slesia e dell'Europa orientale, non iscritti nei registri anagrafici. Da altri si è calcolato un numero di circa 200.000.
[18]Ernest Armstrong, Rappresaglie partigiane,www.laltraverita.it/Documenti/rappreaglie_partigiane.htm..
[19 Eric Morris, La guerra inutile. La campagna d'Italia 1943.45, Longanesi 1993, pp. 14-15 e p. 456.
[20] Carlo Mazzantini, I balilla andarono a Salò, Marsilio 2002;pp.168-70.
[21] Oggi si dice che siano stati solo due, tra cui un bambino di 10 anni. Ma il Messaggero del 28 marzo scrisse che erano stati sette.
[22] Si iniziò subito con il D.Lgt 5.4.1945, n.158 (che riconosceva la qualifica di “patriota combattente”, comportante benefici di ogni genere). Seguirono il D.Lgt 21.8.45 (che disciplinava “il riconoscimento delle qualifiche di partigiani e l'esame di proposte di ricompensa), quello del 6.9.1946 (che, ponendo a carico dello Stato i danni di guerra causati dalle forze alleate o nemiche, equiparava ad esse le formazioni volontarie) e la legge 21.3. 1958, n. 285 (che ha riconosciuto “come corpo organizzato inquadrato nelle forze armate dello Stato il “corpo Volontari della libertà”.
[23] La prima tesi è rappresentata soprattutto da Paolo Paoletti (I traditi di Cefalonia. La vicenda della divisione Acqui 1943.45, ed. Frilli 2003; Cefalonia 1943:una verità inimmaginabile, Franco Angeli 2007; Il capitano Apollonio l'eroe di Cefalonia. La manipolazione della storia sulla divisione Acqui, Frilli 2006; Cefalonia. Sangue intorno alla casetta rossa. La fucilazione degli ufficiali della divisione Acqui. 1943.45, ed. EA 2009). La seconda è rappresentata da Massimo Filippini (La vera storia dell'eccidio di Cefalonia, ed MA.RO 2001; La tragedia di Cefalonia: un mito scomodo, IBN 2004; I caduti di Cefalonia: fine di un mito, IBN 2006), Figlio di uno dei fucilati, Filippini scrive che essi non furono più di 400, mentre i morti complessivi (compresi quelli morti in combattimento) non sarebbero stati più di 1.700. A parte i circa 1.300 morti che perirono in mare a causa delle mine marine poste dagli anglo-americani che affondarono alcune navi tedesche che trasportavano i prigionieri della Divisione Aqui, contravvenendo all'ordine di Hitler di non fare prigionieri. Di Filippini è anche il ricco sito www.cefalonia.it. La tesi di Filippini appare contraddittoria. Egli assolve Gandin presentandolo come vittima, da una parte, di una rivolta di alcuni suoi sottufficiali che egli definisce “atto di sedizione”, dall'altra della “criminosità” dell'ordine di Badoglio di resistere ai tedeschi. Secondo Filippini Gandin avrebbe fatto meglio a non rispettare tale ordine. E porta ad esempio alcuni generali che furono assolti perché ritennero gli ordini ineseguibili per le conseguenze che avrebbero avuto sulle truppe. Non si capisce pertanto perché Filippini difenda Gandin per essere stato ligio all'ordine del governo Badoglio e non abbia consegnato le armi ai tedeschi rispettando l'ordine, pervenutogli prima dal gen. Vecchiarelli, suo diretto superiore in quanto comandante dell'XI armata di stanza ad Atene (da cui dipendeva la Divisione Acqui).
V. anche (a cura di Giorgio Rochat e Marcello Venturi) La divisione Acqui a Cefalonia, settembre 1943, Mursia 1993. Rochat assolve sostanzialmente Gandin dall'accusa di non avere accettato di consegnare le armi ai tedeschi, perché avrebbe obbedito ad un ordine superiore (evidentemente quello del governo Badoglio). Ma Rochat, nella sua ricostruzione dei fatti (per cui attinge anche a due libri dello storico tedesco Gerhard Screiber ( I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, 1943-45, Roma 1992; La vendetta tedesca 1943-45. Le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori 2000), pur riconoscendo che Gandin non seppe sottrarsi ad atti di indisciplina da parte di molti suoi ufficiali e che, se avesse rispettato l'ordine del comando dell'XI armata italiana (ad Atene) di cedere le armi, la divisione Acqui sarebbe stata risparmiata (contro l'ordine di Hitler di non fare prigionieri), anche se sarebbe stata deportata in Germania (come di fatto furono deportati coloro della stessa divisione Acqui che risultarono non avere combattuto contro i tedeschi), inspiegabilmente non ritiene responsabile Gandin, se non di tradimento (tesi di Paoletti), almeno del fatto di non avere obbedito il 9 settembre all'ordine del gen.Vecchiarelli e di avere preferito attendere l'opposto ordine del governo Badoglio del 13 settembre (nonostante la mancanza di una dichiarazione di guerra alla Germania, avvenuta soltanto il 13 ottobre), pur sapendo quale sarebbe stata la conseguenza, “un combattimento senza speranza”, avendo inoltre obbedito alla sua coscienza. Quale coscienza? Era stato sempre fascista e filonazista. Gandin tenne nascosto l'ordine del gen. Vecchiarelli. Rochat riconosce che soldati inglesi, sbarcati inutilmente a Cefalonia e a Corfù, furono risparmiati dai tedeschi perché trattati come prigionieri di guerra. Sulla cronologia degli ordini contraddittori v. in nota successiva www.arcobaleno.net (in cui si scrive che solo il comandante della Regia Marina e il colonnello d'artiglieria Romagnoli erano avevano espresso la volontà di combattere contro i tedeschi. Rochat presenta falsamente la decisione di combattere come assunta da tutta la Divisione, pur riconoscendo che Gandin la assunse sotto la pressione di vari atti di indisciplina da parte dei sottufficiali che volevano combattere. Lo stesso Rochat, contraddittoriamente, scrive che bisogna “evitare la retorica del tutti eroi” e considera la strage di Cefalonia come prima espressione della lotta di Resistenza. Giorgio Rochat ha scritto anche un importante articolo che riassume la tragica vicenda in users.libero.it. In esso ridimensiona il numero dei militari morti a Cefalonia, portandolo ad un numero tra 3800 e 4000. Più 1360 morti in mare per affondamento di navi tedesche. A sostegno della sua tesi Rochat riferisce di una sentenza del 1957 del Tribunale di Roma che assolse gli ufficiali italiani di Cefalonia. Come se una sentenza potesse sostituirsi al giudizio non partigiano della storia. Comunque, Filippini (v. sito sotto citato cronologia.leonardo.it) ha fatto riferimento ad una sentenza di assoluzione (del giugno 1946) del gen. Antonio Basso (operante in Sardegna) nonostante avesse disobbedito ad ordini provenuti dal governo Badoglio perché ritenuti ineseguibili a causa delle gravissime conseguenze che avrebbero causato per le sue truppe. Per lo stesso motivo molti ufficiali furono processati e prosciolti in istruttoria. Non si capisce però perché Filippini, contraddittoriamente, non abbia ritenuto Gandin responsabile anch'egli del fatto di avere obbedito, pur dopo tanta indecisione, agli ordini di Badoglio.
Inattendibile, oltre che per avere enfatizzato il numero delle vittime (9406), anche per la fondamentale contraddizione tra l'avere, da una parte, rilevato le posizioni altalenanti rinunciatarie di Gandin e riconosciuto la rivolta contro di lui da parte di molti ufficiali suoi subordinati come atto di insubordinazione e l'avere, dall'altra, attribuito unicamente ai tedeschi le colpe, il libro di Alfio Caruso Italiani dovete morire (Longanesi 2000), che presenta l'insubordinazione come azione di guerra appartenente alla storia della Resistenza.
[24] Ho trovato riprodotti i relativi documenti nel sito www.storiaememoria.it. Riporto una serie di importanti siti in cui viene trattata la vicenda in questione. Prima di tutto cronologia.leonardo.it (Cefalonia-La strage del 1943), che riporta una disputa tra Paolo Paoletti e Massimo Filippini; www.storia.in.net, La strage di Cefalonia, di Paolo Deotto (che ha incluso una lunga intervista a Filippini); www.pacioli.net,1943 Cefalonia storia di una strage divisione acqui; www.lancora.com, Divisione Acqui-Una sentenza inqualificabile (in cui trattasi della sentenza di Monaco di Baviera che nel 2006 assolse l'ex sottotenente che fu l'ultimo dei fucilatori degli ufficiali della divisione Acqui); www.storiaememoria.it, La divisione Acqui a Cefalonia; www.arcobaleno.net.
Attualità, La resistenza, Cefalonia, Lero (di Gerardo Giacummo); L'8 settembre del 1943 a Cefalonia e Corfù, in .funzioniobiettivo.it, Da quest'ultimo sito risulta documentato che a Corfù furono fucilati soltanto gli ufficiali, a prova del fatto che, invece, a Cefalonia fu riconosciuta una partecipazione attiva di tutti quei soldati che seguirono gli ordini dei sottufficiali ribellatisi a Gandin, che poi, il 13 settembre (ordine del governo Badoglio), dopo vari giorni di indecisione, si affiancò ad essi.
[25] Sulla politica terroristica del P.C.I cfr. Jack Greene, Il principe nero. J.V. Borghese e la X mas, Mondadori 2007; Carlo Mazzantini, I balilla andarono a Salò, op. cit.; Arrigo Petacco, L'esodo. La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mondadori 2000. Sulla guerra civile cfr. anche Saul Bellow, La resa dei conti, Mondadori 200; Giorgio Pisanò, La generazione che on si è arresa, C.D.L. ed. 1993; Marco Picone Chiodo, In nome della resa, Mursia 1990.
[26] In www.uni.net.anfp/rasella.htm.
[27] In origine l'ordine partito da Berlino era di ucciderne 320, ma poi arrivò la notizia che era deceduto un ferito, che portò il numero delle vittime del battaglione altoatesino a 33. Dunque con la morte di 335 vittime della rappresaglia ne erano stati uccisi 5 in più.
[28] Allora non sapevo che soltanto la pluriassassina Capponi avesse avuto la medaglia d'oro in relazione ad altre sue imprese da terrorista.
[29] V. il giusto commento di Massimo Fini su “Quella disparità di giudizio tra via Rasella e la strage di Nassyria” (su Opinione del 17 agosto 2007, riportato in www.ladestra.info. V. inoltre di Pierangelo Maurizio “Via Rasella. Un mistero che dura sessant'anni” (Il Giornale, 12.08.2007).
2 commenti:
Ho letto le sue pagine con interesse, onuste di informazioni, dettagli, analisi acute, verità. Sostanzialmente concordo con lei, professore. Noto che lei è fra i pochi che ancora ricordano il sacrificio dei tre carabinieri di Fiesole, e di questo le sono grato.....
Un pensiero allo sventurato tredicenne Perrucchetti, garzone d'oreficeria, di passaggio per recarsi al lavoro. Dilaniato dalla bomba di via Rasella. Lui non ricevette medaglie , non si assise su nessuna cadrega in parlamento, alla Sapienza. Non ostante gli sforzi dei necrofori, ai genitori fu restituito un cranio, una porzione di busto fino le scapole. Niente altro. Chi si ricorda di lui? Certo fa comodo così, ha sempre fatto comodo così.
Errata corrige, il ragazzo dilaniato si chiamava Zuccheretti, scherzi dell''età e della memoria....
Posta un commento