martedì 7 agosto 2012

UNA RECENSIONE DEL MIO LIBRO "ADDIO A DIO" (da recensionilibrarie.com)

Il mondo per Wittgenstein viene ingabbiato nel linguaggio, ovvero nel logos, un modello logico che vanifica metafisica e scetticismo. L’assioma sposato da Melis avvalora la tesi che per dare un senso al mondo occorre dare un “non senso a Dio” collocando la morte in una “non definizione”.Essa di fatto non può considerarsi un evento della vita, in quanto la morte non si vive. Perciò:“nulla dire se non ciò che può dirsi”. E mi perdoni Melis, ma la citazione che mi ha fatto amare Wittgenstein per la sua esplicita semplicità è quella in cui ritiene che le sue opere si dividono in due parti; quella che (da credente di fede cristiana e da grande filosofo pragmatico e antimentalista) ha scritto dopo la Grande Guerra con il suo "Tractatus Logico-Philosophicus", dove confessa quell'angoscia che deriva dalla consapevolezza di vivere su quel filo di rasoio che ci separa tra il certo e l'ignoto della morte, e quelle che non ha scritto, queste ultime senza ombra di dubbio le più importanti.
E’ comprensibile allora come il dipanarsi del saggio sia un incalzante ed ossessivo dibattito con il Cristo e la Trinità, dove le domande paiono sempre più esaurienti delle risposte di questo Dio chiedente perdono perché  non capisce che l’ossequio ad una morale religiosa inficia l’azione morale pura, quella che è vera sostanza in quanto autonoma dal ricatto della salvezza. Quindi non è Dio la fonte dell’azione morale, ma l’uomo etico, quello contemplato negli imperativi categorici di Kant dove il giudizio morale non è basato sul sentimento ma sulla ragione. Tuttavia Melis, pur accettando la distinzione kantiana della morale dal diritto naturale e l’autonomia della morale e del diritto naturale dalla religione, si appella coerentemente, contro Kant, al filosofo empirista Hume per affermare che il giudizio morale è fondato sul sentimento e non sulla ragione. Ma, al contrario di Kant, che afferma l'esistenza del diritto naturale, pur attribuendolo antropocentricamente solo all’uomo, Hume dal canto suo nega l’esistenza di qualsivoglia diritto naturale. Melis risolve la diatriba forgiando una nuova simbiosi tra i pensieri di Kant e Hume,  ed estende il diritto naturale a tutti gli animali sulla base dell’evoluzione biologica da una comune origine di tutte le forme di vita.
Dalla nuova, puntuale e rispettosa lettura di tutti i passi più importanti dei Vangeli e delle Epistole di Paolo l’autore trae la conclusione, solo apparentemente paradossale, che i Vangeli furono scritti per uomini bambini –“da nutrire a latte, non di cibo solido” (S. Paolo, Lettera1 ai Corinzi, 3,1) - perché fossero intimoriti e distolti dal peccare con la paura di una condanna da parte di Dio, mentre avranno maggiori meriti di fronte a Dio i non credenti che rispettino le norme della giustizia fondate sulla legge naturale (da cui discende il diritto naturale), e non per timore di una condanna eterna, per cui, come aveva già annunciato San Paolo (Lettera ai Romani, 2,14) anche i pagani si sarebbero salvati se rispettosi della legge naturale, perché “essi mostrano che quel che la legge comanda è iscritto nei loro cuori per la testimonianza che rende loro la coscienza”.
Da qui l’inutilità del credere in Dio e nel proselitismo ai fini della salvezza. E si sa che tutte le Epistole di Paolo precedono storicamente la stesura di tutti i Vangeli.
Melis coglie due aspetti nel cristianesimo, quello cattolico della fratellanza (nella carità) e quello protestante della non fratellanza, cioè dell’individualismo.
Il principio di non fratellanza, che ha messo le prime radici con il calvinismo, è il derivato dalla società capitalistica che vede nel successo del singolo la predestinazione alla salvezza autentica. E al di là della distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo l’autore spiega documentatamente, sulla base di importanti osservazioni storiche sulla rivoluzione scientifica del ‘600, perchè questa sia avvenuta, e potesse avvenire, solo nell’Europa cristiana tramite il Logos greco, fondamento della razionalità della natura, tradotto nel Verbo nella trinità, in cui la ragione (il Verbo o il Figlio) vincola la volontà del padre (la potenza). Pertanto non sarebbe potuta svilupparsi all’interno della tradizione ebraica o islamica, dove la volontà divina, in assenza di trinità, appare come puro arbitrio svincolato dalla ragione.
Gli argomenti trattati sono davvero tanti e non mancheranno di accendere discussioni. Le  accuse ad un testo che giudica San Paolo il pluri-assassino che partecipò alla lapidazione di Stefano, il primo martire cristiano ne è solo un piccolo esempio. La citazione rimanda all’Anticristo di Nietzsche, che mise in discussione non il figlio di Dio -riconoscendogli anzi il messaggio morale fondante-  ma proprio San Paolo di Tarso, colpevole di averne inventato la Resurrezione.
Inutile dire che si tratta di un saggio difficile, ma non pretende una particolare dimestichezza con concetti filosofici od una buona conoscenza dei testi evangelici, giacchè l’autore ha curato un’esposizione tenendo conto anche dei lettori che non avessero alcuna conoscenza di essi. Il libro è l’allenamento alla curiosità ed alle argomentazioni delicate trattate, che in definitiva riguardano tutti noi: “che cosa so di Dio e del fine vita?”. In fondo la Terra è un grande cimitero, miliardi di esseri soggiacciono ai nostri piedi ed è davvero il caso di dirsi: non ne usciremo vivi nemmeno noi. 
 Donata Bina

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