Si sa che i capi mafia continuano sempre a comandare anche dal carcere. Essi hanno come unico scopo della vita l'orgasmo del potere. Non è tanto il danaro in sé che li porta ad essere dei criminali. Il danaro è la conseguenza, non la causa della loro natura criminale. Infatti che cosa si godono della vita questi criminali se, pur manovrando una grande massa di danaro, non possono godere tranquillamente della loro ricchezza e sono costretti a vivere nell'oscurità con il timore di essere arrestati o di rimanere vittime di bande rivali? Oltre che essere criminali sono anche stronzi. Essi non sanno vivere se non si sentono forti nel comandare. Diceva Benedetto Croce che tra lo Stato ed una organizzazione a delinquere non vi è differenza perché, se la seconda ha un potere maggiore, si sostituisce allo Stato. Lo Stato cosiddetto democratico è il migliore terreno di cultura delle organizzazioni criminali. Esse si infiltrano infatti in tutte le istituzioni dello Stato facendo di quest'ultimo il braccio esecutivo dei loro progetti criminali. Ed uno Stato che si faccia garantista del rispetto della vita dei capi delle organizzazioni a delinquere è destinato a soccombere. Questi criminali conservano anche in carcere il loro potere perché possono ricattare con minacce di morte magistrati, direttori delle carceri e guardie carcerarie, nonché le rispettive famiglie. Solo da morti non possono più comandare. Chi si oppone alla pena di morte per questi criminali si oppone all'eliminazione delle varie mafie. Si oppone anche, per esempio, alla eliminazione di quei criminali che hanno progettato e comandato l'attentato terroristico in cui sono morti Falcone e Borsellino, quello della strage di via dei Georgofili (Firenze) e i successivi attentati terroristici a Roma.
Ecco quanto avevo scritto nel 2006 nel mio testo Scontro tra culture e metacultura scientifica: l'Occidente e il diritto naturale.
Sul
diritto naturale si fonda la giustificazione della pena di morte.
La condanna della pena di morte discende dalla solita confusione
tra morale e diritto, che porta lo Stato a sostituirsi alla vittima
innocente che non avrebbe voluto moralmente perdonare, con la
conseguenza contraddittoria che l’assassino avrebbe un diritto
naturale alla vita maggiore rispetto a quello della vittima. Coloro
che, “allignando nella palude dell’emotivo”,1
gonfi di sentimento, ma privi di ragione, attribuiscono ipocritamente
alla pena una funzione rieducativa (come si desume dall’art. 27
della Costituzione italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i
sostenitori della pena di morte.
Tra
questi barbari dovrebbero essere inclusi allora anche il fondatore
del cristianesimo, S. Paolo (che nell’Episola
ai Romani riconobbe
al governo, anche pagano, l’jus
gladii, cioè
il diritto di spada), nonché il maggiore Padre della Chiesa,
S. Agostino, il maggiore dottore di essa, S. Tomaso, il padre del
liberalismo moderno, Locke, il maggiore filosofo dell’Illuminismo,
Kant, sino a giungere a Pio XII, che, proposto per la beatificazione
da Giovanni Paolo II, difese una concezione vendicativa della pena e
giustificò la pena di morte vedendo nel disprezzo dell’ordine
pubblico un’opposizione a Dio (Acta
Apostolicae Sedis 47,
1955). Pio XII. l’ultimo grande papa. Dopo di lui il caos nella
Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, facendo visita ad un carcere,
invitò i carcerati a sopportare la loro croce, come se i
delinquenti di ogni specie potessero essere considerati vittime e non
carnefici. Il buonismo che uccide la giustizia.
Platone
nel Protagora
afferma che è comando divino l’uccidere gli individui
incapaci di giustizia, in quanto sono una piaga sociale. E nelle
Leggi
(L. IX) è prevista la pena di morte per gli omicidi volontari
e l’esilio per due o tre anni per quelli involontari, essendo
ritenuti tali quelli causati da uno stato d’ira motivato, che,
tuttavia, non non vale come attenuante nel caso di patricidio o
matricidio. Aristotele (Etica
nicomachea, V, 5),
pur sfiorando soltanto l’argomento, scrive che “alcuni ritengono
che la legge del taglione sia assolutamente il giusto; e così
affermarno i Pitagorici: essi infatti definirono in senso assoluto il
giusto come il rendere agli altri il contraccambio. Ma la legge del
taglione non si accorda con la giustizia distributiva né con
quella regolatrice”, cioè compensativa del danno subito.
Infatti subito dopo Aristotele spiega che è più grave
colpire un magistrato perché in tal caso chi lo colpisce dovrà
non soltanto essere colpito, ma anche punito. Dunque Aristotele,
benché non accenni espressamente alla pena di morte, chiarisce
che la legge del taglione è la base della giustizia. Rimane sottinteso che l’assassino merita la morte che egli ha
inflitto ad altri.
Seneca,
autore delle Lettere a
Lucilio, che possono
essere considerate il capolavoro della filosofia morale di ogni
tempo, scrive nel De
clementia che la
legge nel punire i delitti può applicare anche la pena di
morte, “estirpando i malfattori dal corpo sociale per assicurare la
tranquilla convivenza degli altri”.
Il
diritto romano consolidò la teoria che la giustizia dovesse
ritenersi pubblica vendetta nei confronti di chi attentasse al bene
comune, identificato con l’utilità sociale. Nell’età
moderna il diritto romano fu elaborato da filosofi e giuristi secondo
l’indirizzo del diritto naturale, per trovare in esso la
giustificazione della libertà di pensiero, ma anche quella
della pena di morte in difesa dell’ordine pubblico2
Nelle
Lettere3Agostino
evidenzia come il perdono possa avere conseguenze negative su chi,
invece di correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua
arroganza, oppure, correttosi nella sua condotta, induca tuttavia
altri ad approfittare sperando in eguale impunità. Riprendendo
il pensiero di S. Paolo, Agostino scrive: “Se fai il male, abbi
paura, poiché l’autorità non senza ragione porta la
spada; essa infatti è strumento per infliggere punizione ai
malfattori in nome di Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De
libero arbitrio che
“se l’omicidio consiste nel distruggere o uccidere un uomo,
talvolta si può uccidere senza commettere
peccato; questo vale per il soldato col nemico, per il giudice o il
ministro con coloro che fanno del male”.
In
Agostino prevale la teoria della prevenzione come giustificazione
della pena di morte. Una funzione prevalentemente retributiva, oltre
che emendativa e di prevenzione, ha, invece, la pena di morte per S.
Tomaso, che nella Summa
theologica (II, II,
q. 68, a.1) giustifica la pena come vendetta che si esercita sui
malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio e nella Summa
contra Gentiles
(III, cap. 146), dopo aver scritto che la vita del delinquente deve
essere sacrificata, allo stesso modo in cui “il medico taglia a
buon diritto e utilmente la parte malata", aggiunge che “uccidere un
uomo che pecca può essere un bene come uccidere un’animale
nocivo. Infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo
di un animale nocivo”. Vi è dunque da domandarsi quale
credibilità possa avere oggi la Chiesa, che, rinnegando circa
2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha abolito nel 1999 dal
Catechismo
la pena di morte. La condanna della pena di morte vuole essere
espressione di superiorità morale (dettata dal sentimento), ma
è di fatto espressione di inferiorità giuridica,
causata dalla corruzione del diritto da parte della morale.
Montaigne
nei Saggi
(1580) scrive, giustificando la pena di morte, che “non si corregge
colui che è impiccato; si correggono gli altri per mezzo suo”.
Tale giustificazione prescindeva da una concezione retributiva, e
perciò da diritto naturale, perché Montaigne,
esprimendo un relativismo culturale, faceva discendere le leggi dal
costume di un popolo, scrivendo che “le leggi della coscienza, che
noi diciamo nascere dalla natura, nascono invece dal costume…Per
cui accade che quello che è fuori dai cardini del costume lo
si giudica fuori dei cardini della ragione”.4
Non si capisce pertanto come egli potesse pretendere di impiegare la
ragione per giudicare i costumi.
Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (1749), dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei poteri, scrive che “la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è come il rimedio della società malata”.
Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (1749), dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei poteri, scrive che “la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è come il rimedio della società malata”.
Rousseau
nel Contratto sociale (1762) considera la pena di morte entro una concezione
retributiva sul presupposto che il cittadino è obbligato ad
obbedire alla volontà generale (della maggioranza) quale
condizione della conservazione del patto sociale, che implica la
conservazione della vita dei contraenti. Ma chi vuole conservare la
vita con il contributo degli altri deve essere anche disposto a
morire dal momento in cui cessa di essere membro della società
perché ne è divenuto nemico con il suo delitto. La
conservazione della società in tal caso è incompatibile
con quella del criminale.
Scrive
Rousseau nel Contratto
sociale che “è
appunto per non essere vittime di un assassino che noi consentiamo a
morire se diventiamo tali…Ogni malfattore diviene a causa dei suoi
delitti nemico della patria; cessa di esserne membro; a questo punto
la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua;
bisogna che uno dei due perisca”.
Ha
scritto Kant: “Se poi egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste
alcun altro surrogato che possa soddisfare la giustizia. Non c’è
alcuna omogeneità tra una vita per quanto penosa e la morte; e
di conseguenza non esiste altra eguaglianza tra il delitto e la
punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al
criminale” (Metafisica
dei costumi, parte
II, sez. I, nota). 5
E
Schopenhauer, utilizzando contro Kant la seconda forma
dell’imperativo categorico dello stesso Kant (“agisci in modo da
trattare sempre l’umanità, tanto nella tua persona quanto
nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto come
mezzo”, osservava, rincarando la dose, che essa era infondata
alla luce della giustificazione della pena di morte: “A quella
formula ci sarebbe da obiettare che il delinquente condannato a morte
è trattato, e giustamente, soltanto come mezzo e non come
fine, come mezzo indispensabile per confermare alla legge, se
attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il suo
fine”.6 In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte
dell’umanità, e dunque la sua vita cessa di essere un fine
per diventare solo un mezzo della forza deterrente della legge. Ma,
in effetti, Kant era alieno da qualsiasi concezione utilitaristica
della pena, come quella di Schopenhauer, che vedeva nella pena un
mero mezzo per ottenere un bene per la società. Per Kant è
lo stesso delitto che richiede una proporzionata pena come imperativo
categorico non potendo il condannato a morte essere utilizzato come
esempio che serva da deterrente. Si può dire che per Kant la
pena di morte si giustifica sulla base della considerazione che
l’uomo, anche quando è un criminale, non può mai
essere considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe
richiedere per sé la pena di morte per riscattarsi come uomo.
Verso
la fine del ‘700 Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi
del diritto penale
(1791), considerando che il diritto penale trova la sua
giustificazione nella difesa della società e nella
salvaguardia dei cittadini, ritenne che la pena giusta fosse quella
che meglio garantisse la conservazione dei cittadini. Pertanto
qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria
sulle pene capitali
(1830) scrisse che “non si tratta più di vedere se esista il
diritto di punire sino alla morte: ma bensì se esiste il
bisogno di esercitare questodiritto…Chi commette un delitto
commette un’azione senza diritto…Dunque il male irrogato per
difesa necessaria al facinoroso è un fatto di diritto. Dunque
se questo male dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso,
questa morte sarebbe data con diritto…Voler poi negare
indefinitivamente questo bisogno sarebbe lo stesso come dire in
chirurgia non potersi dar il caso di dover fare l’amputazione di un
membro”. Romagnosi riteneva che la galera, pur senza lavoro, fosse
per molti non un castigo ma un premio.
Hegel
vide nel delitto il prevalere della volontà del singolo sulla
volontà universale, per cui la pena consiste nel rovesciare la
volontà del reo restaurando la volontà universale, che
non significa recuperare il delinquente.7
In
Lineamenti di
filosofia del diritto
(1821) Hegel espose, come Kant, una concezione retributiva della
pena, che ha la funzione di restaurare l’ordinamento violato.
Criticando anch’egli, come Kant, Beccaria, ricononobbe allo Stato
il diritto di applicare la pena di morte, giacché
“l’annientamento del diritto è taglione, senza per questo
essere vendetta”.8
L’abolizionista
si trova in compagnia di Robespierre, che, prima di cambiare idea
pochi anni dopo, scriveva nei
Discorsi sulla pena di morte,
avvalendosi dell’argomento del possibile errore giudiziario, che la
pena di morte era un eccesso di severità, e precisava: “un
vincitore che tagli la gola ai suoi prigionieri è definito un
barbaro”. Egli si poneva contro il Codice penale approvato
dall’Assemblea costituente nel 1791, che riconfermava la pena di
morte prevista dalle leggi dell’ancien
regime.
L’abolizionista si trova in compagnia anche dell’anarchico Max
Stirner, che nell’opera L’unico
e la sua proprietà 9
concepiva il diritto come come legato all’arbitrio del singolo, sì
da poter scrivere: “Se tu riconduci il diritto alla sua origine, in
te, esso diventerà il tuo diritto, e sarà giusto ciò
che per te è giusto”. La conseguenza è che per
Stirner il crimine esiste soltanto perché esiste il dominio
della legge che si ammanta di sacralità, e non viceversa, e la
punizione si giustifica soltanto perché lo Stato si arroga il
diritto di esercitare una vendetta chiamata punizione. Si può
vedere come il ragionamento degli abolizionisti nasconda le stesse
premesse di una concezione anarchica dello Stato, il cui diritto di
punire si fonderebbe unicamente su una pretesa sacralità della
legge. Stirner non si avvide che, partendo dalla sua concezione
anarchica dell’individuo, a difesa dell’unicità della
vita, intesa come espressione di solo egoismo, avrebbe dovuto
ritenere normale l’omicidio, e innaturale l’intervento della
legge a difesa della vita dello stesso egoista. L’assolutizzazione
dell’individuo porta a giustificare, contraddittoriamente, il suo
annullamento sulla base di una concezione della legge intesa come
espressione della forza, e non come difesa del diritto naturale
all’autoconservazione.
Il
famoso Dei delitti e
delle pene (1764) di
Beccaria nell’escludere la pena di morte esprime una concezione
contrattualistica e utilitaristica della legge,10
e pertanto non può che escludere una concezione retributiva
della pena. Secondo Beccaria dal contratto sociale non deriva il
diritto dello Stato di applicare la pena di morte perché gli
uomini non possono avere contrattato ciò, dando agli altri il
potere di ucciderli. Ma si noti come l’affermazione di Beccaria
sia, oltre che illogica, soltanto una petizione di principio. Infatti
gli uomini che avessero escluso la pena di morte sin dalla fase del
contratto sociale per timore di essere uccisi avrebbero ammesso di
aderire contraddittoriamente (perché in malafede) al
contratto, avendo già d’allora intenzione di uccidere,
mentre il contratto nasceva perché nessuno potesse più
rimanere vittima degli altri. Chi non avesse avuto intenzione di
uccidere non avrebbe avuto paura di richiedere allo Stato la pena di
morte, per maggiore tutela della propria vita, ma, al contrario,
l’avrebbe impedita chi avesse avuto in animo di uccidere, pur
aderendo al contratto. Perciò l’esempio di Beccaria
giustifica solo la malafede.
Per
Beccaria la pena ha la funzione di distogliere gli altri dal
commettere eguale reato, mentre gli è estranea una concezione
emendativa della pena, che serva al reo per redimersi. Ma si tratta
di una giustificazione logicamente insostenibile, giacché 1) o
tutti si dovrebbero sentire distolti; 2) o la pena non serve a tutti
quelli che non si siano sentiti distolti, mentre per tutti gli altri
sarebbe inutile.
La
pena serve soltanto a quelli che non si sentano distolti. Ma questa è
una tautologia che non spiega alcunché.
Le
argomentazioni di Beccaria contro la pena di morte sono dunque
risibili. Egli scrive: “Qual può essere il diritto che si
attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente
quello da cui risultano la sovranità e le leggi…Non è
dunque la pena di morte un diritto…ma è una guerra della
nazione con un cittadino, che giudica necessaria o utile la
distruzione del suo essere”. Quale enorme confusione di idee! Da
una parte un assassino viene considerato moralisticamente simile alla
vittima innocente, dall’altra si presenta come negativo ciò
che è positivo, che lo Stato, come in una guerra, ritenga
necessario o utile usare le armi da guerra contro il nemico.
L’argomentazione di Beccaria si rivolge contro di lui. Ma lungi
da qualsiasi considerazione filosofico-umanitaria l’illuminista
Beccaria è indotto a chiedere per il carcere perpetuo “una
schiavitù perpetua! “fra ceppi o le catene”, in cui “il
disperato non finisce i suoi mali”, come, invece, con la pena di
morte. Beccaria condanna lo Stato che compra le delazioni e impone
taglie: “Chi ha la forza di difendersi non cerca di comprarla. Di
più, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di
virtù, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano.
Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono…Invece di
prevenire un delitto, ne fa nascere cento. Questi sono gli espedienti
delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee
riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte”.11
D’altra parte, Beccaria (Dei
delitti e delle pene,
cap. XXVII) continuò a giustificare la pena di morte se “la
morte di qualche cittadino diviene necessaria quando la nazione
ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia,
quando i disordini tengon luogo di leggi”.
Bisognerebbe
dunque concludere che Beccaria non sarebbe oggi contrario alla pena
di morte almeno per i delitti di mafia, in cui “i disordini tengon
luogo di leggi”, o contro i trafficanti di droga, cioè
di morte, siano collegati o non con la mafia. La mafia non può
essere combattuta democraticamente, ma sospendendo nelle regioni
mafiose ogni forma di rappresentanza politica, esposta localmente ai
ricatti mafiosi, e ogni forma di garanzia costituzionale nei confroni
delle famiglie mafiose, a cui soggiace anche tutto l’apparato
giudiziario, dalle guardie carcerarie ai direttori delle carceri sino
ai magistrati che dovrebbero giudicare i criminali mafiosi, i quali
smetterebbero di comandare e ricattare anche dal carcere soltanto se
venissero giustiziati con la pena di morte. Soltanto da morti non
potrebbero più comandere e ordinare altre uccisioni. Si sa
quali sono le famiglie mafiose, e quando si peschi dentro di esse si
pesca sempre bene, senza andare per il sottile. Uno Stato che non
voglia intendere ciò è o buffone o connivente con
questa feccia di specie soltanto biologicamente umana. Merito
principale di Beccaria è l’avere evidenziato la necessità
di “una proporzione tra i delitti e le pene”. Ma proprio tale
proporzione sarà rivendicata da Kant contro Beccaria per
giustificare la pena di morte.
Oggi
nella dottrina penale americana prevale una concezione retributiva
della pena che giustifica la posizione di Kant basata sul principio
di eguaglianza. La legge del taglione (lex
talionis) raccomanda
di “fare agli altri ciò che questi hanno fatto a te”, come
rafforzativa della regola
aurea secondo cui
bisogna “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”
(norma evangelica). In base alla lex
talionis si
ripristina l’eguaglianza che è stata turbata dal crimine E’
questa la tesi di J. H. Reiman.12
In base a tale principio il crimine è un attacco alla
sovranità dell’individuo che pone il criminale in una
posizione di illegittima sovranità su un altro. La vittima ha
il diritto, e la società il dovere, di rettificare la
posizione del criminale riducendone la sovranità nello
stesso grado. La
vittima avrebbe avuto il diritto, ma non il dovere, di perdonare a
chi ha attentato al suo diritto naturale, ma rispettando il principio
che la vita della vittima non possa essere valutata come inferiore
rispetto a quella del suo uccisore. Una pena alternativa come
l’ergastolo (che in Italia non esiste più) non sarebbe in
accordo con il principio di umanità della pena e dell’ipocrita
funzione rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non
avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un
processo nel quale la vittima non può più udire la
propria voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il suo
delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno
un po’ di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo
priva di una parte della sua vitalità…L’esclusione della
pena di morte per omicidio è un portato di maggiore civiltà
o non è invece il segno di una minore sensibilità
morale e di una meno chiara percezione del vero?…Chi con deliberato
proposito uccide un uomo deve essere a sua volta ucciso dalla società
costituita, che non può sottrarsi al suo obbligo senza
macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che chi uccida non venga
a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena di carcere
che sarà mite in ragione di come saprà difendersi
contro un morto”,13
grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo di
turno pronto a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si
vuole spesso dimostrare che l’assassino nel momento del crimine
fosse incapace di intendere e volere. Ma poi riacquista sempre la
lucidità! Si pretende assurdamente che il criminale si
riconcili con la società senza tenere in alcun conto la vita
dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che
ipocritamente o disonestamente tengono in minor valore la vita umana,
stando a difesa degli assassini. Questo discorso vale anche
per
Amnesty International,
che, come direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del
cuore” (Lineamenti
di filosofia del diritto,
pref. ): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono
di avere un cervello migliore di quello di tutti i pensatori che
abbiamo citato. E, a parte la giustizia che bisogna rendere alla
vittima, anche se morta, vi è un superiore interesse della
società a liberarsi degli assassini che a ritenere “sacra”,
come stupidamente si dice, anche la vita di un criminale.
T.
Sellin14volle
dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli
Stati Uniti non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte
per omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,15
che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre,
avvalendosi di diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il
periodo 1935-69 ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il
verificarsi di sette o otto omicidi in più. Infatti il
criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua condotta
al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi
personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte
diminuisce il desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono
argomenti utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio
secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di
quella della sua vittima.
Chi
è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il
coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in Europa,
soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i
mass media, operando
una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di
morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili. La
condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità
morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità
giuridica. Da notare
come gli stessi mass
media, essendo
totalmente privi di alcuna capacità o volontà di
discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare soltanto
affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di morte, gonfi
di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale nasce
soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non
trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che
impiegare la telecamera per far vedere il condannato che soffre o
l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto che
non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino
quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le
immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non
verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità
dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono
misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta
che non esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente
timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti
arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso
civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha
seri argomenti contro di essi.
Sia
almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia
disposto a perdonare il suo eventuale assassino,
perché lo Stato non si sostituisca alla volontà della
vittima innocente.16
E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare
il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso
aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a
vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento
dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più
della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura,
ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si
capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita
dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad
anticipare la vittima.17Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai
di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un
rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba
prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano
anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide
la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi
controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia
abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire
prima di una sentenza.
Se
si prendesse spunto dal pensiero dei filosofi esistenzialisti – che
hanno mancato di trattare la questione della pena di morte – si
dovrebbe riconoscere che, essendo l’uomo, come essi dicono, una
possibilità autocostitutiva, come esistenza e non come essenza
(o specie), il valore dell’esistenza umana non è dato dal
fatto di essere umana, ma dal fatto di esprimere una possibile
esistenza, da valutare in relazione ad un progetto che è la
stessa singolarità dell’esistenza. Pertanto il criminale non
può essere sottratto alla pena di morte dalla sua essenza
umana, che esiste soltanto biologicamente. Già Pico della
Mirandola nell’Oratio
de dignitate hominis immaginava
che Dio dicesse all’uomo: “Tu dominerai la tua natura secondo il
tuo arbitrio…non ti ho fatto né celeste né terreno,
né mortale né immortale, perché di te stesso
quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella
forma che avresti prescelto”. Sta all’uomo, secondo Pico,
scegliere se essere soltanto un animale o di natura divina. Egli è
responsabile del suo progetto di vita.
La
morale ha persino corrotto il significato del termine “vendetta”
dandole un significato negativo, se non dispregiativo, mentre in
realtà essa dovrebbe continuare ad essere espressione, come lo
fu nell’antichità greca, di giustizia, in relazione ad una
responsabilità oggettiva, come la intese Platone nelle Leggi.
Che fa lo Stato, con l’infliggere una pena, se non vendicare la
vittima e la stessa società di cui è stato violato
l’ordine? Da notare come si tratti soltanto di una questione di
attribuzione, perché la vendetta, se è attuata dallo
Stato, è giustizia, mentre non lo è se è attuata
dalla vittima o da chi per lui.
1
Carlo Nicoletti, Sì,
alla pena di morte?,
Cedam 1997, p. 60. L’autore soltanto per ragioni di cautela ha
preferito aggiungere il punto interrogativo al titolo del suo testo.
Egli ritiene che la concezione emendativa, cioè quella che
pone come scopo della pena il recupero del colpevole, sia
profondamente utopica e ipocrita perché non tiene conto delle
condizioni e dei luoghi di pena, per cui “una carceraria città
del sole costituisce niente di più che una contraddizione in
termini” (p.9). Tale concezione è soltanto una
dichiarazione di intenti, in quanto “il ravvedimento è
sempre e comunque un fatto individuale” (p.11). Quanto alla
concezione della pena come prevenzione, essa è cinica,
perché, prescindendo da ogni implicazione morale, ha come
fine quello di isolare chi costituisce un attentato all’ordine
sociale. Tuttavia l’autore, professore di diritto processuale
civile a Cagliari, ritiene che quest’ultima concezione “è
quella che perfettamente si attaglia alla pena di morte” (p.
16), quando pare, invece, evidente che sia la concezione
retributiva, per la corrispondenza che essa richiede tra il delitto
e la sua punizione. L’autore precisa che la pena non può
essere assimilata alla vendetta perché quest’ultima può
essere accompagnata dal piacere di restituire il male. Ma allora
dovrebbe escludersi anche il piacere della giustizia.
2
Sulla pena di morte nella storia occidentale cfr. di Alberto
Bandolfi Pena e pena
di morte. Temi etici nella storia,
Edizioni Dehoniane 1985; di Italo Mereu La
morte come pena. Saggio sulla violenza legale,
Donzelli 1982. L’esame che quest’ultimo testo fa di tutti gli
eccessi, non escluse diverse forme di tortura, nell’applicazione
della pena di morte come uso politico per sbarazzarsi degli
avversari non deve essere confuso con il discorso sui principi.
3
Agostino, Lettere,
II, Città Nuova, 1971, pp. 541-47.
4
Saggi,
Adelphi, 1982, p. 150.
5
Kart (ibid.) accusò Beccaria di “affettato
sentimentalismo”.
6
Il fondamento della
morale, op. cit., p.
164.
7
Filosofia dello
spirito jenese,
Laterza 1984, p. 139
8
E’ evidente che Hegel, distinguendo la legge del taglione dalla
vendetta, considera quest’ultima soltanto come espressione di una
punizione privata, che può non rispettare la proporzionalità
tra delitto e pena. Ma in sostanza anche la pena comminata dallo
Stato non può non essere considerata anch’essa una
vendetta, se la pena rientra in una concezione retributiva come
quella di Hegel.
9
In Gli anarchici,
a cura di G.M Bravo, Adelphi 1970, pp. 510 sgg.
10
Il contrattualismo non implica necessariamente l’utilitarismo
come negazione di un diritto naturale. In Hobbes, per esempio, la
concezione contrattualistica si accorda con quella utilitaristica,
ma anche con una concezione giusnaturalistica che vede la legge
naturale non dipendere dal contratto ma precederlo. Così in
Locke la concezione contrattualistica si accorda con il diritto
naturale alla libertà e alla proprietà (Secondo
Trattato del governo civile
(a cura di Luigi Pareyson) , Utet 1982, pp. 229-63.
11
Oggi il riferimento fa all’impiego, da parte dello Stato, dei
cosiddetti “pentiti”, premiati per le loro “confessioni”. E’
il risultato, direbbe Beccaria, di uno Stato che, non avendo la
forza di difendersi, a causa del suo garantismo nei riguardi delle
organizzazioni criminali, cerca di comprarla, mandando in rovina
l’edificio dell’ordinamento giuridico, fondato sulla
proporzionalità della pena al delitto.
12
Justice, Civilation
and the Death Penalty,
Justice 1991.
13
Carlo Cetti, Della
pena di morte. Confutazione a Beccaria,
Como 1960, pp. 12-13.
14
The Death Penalty,
The American Law Insitute, Philadelphia 1959.
15
The deterrent effect of punishment: a question of life and death,
American Economics Reviw, 65, 1975.
16
In questo senso si può ritenere ampliata la considerazione
svolta da Platone nelle
Leggi (IX, 869), dove
è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) – il
delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la
madre) possa avere il tempo, prima di morire, di perdonare il
figlio. In tal caso il patricidio (o matricidio) sarà
ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto
purificarsi.
17
Il nostro ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri
(Scienza della
legislazione,
1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke sullo stato di
natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti (II
Trattato del governo civile,
II, 11), osserva, contro Beccaria (Dei
delitti e delle pene,
1764), che nello stato di natura si perde il diritto alla vita
quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di
uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo
diritto si trasferisce da lui alla società. D’altra parte,
non si aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la
pena di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale.
Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a delinquere
come la mafia, contro cui si devono usare leggi di guerra, non di
pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando le quali
si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso.
Combattere la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo
delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa
cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria pesante con
un esercito equipaggiato al massimo con fucili da caccia. Poiché
è impossibile estirpare la mafia con metodi democratici,
nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto
l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte di altre
regioni. Ha scritto Aristotele (Politica)
che ogni popolo ha il governo che si merita. I capi mafia
continuano a comandare dal carcere ricattando guardie e direttori
del carcere. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a
dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la
pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di
morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto significa
corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano anche
l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di
Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà.
3 commenti:
Molto interessante. Difficile non convenire che la pena di morte sia legittima, come ha sempre ritenuto anche la Chiesa (credo anche nel Nuovo Catechismo, dove si dice soltanto che la sua applicazione non è oggi più veramente necessaria).
Tuttavia mi permetto un'obiezione. Se la pena di morte è ritenuta dalla società necessaria, legittima, tutti dovrebbero essere anche disposti ad applicarla: fare parte di un plotone di esecuzione sarebbe un dovere civico, non ci sarebbero scuse che tengano. Troppo facile - e da vigliacchi - essere a favore della pena di morte e poi delegarne l'esecuzione ad altri, come fanno i carnivori che delegano ai macellai l'ingrato compito dell'abbattimento degli animali e la preparazione della fettina.
Penso che molti, forse la maggioranza, rifiuterebbero di eseguire una condanna a morte, pur approvandola. Che fare? Escludiamo certe categorie dall'obbligo di eseguirla (donne, anziani, persone ultrasensibili, preti, politici ecc.)?
Io ho sempre desiderato fare il boia per hobby. Un lavoro pulito senza spargimento di sangue con l'impiccagione. Si pone il laccio al collo, si manovra una leva, si apre una botola...e giù. Finito per questi criminali. Non possono più comandare. Basterebbe anche un solo boia in Italia. E si potrebbe anche evitare di farne il nome proteggendolo nell'anonimato. Io lo farei gratis.Ma quanti si offrirebbero nell'anonimato se ben pagati!
Lo farei anch'io, anche se si trattasse di lavori sporchi - si dice sempre che qualcuno deve pur farli.
Lo Stato che vuole vincere la mafia con la sua zavorra di garanzie da riconoscere e di limiti che si autoimpone, é come il tale che ad una rissa pretende di prevalere dopo essersi fatto legare le braccia dietro la schiena e inchiodare i piedi al terreno. Il livello di efficienza della mafia è un'altra cosa. Gran bel post Prof., e un saluto a Sergio che ritrovo con piacere anche qui.
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