Riporto a commento quanto avevo già scritto in un capitolo del mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica: l'Occidente e il diritto naturale.
Secondo Vladimir Jankélévitch (Il perdono, IPL,1968, p.36) "il rifiuto di perdonare immobilizza il colpevole nella sua colpa, identifica l'agente con l'atto, riduce l'essere di questo agente all'aver fatto...Il rancoroso, inchiodando l'offensore nella sua essenza immutabile, incorrreggibile e definitiva di uomo colpevole, se la prende anche lui con un posto vuoto".
Egualmente, Paul Ricoeur (La memoria, la storia, l'oblio, ed. Raffaello Cortina 2003) ha cercato di slegare l'agente dalle sue azioni distinguendo tra l'uomo in potenza e l'uomo in atto, appellandosi anche a Kant quando questi scrive che, per quanto l'uomo sia soggetto al "male radicale", "oscuro", è disposto originariamente verso il bene (Kant, La religione nei limiti della sola ragione, I parte, Laterza 1994). Scrive Ricour: "il perdono dice al colpevole: vali più dei tuoi atti" (Ricour, Il dialogo ecumenico. Traduzione e perdono, in La traduzione. Una sfida etica, Morcelloana 2000, p.103).
Tuttavia Ricoeur riconosce che non vi può essere una politica del perdono (La memoria, p.694). Né il perdono può essere preteso, anche se può essere implorato. Ciò nonostante Ricoeur non rinuncia all'asserito contributo che il perdono nella colpa morale può dare nelle istituzioni per ristabilire un legame sociale tra l'offensore e l'offeso, trasformando il primo da nemico in amico. Anche nel caso della colpa criminale il perdono del colpevole, in quanto questo conserva il diritto alla considerazione, deve favorire la sua riabilitazione. Si tratterebbe di chiedere alla giustizia di essere più giusta: "L'incorporazione di un grado supplementare di compassione e di generosità in tutti i nostri codici - dal codice penale alle norme di giustizia sociale - costituisce un compito perfettamente ragionevole, benché difficile e interminabile" (Ricoeur, Amore e giustizia, Morceliana 2000, p. 45).
Quando il perdono, pur non cancellando la memoria del passato, la pacifica, si istituzionalizza nell'amnistisa, che "ha per finalità la riconciliazione tra cittadini nemici, la pace civica" (La memoria, p. 643). In sostanza, negando il perdono si rischierebbe di condannare il colpevole all'impossibilità di distinguersi dai suoi atti anche dopo il pentimento.
Si può obiettare che, se fosse valida questa considerazione di comodo, non vi sarebbero mai i colpevoli, che potrebbero rifugiarsi in un io sempre dissociato dai suoi atti, per cui si arriverebbe all'assurdo che ogni colpevole dovrebbe essere perdonato già prima di essere colpevole. D'altra parte, lo stesso Jankélévitch riconosce che il perdono può diventare immorale minimizzando il crimine.
Si vede quanto poco il perdono possa incidere sulla giustizia se non confondendo la morale con la giustizia. La questione deve essere considerata sotto un duplice aspetto. L'offeso - quando, naturalmente, non si tratti di omicidio - ha, apparentemente, il diritto di perdonare l'offensore in quanto, diversamente, egli non disporrebbe della sua persona e dei suoi beni. D'altra parte, l'applicazione di una norma di giustizia non può dipendere unicamente dalla volontà del singolo, se la norma deve avere un valore universale. Se l'ideale fosse, non il diritto dell'offeso di richiedere la punizione del colpevole, ma la sua volontà di perdonare l'offensore, nel prevalere della morale sul diritto, l'offeso incoraggerebbe ognuno ad offendere gli altri, anche coloro che non fossero disposti a perdonare, sovrapponendosi in tal modo alla loro volontà. Il perdono non può essere considerato soltanto come motivo di riduzione della pena. In tal modo si accorderebbe il diritto che ha il singolo di perdonare con il diritto degli altri di non perdonare. Ma chi, vittima innocente, è ucciso senza che abbia avuto o potuto manifestare la volontà di perdonare - cioè l'intenzione di sottrarre l'assassino alla pena capitale, da convertire in una pena detentiva - non può essere sostituito da altri. Non dai parenti, la cui volontà si sostituirebbe a quella dell'ucciso, né dallo Stato, che non può sovrapporsi arrogantemente alla volontà della vittima, tenendo in maggior conto la vita dell'assino rispetto a quella della vittima, che verrebbe doppiamente sacrificata: dall'assassino e dallo Stato, che se ne farebbe complice.
Coloro che, "allignando nella palude dell'emotivo" (Carlo Nicoletti, Sì alla pena di morte?, Cedam 1997, p.60), gonfi di sentimento, ma privi di ragione, atribuiscono ipocritamente alla pena una funzione rieducativa) come è attribuita ipocritamente dall'art. 27 della Costituzione italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i sostenitori della pena di morte.
Ma tra questi barbari dovrebbero essere compresi tutti i maggiori pensatori dall'antichità all'età moderna, a incominciare da Platone, da Aristotele e dal fondatore del cristianesomo che fu S. Paolo. Vedere per questo il mio sito collegato al blog e cliccare sulla voce "Per la pena di morte". Leggere quanto scrive Kant a favore della pena di morte in Metafisica dei costumi, dove accusa Beccaria di "affettato sentimentalismo", utilizzando proprio il principio di Beccaria della "proporzione tra i delitti e le pene". Il citato Ricoeur non ha tenuto conto di ciò, offrendo una immagine del tutto fuorviante di Kant su questo tema.
Oggi nella dottrina penale americana prevale una concezione retributiva della pena che giustifica la posizione di Kant basata sul principio di eguaglianza. La legge del taglione (lex talionis) raccomanda di “fare agli altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della regola aurea secondo cui bisogna “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In base alla lex talionis si ripristina l’eguaglianza che è stata turbata dal crimine E’ questa la tesi di J. H. Reiman.1 In base a tale principio il crimine è un attacco alla sovranità dell’individuo che pone il criminale in una posizione di illegittima sovranità su un altro. La vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare la posizione del criminale riducendone la sovranità nello stesso grado. La vittima avrebbe avuto il diritto, ma non il dovere, di perdonare a chi ha attentato al suo diritto naturale, ma rispettando il principio che la vita della vittima non possa essere valutata come inferiore rispetto a quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo (che in Italia non esiste più) non sarebbe in accordo con il principio di umanità della pena e dell’ipocrita funzione rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un processo nel quale la vittima non può più udire la propria voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il suo delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno un po’ di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo priva di una parte della sua vitalità…L’esclusione della pena di morte per omicidio è un portato di maggiore civiltà o non è invece il segno di una minore sensibilità morale e di una meno chiara percezione del vero?…Chi con deliberato proposito uccide un uomo deve essere a sua volta ucciso dalla società costituita, che non può sottrarsi al suo obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che chi uccida non venga a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena di carcere che sarà mite in ragione di come saprà difendersi contro un morto”,2 grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo di turno pronto a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole spesso dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse incapace di intendere e volere. Ma poi riacquista sempre la lucidità! Si pretende assurdamente che il criminale si riconcili con la società senza tenere in alcun conto la vita dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che ipocritamente o disonestamente tengono in minor valore la vita umana, stando a difesa degli assassini. Questo discorso vale anche per Amnesty International, che, come direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del cuore” (Lineamenti di filosofia del diritto, pref. ): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono di avere un cervello migliore di quello di tutti i pensatori che abbiamo citato. E, a parte la giustizia che bisogna rendere alla vittima, anche se morta, vi è un superiore interesse della società a liberarsi degli assassini che a ritenere “sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita di un criminale.
Secondo Vladimir Jankélévitch (Il perdono, IPL,1968, p.36) "il rifiuto di perdonare immobilizza il colpevole nella sua colpa, identifica l'agente con l'atto, riduce l'essere di questo agente all'aver fatto...Il rancoroso, inchiodando l'offensore nella sua essenza immutabile, incorrreggibile e definitiva di uomo colpevole, se la prende anche lui con un posto vuoto".
Egualmente, Paul Ricoeur (La memoria, la storia, l'oblio, ed. Raffaello Cortina 2003) ha cercato di slegare l'agente dalle sue azioni distinguendo tra l'uomo in potenza e l'uomo in atto, appellandosi anche a Kant quando questi scrive che, per quanto l'uomo sia soggetto al "male radicale", "oscuro", è disposto originariamente verso il bene (Kant, La religione nei limiti della sola ragione, I parte, Laterza 1994). Scrive Ricour: "il perdono dice al colpevole: vali più dei tuoi atti" (Ricour, Il dialogo ecumenico. Traduzione e perdono, in La traduzione. Una sfida etica, Morcelloana 2000, p.103).
Tuttavia Ricoeur riconosce che non vi può essere una politica del perdono (La memoria, p.694). Né il perdono può essere preteso, anche se può essere implorato. Ciò nonostante Ricoeur non rinuncia all'asserito contributo che il perdono nella colpa morale può dare nelle istituzioni per ristabilire un legame sociale tra l'offensore e l'offeso, trasformando il primo da nemico in amico. Anche nel caso della colpa criminale il perdono del colpevole, in quanto questo conserva il diritto alla considerazione, deve favorire la sua riabilitazione. Si tratterebbe di chiedere alla giustizia di essere più giusta: "L'incorporazione di un grado supplementare di compassione e di generosità in tutti i nostri codici - dal codice penale alle norme di giustizia sociale - costituisce un compito perfettamente ragionevole, benché difficile e interminabile" (Ricoeur, Amore e giustizia, Morceliana 2000, p. 45).
Quando il perdono, pur non cancellando la memoria del passato, la pacifica, si istituzionalizza nell'amnistisa, che "ha per finalità la riconciliazione tra cittadini nemici, la pace civica" (La memoria, p. 643). In sostanza, negando il perdono si rischierebbe di condannare il colpevole all'impossibilità di distinguersi dai suoi atti anche dopo il pentimento.
Si può obiettare che, se fosse valida questa considerazione di comodo, non vi sarebbero mai i colpevoli, che potrebbero rifugiarsi in un io sempre dissociato dai suoi atti, per cui si arriverebbe all'assurdo che ogni colpevole dovrebbe essere perdonato già prima di essere colpevole. D'altra parte, lo stesso Jankélévitch riconosce che il perdono può diventare immorale minimizzando il crimine.
Si vede quanto poco il perdono possa incidere sulla giustizia se non confondendo la morale con la giustizia. La questione deve essere considerata sotto un duplice aspetto. L'offeso - quando, naturalmente, non si tratti di omicidio - ha, apparentemente, il diritto di perdonare l'offensore in quanto, diversamente, egli non disporrebbe della sua persona e dei suoi beni. D'altra parte, l'applicazione di una norma di giustizia non può dipendere unicamente dalla volontà del singolo, se la norma deve avere un valore universale. Se l'ideale fosse, non il diritto dell'offeso di richiedere la punizione del colpevole, ma la sua volontà di perdonare l'offensore, nel prevalere della morale sul diritto, l'offeso incoraggerebbe ognuno ad offendere gli altri, anche coloro che non fossero disposti a perdonare, sovrapponendosi in tal modo alla loro volontà. Il perdono non può essere considerato soltanto come motivo di riduzione della pena. In tal modo si accorderebbe il diritto che ha il singolo di perdonare con il diritto degli altri di non perdonare. Ma chi, vittima innocente, è ucciso senza che abbia avuto o potuto manifestare la volontà di perdonare - cioè l'intenzione di sottrarre l'assassino alla pena capitale, da convertire in una pena detentiva - non può essere sostituito da altri. Non dai parenti, la cui volontà si sostituirebbe a quella dell'ucciso, né dallo Stato, che non può sovrapporsi arrogantemente alla volontà della vittima, tenendo in maggior conto la vita dell'assino rispetto a quella della vittima, che verrebbe doppiamente sacrificata: dall'assassino e dallo Stato, che se ne farebbe complice.
Coloro che, "allignando nella palude dell'emotivo" (Carlo Nicoletti, Sì alla pena di morte?, Cedam 1997, p.60), gonfi di sentimento, ma privi di ragione, atribuiscono ipocritamente alla pena una funzione rieducativa) come è attribuita ipocritamente dall'art. 27 della Costituzione italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i sostenitori della pena di morte.
Ma tra questi barbari dovrebbero essere compresi tutti i maggiori pensatori dall'antichità all'età moderna, a incominciare da Platone, da Aristotele e dal fondatore del cristianesomo che fu S. Paolo. Vedere per questo il mio sito collegato al blog e cliccare sulla voce "Per la pena di morte". Leggere quanto scrive Kant a favore della pena di morte in Metafisica dei costumi, dove accusa Beccaria di "affettato sentimentalismo", utilizzando proprio il principio di Beccaria della "proporzione tra i delitti e le pene". Il citato Ricoeur non ha tenuto conto di ciò, offrendo una immagine del tutto fuorviante di Kant su questo tema.
Oggi nella dottrina penale americana prevale una concezione retributiva della pena che giustifica la posizione di Kant basata sul principio di eguaglianza. La legge del taglione (lex talionis) raccomanda di “fare agli altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della regola aurea secondo cui bisogna “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In base alla lex talionis si ripristina l’eguaglianza che è stata turbata dal crimine E’ questa la tesi di J. H. Reiman.1 In base a tale principio il crimine è un attacco alla sovranità dell’individuo che pone il criminale in una posizione di illegittima sovranità su un altro. La vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare la posizione del criminale riducendone la sovranità nello stesso grado. La vittima avrebbe avuto il diritto, ma non il dovere, di perdonare a chi ha attentato al suo diritto naturale, ma rispettando il principio che la vita della vittima non possa essere valutata come inferiore rispetto a quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo (che in Italia non esiste più) non sarebbe in accordo con il principio di umanità della pena e dell’ipocrita funzione rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un processo nel quale la vittima non può più udire la propria voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il suo delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno un po’ di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo priva di una parte della sua vitalità…L’esclusione della pena di morte per omicidio è un portato di maggiore civiltà o non è invece il segno di una minore sensibilità morale e di una meno chiara percezione del vero?…Chi con deliberato proposito uccide un uomo deve essere a sua volta ucciso dalla società costituita, che non può sottrarsi al suo obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che chi uccida non venga a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena di carcere che sarà mite in ragione di come saprà difendersi contro un morto”,2 grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo di turno pronto a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole spesso dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse incapace di intendere e volere. Ma poi riacquista sempre la lucidità! Si pretende assurdamente che il criminale si riconcili con la società senza tenere in alcun conto la vita dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che ipocritamente o disonestamente tengono in minor valore la vita umana, stando a difesa degli assassini. Questo discorso vale anche per Amnesty International, che, come direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del cuore” (Lineamenti di filosofia del diritto, pref. ): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono di avere un cervello migliore di quello di tutti i pensatori che abbiamo citato. E, a parte la giustizia che bisogna rendere alla vittima, anche se morta, vi è un superiore interesse della società a liberarsi degli assassini che a ritenere “sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita di un criminale.
T.
Sellin3volle
dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli
Stati Uniti non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte
per omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,4
che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre,
avvalendosi di diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il
periodo 1935-69 ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il
verificarsi di sette o otto omicidi in più. Infatti il
criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua condotta
al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi
personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte
diminuisce il desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono
argomenti utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio
secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di
quella della sua vittima.|| .
1
Justice, Civilation
and the Death Penalty,
Justice 1991.
2
Carlo Cetti, Della
pena di morte. Confutazione a Beccaria,
Como 1960, pp. 12-13.
3
The Death Penalty,
The American Law Insitute, Philadelphia 1959.
4
The deterrent effect of punishment: a question of life and death,
American Economics Reviw, 65, 1975.
Erika De Nardo a cena con il papà - Corriere della Sera
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3 commenti:
Caro prof. Melis,
provo a replicare alle sue osservazioni sul caso Erika Nardo che condivido solo in parte.
Non sono un filosofo di professione, ma penso e rifletto come tutti e due principi sono per me fondamentali:
- il principio di non contraddizione
- non c'è effetto senza causa.
Sembra che anche questi due principi siano fuori corso in base alla nuova fisica, ma io non lo capisco: come si può pensare, ragionare, fare ricerca senza tener fermi questi due principi?
Io sono stato credo sempre contro la pena di morte, pur non essendo un buonista, cioè uno sciocco sentimentale (in genere condivido le sue idee "forti").
Il mio argomento principe contro i fautori della pena di morte era: chi è favore deve avere il coraggio di eseguirla, sarebbe un dovere civico a cui non può sottrarsi, e sarebbe paragonabile ai vili carnivori che mangiano la bistecca ma non avrebbero mai il coraggio di abbattere un vitello o di torcere il collo a una gallina.
Ora ne "Il bue squartato e altri macelli" (Mursia, 2012) il filosofo Sossio Giametta affronta il problema della pena di morte e conclude con Kant che essa è legittima e necessaria. Alla mia domanda se lui la eseguirebbe Giametta mi ha risposto senza esitare: certo, premerei il pulsante che fulmina il delinquente. Ci sono un po' rimasto, anche se gli argomenti di Giametta sono giusti o convincenti.
Io non provo nessuna simpatia per Erika Nardo, anzi: trovo i suoi piagnucolii per non potersi rifare una vita piuttosto disgustosi. Tuttavia c'è un problema (per me). Poiché ogni effetto ha una causa (determinismo assoluto) la libertà e il libero arbitrio non possono esistere. Noi possiamo avere l'impressione di essere liberi (se per es. nessuno ci obbliga a fare certe cose), ma qualsiasi "scelta" che facciamo non è in effetti tale perché ogni pensiero e azione è la sintesi necessaria di innumerevoli fattori che non conosciamo (solo alcuni fattori ci sono noti e ne abbiamo coscienza). Mi sembra che anche le neuroscienze concludano sull'inesistenza del libero arbitrio.
Ora una società per funzionare deve darsi delle norme e punire per forza le infrazioni: senza regole il traffico sarebbe caotico e per finire paralizzato.
Le sanzioni sono necessarie e per la più grave infrazione - l'omicidio - si può invocare la pena massima, la morte, con buoni argomenti, lo ammetto.
Però lo stesso sappiamo che un'eternità di pene, magari per un peccatuccio, è assurda. L'inferno è un obbrobrio perché caso mai il principio e la causa di tutto sarebbe proprio Dio che avrebbe creato dal nulla l'universo con le sue leggi (che sono le leggi di Dio).
In base a queste riflessioni perciò aggiungerei: per quale motivo, quali sono state le circostanze che hanno spinto Erika Nardo e l'amico a quell'orribile delitto? Non lo sappiamo, probabilmente non lo sa nemmeno la Nardo. Non essendo un buonista fesso non vorrei capire e perdonare la Nardo.
Ma non mi va nemmeno d'infierire su di lei. Gesù non mi è simpatico (minaccia continuamente l'inferno), però dà quel nuovo comandamento (ut diligatis vos alterutrum) che può essere almeno preso in considerazione. Certo il perdono non può essere preteso, solo invocato, e può essere rifiutato.
La saluto.
Caro Sergio
io sarei coerente. Avrei voluto, per esempio, essere il boia di quel criminale di Bush figlio,da impiccare al posto del laico Saddam Hussein, accusato infondatamente di avere armi di sterminio di massa solo per invadere l'Iraq, con tutte le conseguenze che conosciamo. Centinaia di migliaia di morti, cristiani fuggiti dall'Iraq, mentre prima erano considerati cittadini di eguale grado e tutelati ferreamente dalla legge. Le donne potevano avere una vita libera, uscire sole anche di notte senza incorrere in pericoli, il viceprimo ministro era Taraq Aziz, cristiano di rito caldeo. Ora gli stessi islamici si ammazzano tra loro nella guerra tra sciiti (maggioranza) e sunniti. La stessa situazione si sta presentando in Siria, dove il laico Assad si trova a combattere contro i terroristi fanatici che vorrebbero imporre la shari'a. E mi domando chi dia loro le armi. Assad, più ne elimina di questa gentaccia e meglio fa. L'Occidente è governato da individui scellerati che non hanno capito o fanno finta di non capire che cosa succederebbe in Siria dopo Assad.Fatta questa premessa, torno alla pena di morte. Io non avrei alcuna remora psicologica nel fare da boia per questa gentaccia subanimale. Un bel cappio al collo, si manovra la leva, si apre una botola e giù. Un lavoro assai pulito senza spargimento di sangue.
Mi rimane una curiosità. Mi ricordi se mi ha scritto personalmente al mio indirizzo email. Non vorrei confondermi con altri. Nella giungla di posta elettronica non posso rocordarlo.Mi scriva al mio indirizzo. Se non l'ha me lo chieda con un commento. Debbo rivolgermi ad un tecnico per rendere più facile un commento, senza tornare alla possibilità di prima di lasciare un commento anonimo. Non so se appaia all'esterno. Ho giornalmente e mediamente circa 200 visite del mio blog e dall'inizio (2009) sono arrivato a 112.000.
Kant aveva già affrontato nella Critica della ragione pura (Dialettica trascendentale) il problema se uno sia colpevole nonostante l'ambiente in cui è vissuto. Egli distingue tra la natura trascendentale (su cui si fondano la libertà e il libero arbitrio) e la natura fisica, condizionata da cause esterne che ne forgiano la natura fisica. E conclude che anche il criminale non può essere esente da un barlume di coscienza che gli faccia percepire la responsabilità di ciò che fa. Platone (Le Leggi) considerva solo un' attenuante l'avere ucciso per ira. Ma da ira motivata da una causa ingiusta nei suoi confronti. Le argomentazioni a favore degli assassini sono sempre di natura sociologica e psicologica.Ma uno dovrebbe essere malato di mente, incapace di intendere e volere per essere ritenuto irresponsabile di ciò che fa. Sulla base delle abusate argomentazioni psicologiche e sociologiche non vi dovrebbero essere colpevoli. Una delle due: o quella assassina della madre e del fratellino era colpevole o non lo era. Ma i giudici l'hanno considerata colpevole. E allora perché una pena mite? Era forse incapace di intendere nel momento in cui uccideva perché minorenne? Non si dicano scempiaggini. Il fatto è che la legge si dimentica delle vittime innocenti perché tanto non possono più parlare.
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