Ogni anno si tiene il festival della filosofia su un tema diverso. Quest'anno il tema è l'amore. Ma da questo festival si desume che la filosofia è morta. Filosofi che si mettono in vetrina per blaterare su argomenti inutili e per sfoggiare la loro erudizione. Mi fanno ricordare una scherzosa definizione della filosofia: E' quella cosa con la quale o senza la quale le cose rimangono tali e quali. Perdura in essa una concezione antiscientifica e antropocenrica della natura. Filosofia accademica che va in piazza per dire nulla. La realtà passa sopra la loro testa. Vivono nel clima culturale del relativismo, del dialogo tra culture, nella confusione tra morale e diritto. Sono da rinchiudere in un museo antropologico della filosofia. La filosofia è morta, e i filosofi l'hanno uccisa avendo solo conoscenze letterarie e non scientifiche.
Remo Bodei: "Noi, poveri post umani,
schiavi delle nuove libertà"
Repidee - Dopo il successo di Bologna, Torino, Bari e Firenze il dialogo con i lettori prosegue. Sul sito del Festival il confronto sulle idee che ogni giorno sono ospitate dal quotidiano con i vostri commenti. Vivere in un'epoca oltre i confini di FRANCO MARCOALDIhome
Traggo dal mio volume Scontro tra culture e metacultura scientifica le seguenti pagine in occasione del festival della filosofia inventato da Remo Bodei.
Remo
Bodei, uno dei più noti esponenti della filosofia italiana, ha
scritto un “illuminante” articolo apparso il giorno dopo la morte
di Giovanni Paolo II.1
Esso analizza il tema del rapporto tra fede e ragione riproposto alla
luce della convinzione del papa – scrive Bodei - “che l’età
moderna s’inauguri con la nefasta separazione tra fedee ragione…la
ragione pretende di conoscere da sola la verità, senza bisogno
della rivelazione
(Fides et ratio, 5).
Da qui, secondo il papa – scrive sempre Bodei - “il relativismo
etico e cognitivo, al pari della deriva nichilistica della
democrazia, che dipende dalla smisurata presunzione del singolo
soggetto di ergersi a giudice e padrone della propria vita, recidento
il rapporto tra creatura e creatore”. Da qui anche l’accontentarsi
di verità parziali e provvisorie che evitano le domande
radicali sul senso della vita. Bodei osserva che l’etica laica non
è necessariamente ‘relativista’. Essa, come si espresse
William James, ha bisogno di un sistema credenze, che non si
oppongono di per sé alla verità e di cui abbiamo
bisogno per risolverci all’azione, pur dovendo tali credenze essere
empiricamente verificabili. Bodei ha omesso di aggiungere che tali
credenze per James implicano religiosamente la suprema “volontà
di credere” pragmatisticamente, per convenienza, in un Dio che, non
essendo nei cieli, ma sulla terra, garantisca una solidarietà
delle parti del mondo agendo come forza progressista in
collaborazione con esse, di modo che il progresso dipenda anche dalla
collaborazione delle parti. E’ l’immagine di un Dio finito
(Universo
pluralistico,
1909).Ora, si può osservare, se non è obbligatorio
credere in un Dio finito progressista che partecipi alla storia
dell’uomo, si può tuttavia ritenere che quella di James
fosse una soluzione religiosa giustificata dalla necessità di
dare un fondamento ontologico ai valori morali e un senso alla vita
umana.
Bodei
ha utilizzato James soltanto per una parte, quella legata più
strettamente al pragmatismo, per arrivare ad una proposta incoerente,
sulla base della negazione dei diritti naturali della persona, perché
la legge naturale (a cui fa riferimento il papa) per rivelarsi
necessiterebbe di una “grazia” divina, con il problema della
predestinazione. Bodei, volendo sottrarre i valori al relativismo, sa
offrire una medicina che è peggiore del male che vorrebbe
guarire. Infatti scrive: “tutti i valori poggiano su scelte
di fondo oscure o, in
ultima istanza, indecidibili in maniera assoluta, ma sentiamo di
doverne propugnare alcuni contro altri, non perché fondati sul
diritto naturale, su premesse date, ma perché progettati. Non
aiuta molto, nel combattere il relativismo…il ricorso al
‘paradigama perduto’ della ‘natura umana’, all’esistenza di
leggi immutabili e oggettive, la cui essenza rimane costante”.
Secondo Bodei “un corpo di regole e di leggi ha valore proprio
perché esse non esistono naturalmente, perché si deve
plasmare un mondo che non c’è ancora, dove la sofferenza e
l’ingiustizia siano battute e le opportunità di una vita
migliore (le ‘capacità’ e i ‘funzionamenti, come li
chiama Amarya Sen) siano incrementate”. E Bodei termina con un
esempio tratto dal Fedro
di Platone, per spiegare che “le due ali della fede e della ragione
possono collaborare, come accade ai due cavalli del mito platonico.
Basta sapere che ciascuno spinge in direzione diversa e che solo
l’abilità e l’autorità esercitate dall’auriga
possono, col l’uso delle briglie e del morso, rivolgere i loro
sforzi nella stessa direzione”.
A
tutto ciò si può replicare osservando che non c’è
peggior sordo di chi non vuol sentire. Il papa, sotto questo aspetto,
e dal suo punto di vista, ha avuto una coerenza che Bodei non ha e
che crede, invece, di avere. Innanzi tutto il riferimento al mito
platonico appare del tutto inadatto e improprio, essendo in netto
contrasto con la negazione di un diritto naturale, giacché
l’auriga (che rappresenta la ragione) cerca di guidare verso la
regione sopraceleste della verità eterne i due cavalli, di cui
uno,bianco “è nobile e buono, e di buona razza”, mentre
l’altro, di pelo nero, “è tutto il contrario ed è
di razza opposta” (246b, 253d). Il secondo, “maligno”, cerca di
tirare l’auriga verso terra, contrastando la ragione per impedire
all’auriga di “elevare il capo nella regione superceleste”,
dove scorgere “quella essenza incolore, informe ed intangibile,
contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella
essenza che è scaturiggine della vera scienza” (247c) e che
si scopre nella “Pianura della Verità” (248b). Platone,
coerentemente, ha sviluppato nel corso delle sue opere un concetto di
giustizia cosmica, che giunge, nel Timeo,
ad avere fondamento nell’opera ordinatrice del Demiurgo.
Bodei
non ha capito che il suo concetto di ragione può essere
rappresentato dall’auriga che non riesce a dominare il cavallo che
tira verso terra impedendogli di vedere verso l’alto. Infatti il
suo discorso non esce dal relativismo di quella zona di “scelte di
fondo oscure”
– a cui egli stesso si richiama - che fanno pensare al cavallo nero
del mito di Platone, e che non spiegano affatto perché uno
debba preferire combattere per la giustizia se, come disse già
il filosofo scettico Carneade (214-129 a. C.), i romani non potevano
ritenersi giusti impadronendosi delle terre di altri popoli, ma non
sarebbero stati saggi se le avessero restituite. Ma lo stoico greco
Panezio (180-106 a. C.), vissuto a Roma nel circolo degli Scipioni, e
Cicerone giustificavano la politica espansionistica di Roma con il
piegare a suo favore le tesi del precedente stoicismo di Cleante e di
Crisippo (IV sec. a,. C.), che consigliava al saggio di stare lontano
dalla politica per non avere turbamenti, ma che, identificando la
ragione naturale con la giustizia, superava con il suo cosmopolitismo
le strutture delle città-Stato nel nome della comune umanità
razionale in cui tutti gli uomini sono eguali. Così la legge
naturale degli stoici poteva essere interpretata come giustificazione
di una legge comune, quella romana, che unificasse diversi popoli.
Questa spiegazione, avanzata anche dallo storico greco Polibio
(208-126 a. C.), può essere interpretata oggi – diversamente
da allora - come comoda giustificazione della violenza ed espressione
di interessi economici e di potenza. Ma il punto è un altro.
La violenza romana cercava tra gli storici e i filosofi una
giustificazione in un diritto che non fosse soltanto il diritto della
forza. La stessa questione si è riproposta oggi con la domanda
se gli Stati occidentali abbiano il diritto di esportare con la
guerra la “democrazia” loro in altri Stati. Ma, al di là
dei mezzi violenti o pacifici con cui si possa esportare una certa
concezione del diritto, rimane il fatto che la filosofia oggi si
trova in contrasto con la concezione dei diritti umani espressi nelle
sedi internazionali, in cui, se pur in una concezione che rimane
antropocentrica, si sottintende una naturalità dei diritti
umani, anche quando in sede ONU si confondono i diritti umani con i
diritti sociali, che non sono naturali, ma convenzionali.
Rawls2
ha scritto che nelle relazioni tra Stati dovrebbe esistere un
denominatore comune costituito almeno dal rispetto dei diritti
individuali intesi come condizione di un ordinamento “decente” di
uno Stato, se pur non fondato sul contrattualismo dello Stato
liberaldemocratico. Sono dunque “indecenti” tutti gli Stati che
non rispettano tali diritti. Rawls non ha avuto il coraggio di
concludere coerentemente che è indecente
anche l’ONU, di cui
continuano a far parte molti Stati “indecenti”, come tutti i
Paesi islamici, che non ne rispettano la Carta nella loro politica
interna. D’altra parte, Rawls, contraddittoriamente, non andò
mai oltre una concezione contrattualistica, e perciò
convenzionalistica, dei diritti individuali. Pertanto, se i diritti
individuali nascono nel contesto di una contrattazione, è
impossibile condannare come “indecenti” quei Paesi che non
abbiano contrattato il rispetto dei diritti individuali di uno Stato
liberaldemocratico.
E
poi, ammesso che esista la giustizia non naturale, di cui scrive
Bodei, perché condannare i “crimini contro l’umanità”?
Perché sono una violazione dei diritti umani? Su che cosa sono
fondati i diritti umani? Una delle due: o si risponde come il papa, e
cioè che essi sono fondati sulla (retorica della) dignità
della persona (con cui si contrabbanda il diritto naturale), e
perciò, sul fatto che i diritti umani sono umani - il che è
una tautologia che, come tale, non spiega alcunché – oppure
i diritti umani sono convenzionali, e la condanna della loro
violazione è priva di normatività al di là di
una contrattazione di tali diritti. Inoltre, perché combattere
per la giustizia anche a proprio danno se anch’essa, per coerenza,
non può che nascere da quelle che Bodei chiama “scelte di
fondo oscure”? Perché sentirmi in obbligo di favorire le
opportunità di una vita migliore per tutti - come vorrebbe il
confusionario Amartya Sen, che, citato da Bodei a suo sostegno,
confonde l’economia con l’etica, invece di accomunarla con un
diritto prossimo a quello naturale, come fece un altro premio Nobel
per l’economia, Friedrich Hayek3
- se non sono interessato ad una migliore vita degli altri, non
avendone alcun vantaggio? Donde dovrebbe provenirmi tale
obbligazione? La “ragione” di Bodei è disarmata di fronte
a queste domande perché anch’essa esprime “scelte di fondo
oscure”, per cui non è in condizione di giudicare tra scelte
opposte, pur pretendendo di condannare quelle autoritarie. Rimasta
dentro il vecchio discorso sui valori morali – dimenticando la
lezione di Max Weber sulla “lotta mortale tra valori morali”–
vi si attorciglia senza poterne uscire con la giustificazione di una
normatività, avendo, sì, evitato la retorica stantia
della dignità umana, ma avendo anche negato che possa esistere
un diritto naturale come espressione della tendenza naturale
di ogni organismo, umano e non umano, alla propria
auto-conservazione, anche contro un eguale diritto, come nella catena
alimentare preda-predatore.
Il
fatto è che la filosofia contemporanea, ridottasi a filosofia
del dialogo, naviga a vista, senza bussola, anche quando cerca,
inutilmente, di superare il relativismo dei valori morali, mentre il
diritto naturale non ha valori morali da offrire,
bensì una norma giuridica che non è morale se non in
senso improprio. Infatti non comanda di fare del bene – cioè,
per esempio, di migliorare le “capacità” o i
“funzionamenti” di cui scrive Sen, trattandosi, in realtà,
di diritti convenzionali,
contrattabili - ma
vieta di danneggiare gli altri quando non si tratti di difendere la
propria vita, come nel mondo animale, dove il predatore uccide per
poter vivere, soltanto apparentemente usando violenza. Tutte le altre
norme sono convenzionali, e non morali, giustificabili in quanto non
siano in contrasto con la norma fondamentale. Il diritto naturale –
metaculturale come la
conoscenza scientifica, al contrario della filosofia e della
religione, che sono culturali
- oggi fa più paura che mai perché demolirebbe tutta la
tradizione antropocentrica del discorso sui valori morali, con
riflessi anche sull’economia del profitto, che è anche
economia di morte, dovendo essere il diritto naturale interpretato
oggi, sulla base dell’evoluzione biologica, come diritto che non
può essere della sola natura umana. Altrimenti non è
naturale. Rimane il “sonno dogmatico”4
dei triti valori morali di una concezione antropocentrica - e perciò
antiscientifica - da cui non sfugge nemmeno la morale laica, che,
infatti, in Bodei accetta una collaborazione con la fede, non
accorgendosi, per altro, di averla degradata paragonandola al cavallo
“nero, brutto e malvagio” del mito di Platone. Come se la fede,
così degradata, potesse accettare una collaborazione con la
ragione. Vi è, piuttosto, da domandarsi se la ragione possa
collaborare anche con il mito di Adamo del Genesi,
in cui Giovanni Paolo II ha visto “le origini della storia e della
cultura umana” e in cui si conserva l’immagine dell’uomo avente
il diritto di “soggiogare la terra”.5
Ciò, si badi, in contrasto con il documento vaticano del 1996
– di cui si tace pubblicamente – che ha accettato l’evoluzione
biologica di Darwin quattro anni dopo che la Chiesa, in altro
documento, ha chiesto perdono per la condanna di Galileo. E se esiste
un limite alla collaborazione, quale sarebbe? Il discorso rimane
confuso e la domanda senza risposta a causa della confusione della
morale laica con il diritto, rimanendo anch’essa antropocentrica
come quella del papa. In realtà è sempre la fede della
dottrina ufficiale che cerca la collaborazione della ragione per
sopravvivere, mentre la scienza, metaculturale, di tale
collaborazione non sa che farsene. Pertanto, l’esempio, proposto da
Bodei, ottenuto trasformando i due cavalli del mito platonico in
rappresentanti della fede e della ragione, è del tutto privo
di senso. Se Giovanni Paolo II ha ritenuto i diritti naturali fondati
sulla persona umana, tacendo dell’evoluzione biologica, non si può
per questo buttare il bambino con l’acqua sporca
dell’antropocentrismo della “persona umana” per buttare anche i
diritti naturali.
1
Il presente lavoro è stato terminato – pura coincidenza –
il giorno della morte del papa. L’articolo di Bodei inizia nella
prima pagina de Il
Sole-24 ore di
domenica 3 aprile 2005.
2
Il diritto dei
popoli, Comunità
2001.
3
Vi è una certa consonanza tra la concezione giuridica
(fondata sul diritto naturale di tutti gli animali) di Robert Nozick
(Anarchia, Stato e
Utopia, 1974) e la
teoria economico-giuridica di Hayek. Entrambi hanno tolto la
maschera della “giustizia sociale” ad una morale che si vuole
tradurre in diritto andando oltre i diritti negativi, che consistono
nel rispetto delle regole della libera contrattazione e del
liberalismo, che non significa diritto del più forte, ma
dovere, da parte di tutti, di rispettare le stesse regole, impedendo
qualsiasi forma di violenza e di frode, in base alla norma generale
neminem laedere
(Legge, legislazione e
libertà, 1982,
Il Saggiatore 1994, p. 137). Secondo Hayek è il conflitto
tra norme morali che ha generato norme superiori di diritto dal
rifiuto di rispettare certe norme morali. Lo Stato non può
che favorire un accordo sui mezzi necessari a conseguire i diversi
fini. Tali mezzi sono le regole di condotta del diritto privato, che
non possono non essere astratte, non potendo conseguire fini
specifici (pp. 164 sgg.). La giustizia riguarda il rispetto di tali
regole. Esse sono negative
perché proibiscono, invece di raccomandare, determinati tipi
di azione. Le leggi sono le regole della condotta che, in contrasto
con il giuspositivismo di Kelsen (pp. 238 sgg.) hanno come ideale
storico il diritto
naturale, che,
tuttavia, deve essere inteso, secondo Hayek, come prodotto di un
processo storico che può sembrare naturale in quanto non è
soltanto culturale, cioè convenzionale, rappresentando, come
ideale storico, la condizione indispensabile per arrivare ad un
ordine pacifico
universale. Hayek
esclude che le norme generali di condotta siano convenzionali, nel
senso di derivare “da una scelta deliberata da parte dell’uomo”
(p. 259). La “giustizia sociale” diventa per Hayek la scusa per
affidare al governo poteri, che esso non può avere, a favore
di interessi particolari. Più forti sono gli interessi
particolari e più forte diventa la richiesta di “giustizia
sociale” (p. 256). Le norme giuridiche generali (diritti negativi,
che proibiscono di causare dei danni) sono il risultato di un
processo che è simile a quello dell’evoluzione biologica,
che avanza per tentativi ed errori, lasciando che sia la selezione
naturale, basata sull’efficienza, ad eliminare i conflitti
nascenti (da opposte morali) con norme valide perché dotate
del requisito dell’universalità (pp. 528 sgg.).
4
Kant (nei Prolegomeni)
scrisse che la lettura dell’opera dell’empirista Hume lo aveva
risvegliato dal “sonno dogmatico” della precedente metafisica.
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