venerdì 30 novembre 2012

CHE ROBACCIA PUBBLICANO I GRANDI EDITORI, COME ANCHE EINAUDI: BASTA PAGARE LA PUBBLICITA' SUI GIORNALI PER VENDERE ROBACCIA PRIVA DI PENSIERO AI LETTORI IGNORANTI. LA TRUFFA DELL'AGENZIA LETTERARIA MARCO VIGEVANI

Se avessi scritto io un libro simile Einaudi me l'avrebbe respinto senza nemmeno leggerlo. La grande editoria, pur in passivo, avendo altri introiti, si può permettere di stampare al buio migliaia di copie con la prima stampa. Se poi non vende i libri vanno al macero. Però ne deve stampare tanti quanti sono necessari per farli arrivare nelle più importanti librerie dove vengano esposti in vetrina come se fossero capolavori. E si sa che i librai si sentono in obbligo di esporli richiamati dal nome del grande editore. 
I piccoli editori non possono permettersi di pubblicare migliaia di libri (pur con il contributo economico dell'autore) per non rischiare di avere dei resi. Pertanto hanno adottato un diverso sistema di stampa, quello digitale. Per mezzo di esso un libro viene stampato nel giro di tre giorni, anche un libro per volta, secondo la richiesta delle librerie. E' vero che è difficile che i loro libri arrivino ad avere visibilità in vetrina o sui banchi. Ma in questo modo non rischiano economicamente non avendo resi di libreria, cioè di libri non venduti, giacché le librerie accettano dai grandi editori anche un certo numero di copie in deposito, salvo il diritto di restituire al grande editore le copie non vendute. Le librerie dunque non rischiano mai. Rischia il grande editore. Da ciò la necessità di plagiare il mercato con la pubblicità dando da bere al lettore sprovveduto robaccia contrabbandata come capolavoro. Qui mi basti fare i nomi di un Giorgio Faletti o di una Luciana Littizzetto. L'uno si è improvvisato scrittore di successo di thriller, l'altra scrive idiozie che vorrebbero essere comiche, mentre sono soltanto spazzatura volgare, come tutto ciò che dice alla TV nella sua squallida presenza alla trasmissione di regime del grigio Fabio Fazio, dove tutti arrivano quasi sempre con un libro in mano per farsi pubblicità gratuita. Oggi bisogna essere personaggi, specialmente televisivi, per vendere, anche se si tratta di gente che non sa scrivere o è priva di pensiero. Importante è che questi pseudo scrittori siano già conosciuti altrove, e non per meriti letterari. Ma di questa gente il tempo farà giustizia. Mi fu regalato da un'amica un libro di Margaret Mazzantini (Venuto al mondo, Mondadori). Ho provato a leggerne, saltando, alcune pagine. Mi è venuto il vomito a causa della noia. Mi sono domandato: ma che interesse può avere il lettore a leggere simile robaccia priva di pensiero? In Italia, si sa, vi sono più scrittori che lettori. Oggi, con la miriade di piccoli editori a pagamento, si pubblicano mediamente almeno 400 titoli al giorno. Mentre coloro che leggono almeno un libro all'anno sono una percentuale minima (si aggira verso un massimo del 4%). Come fanno allora i grandi editori a sopravvivere? Qualcuno me lo spieghi.       
Leggete il primo capitolo di questa "cagata pazzesca" di Margaret Powell. Se questo è l'inizio figuriamoci il prosieguo. Poi ne hanno tratto un'altra cagata pazzesca in una serie TV per il popolo degli ignoranti. Da notare che il romanzo robaccia della Powell è stato presentato a Einaudi dall'agente letterario Marco Vigevani. 
Come mai? Adesso vi racconto una mia vicenda personale. Io mi ero rivolto all'agente letterario Marco Vigevani, che ha passato la mia richiesta alla sua alter ego Laura Lepri. Costei, con una "valutazione"di 4 pagine scarse (di cui 3 dedicate al riassunto striminzito del testo), mi ha fottuto 600 euro per una valutazione di un mio manoscritto intitolato E giustizia infine fu fatta. Sette giudici uccisi in sette giorni. Si tratta  di un testo ibrido che ha una lunga parte saggistica (scienza, filosofia, religione, diritto) incorniciata da un inizio e da una fine che sono un racconto thriller  che espone la strage di sette giudici. Solo alla fine si scopre il vero assassino in una confessione a dei giornalisti convocati dal protagonista in ospedale, dove egli, ammalato gravemente, finirà di lì a poco i suoi giorni. Era rimasto vittima innocente di sentenze aberranti. Confessando di essere lui il colpevole non aveva più alcunché da perdere. Ma come poteva essere lui il responsabile della strage se questa era avvenuta durante il suo ricovero in ospedale? Qui sta la sorpresa finale, in pagine che riprendono la tematica de I fratelli Karamazov di Dostoevskij (il racconto del grande Inquisitore). La lotta tra il bene e il male, il  (non) senso della vita, la mancanza di giustizia e di certezze, la crudeltà umana, il cercare disperatamente un senso della vita nel non senso delle religioni cosiddette rivelate. Il protagonista, il prof. Petix, che in una vita di studi non aveva mai trovato un senso della vita, trova infine un senso per la propria vita facendosi giustizia da sé.
Ebbene, la Laura Lepri (che si spartisce i quattrini con Marco Vigevani) usa l'agenzia letteraria per illudere gli sprovveduti. Infatti mi ha dato ad intendere che vi sarebbe stata una rappresentanza presso un grande editore ma previa opera di editing (cioè di riscrittura e revisione del manoscritto) per avere la scusa di fottermi altri quattrini senza darmi nemmeno in questo caso, non dico la certezza (giacché in ultima istanza decide l'editore), ma neanche tutto  l'impegno da parte sua di proporre il testo ad un grande editore. Io non avevo affatto bisogno di editing perché non ho bisogno di alcuno che mi insegni a scrivere. Piuttosto, sono io che posso dare insegnamenti ad una grigia figura come quella di Laura Lepri, nonostante questa ogni tanto collabori con recensioni di romanzi su Il sole24Ore. E ha anche la pretesa di dare lezioni di "scrittura creativa". Scrivete su Google Laura Lepri e scoprirete che ha scritto tre libri insignificanti. Dopo averne pubblicato due con editori sconosciuti è arrivata nel 2012 a pubblicare un libro con la Mondadori. E sapete di che tratta il libro? Della storia dell'editoria a Venezia. E' intitolato pomposamente Del denaro o della gloria. Per scrivere simili libri non vi è bisogno di rompersi il cervello. Basta attaccare il culo alla sedia e fare ricerche di archivio o copiare da altri libri. Né vi è bisogno di affaticarlo per fare recensioni di romanzi robaccia. Recensioni a pagamento, mi è stato detto da un editore. Dunque anche le recensioni sui grandi quotidiani sembrano passare per il dio danaro. Così va il mondo. Anche dell'editoria. 
Il mio testo è stato invece apprezzato da un altro agente letterario (ZTLA Literary Agency) con cui ho un contratto di rappresentanza. Vedremo che cosa ne uscirà. Salvo che mi stufi di aspettare e preferisca pubblicarlo con un uno dei piccoli editori che me l'hanno già richiesto. Importanti sono infatti la promozione e, soprattutto, la distribuzione nelle librerie.  Valendo oggi soprattutto i canali dei distributori on line (tra cui, principalmente, IBS). 

Il romanzo di «Downton Abbey»
Ecco il primo capitolo in anteprima

Esce «Ai piani bassi», il libro che ha ispirato la celebre serie tv

di  MARGARET POWELL


Sono nata nel 1907 a Hove, seconda di sette figli. Il mio primo ricordo è che gli altri bambini sembravano tutti piú ricchi di noi. Però i nostri genitori ci volevano un gran bene. Ogni domenica – non lo dimenticherò mai – papà ci regalava un giornalino e un sacchetto di dolci. Il giornalino con i disegni in bianco e nero costava mezzo penny, quello a colori un penny. A volte mi domando come facesse, specialmente quand’era senza lavoro e in casa non entrava neanche un soldo. Mio padre era imbianchino e decoratore. Una specie di tuttofare, in realtà. Riparava i tetti, intonacava i muri: quasi tutto, insomma, anche se il suo vero mestiere era dipingere pareti e incollare tappezzerie. Ma d’inverno, nel quartiere dove abitavamo, non si batteva chiodo. Nessuno voleva farsi ristrutturare la casa nei mesi freddi: lavori all’esterno non se ne potevano fare, e rimettere a nuovo gli interni era una bella rogna. Perciò d’inverno era più dura.

La copertina del libro (edizioni Einaudi Stile libero)La copertina del libro (edizioni Einaudi Stile libero)
Mia madre faceva la donna delle pulizie, lavorava dalle otto del mattino alle sei di sera per due scellini al giorno. A volte tornava a casa con qualche piccolo tesoro: una ciotola di sugo d’arrosto, una mezza pagnotta, un po’ di burro, una scodella di zuppa. Fosse stato per lei, non avrebbe accettato mai niente. Detestava la carità. Noi invece eravamo contenti come pasque, e quando tornava con qualcosa in mano correvamo fuori a vedere cos’era. Forse oggi vi sembrerà strana, questa antipatia per la carità, ma in effetti quando eravamo bambini non c’era il sussidio di disoccupazione. Tutto quel che ti davano era una specie di elemosina.
Se avevamo solo un paio di scarpe ciascuno, e per giunta erano rotte, mia madre andava in comune e chiedeva qualche soldo in più per noi. Le toccava rispondere a un’infinità di domande, e si sentiva guardata con disgusto, solo perché non aveva abbastanza soldi per tirare avanti.
A quei tempi trovare un posto per vivere era tutt’altra faccenda rispetto a oggi. Bastava guardarsi intorno: per strada era pieno di cartelli che dicevano «affittasi stanze». Quando eravamo in bolletta nera ci accontentavamo di una o due camere in subaffitto, ma quando papà lavorava andavamo a cercare un appartamento da condividere. Una casa tutta nostra, non l’abbiamo mai avuta. A quei tempi non erano in molti a potersi permettere una casa intera. Comprarsela, poi, neanche per sogno!
Io non riuscivo a capire perché la mamma continuasse a fare bambini, visto che per noi era già cosí dura, e ricordo che lei si arrabbiava moltissimo quando le due vecchie zitelle per le quali lavorava continuavano a dirle di non fare più figli, che non poteva permetterseli. Anch’io le chiedevo: «Perché hai tanti bambini? È difficile fare i bambini?» E lei: «No, no, per niente! È facile come bere un bicchier d’acqua!».
Ma per i poveri, sapete, era l’unico piacere. Non costava niente, almeno nel momento in cui mettevi in cantiere il bambino. Certo, più avanti le spese c’erano, ma quelli come noi non erano abituati a guardare avanti. Non ne avevano il coraggio. Vivere alla giornata era già abbastanza.
Nessuno si preoccupava di controllare le nascite. Sarà stata un’eredità dell’epoca vittoriana, ma l’idea era che le famiglie dovessero essere numerose. Piú bambini avevi, piú si pensava che tu facessi, diciamo cosí, il tuo dovere di buon cristiano. Non che la Chiesa contasse un granché nella vita dei miei genitori. Probabilmente non avevano tempo di pensarci; o meglio, forse il tempo ce l’avevano, ma gli mancava la voglia. Alcuni di noi non erano neanche battezzati. Io, per esempio, non lo ero e non lo sono neanche adesso. Alla scuola domenicale, però, dovevamo andarci tutti, e non perché i miei fossero religiosi: era semplicemente un modo per tenerci alla larga. La domenica pomeriggio si faceva l’amore, perché nelle famiglie dei lavoratori non c’era mai abbastanza intimità. Se abitavi in due o tre stanze, doveva per forza esserci qualche bambino che dormiva con mamma e papà. A quel punto, se avevi un briciolo di pudore – e i miei ce l’avevano di sicuro, perché da bambina non mi sono mai accorta che facessero l’amore – aspettavi che i figli dormissero sodo o fossero in giro. A dire il vero non li ho mai visti neppure darsi un bacio, perché davanti agli altri mio padre era piuttosto austero: poi un giorno la mamma mi disse che invece era molto passionale, e io ci rimasi di stucco. E quindi, capirete, potevano lasciarsi andare solo quando i bambini erano fuori dai piedi. Cosí la domenica pomeriggio, dopo un bel pasto abbondante (per quanto possibile ci provavano tutti, a cucinare un bel pasto abbondante) si andava a letto a fare l’amore, e magari anche un pisolino come Dio comanda. Perché se fai l’amore, diceva la mamma, tanto vale stare comodi. Ecco perché a quei tempi la scuola domenicale era frequentatissima.
Dei primi giorni di scuola non ho questo gran ricordo. Mio fratello e io abbiamo cominciato la scuola insieme. A quei tempi si iniziava a quattro anni, ma mia madre decise di mandare anche me, perché stava per sfornare un altro bambino e le faceva comodo togliersi dai piedi i due più grandi.

Bisognava tornare a casa per il pranzo. Non c’era ancora la mensa, e nemmeno ti davano il latte gratis. Partivi da casa con una fetta di pane imburrato avvolta in un pezzo di carta, e la davi da custodire alla maestra perché molti bambini avevano una fame da lupi, e invece di stare attenti alle lezioni passavano la mattina a mordicchiare il pane. Alle undici, poi, la maestra distribuiva le fette di pane. Siccome me la cavavo abbastanza bene, mi è sempre piaciuto andare a scuola. Non avevo problemi in nulla, fuorché nel disegno, nel lavoro a maglia e nel cucito. Anche a cantare ero un disastro. Roba di cui non m’importava un bel niente. Il cucito, poi, lo odiavo con tutto il cuore. Facevamo cose orrende: sottovesti e calzoncini a sbuffo in tela di cotone. Le sottovesti erano ampie, lunghe fino al ginocchio e con le maniche ad aletta. I calzoncini, anche loro piuttosto voluminosi, si allacciavano dietro con dei bottoni. Chi mai comperasse quella roba orrenda, non riesco proprio a immaginarlo. Forse la regalavano a qualche ospizio: io di certo non ho mai portato a casa niente. Ma la cosa più bella dell’andare a scuola a quei tempi era che si doveva imparare. Per me non c’era niente di più bello: imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Le tre cose indispensabili a chiunque debba lavorare per vivere. Allora ci costringevano a imparare, e secondo me è giusto che i bambini siano obbligati a farlo. Io non credo a quel che dicono adesso: «Se non vogliono imparare, forzarli non serve a niente». Altroché se serve. La nostra maestra girava tra i banchi, e se ti beccava a perdere tempo ti mollava un bello scappellotto sul collo o un ceffone sulle orecchie. Alla fine della scuola ci avevi guadagnato di sicuro. Sapevamo quel che bastava per cavarsela nella vita. Non che pensassimo a cosa ci sarebbe piaciuto fare da grandi. Tutti sapevamo che bisognava trovarsi un mestiere, ma non credo che avessimo particolari ambizioni.
A sette anni compiuti ho capito, in un certo senso, qual era il mio posto nel mondo. Mia madre usciva di casa prestissimo per andare a fare le pulizie: io ero la figlia maggiore, quindi toccava a me dare la colazione ai piccoli. Intendiamoci, non c’era bisogno di cucinare niente. Mai che ci fossero uova e pancetta, e i cereali erano roba inaudita. D’inverno mangiavamo il porridge, d’estate pane e margarina con un’ombra di marmellata, se per caso ce n’era. Potevamo mangiarne tre fette, non di piú. E poi preparavo il tè, un tè leggerissimo fatto con quella polvere che si chiamava «scopatura» – la meno cara che c’era – e dopo sparecchiavo, lavavo le tazze e mi preparavo per andare a scuola.
I due piú piccoli me li portavo dietro e li lasciavo all’asilo infantile. Costava sei pence al giorno, e per quella cifra ti davano anche il pranzo. Li accompagnavo prima di entrare a scuola e passavo a prenderli al pomeriggio, appena uscita. A mezzogiorno correvo a casa, mettevo a cuocere le patate e la verdura, apparecchiavo la tavola e facevo quel che ero capace di fare, cosí quando mia madre arrivava di corsa dal lavoro doveva soltanto servire in tavola.
Mangiavamo quasi sempre stufato, perché era la cosa che riempiva di piú. A volte la mamma preparava il pasticcio di carne. A ripensarci adesso, è una faccenda buffa, questa del pasticcio di carne. Andavo dal macellaio e compravo sei pence di ritagli. Allora non ci si preoccupava tanto dell’igiene come oggi: fuori dalle macellerie c’erano grossi tavolacci di legno sui quali erano esposti i vari tagli, a beneficio dei clienti e delle mosche. Il macellaio affettava la carne e gettava via i pezzettini che avanzavano. «Pizzi del tagliere», si chiamavano. Con sei pence di ritagli e un penny di sugna mia madre faceva certi pasticci di carne che neanche v’immaginate. Ma appena finito di pranzare doveva correre subito al lavoro, perché aveva solo mezz’ora di pausa. E quindi i piatti li lavavo io, e dopo tornavo a scuola. Al pomeriggio andavo a prendere i due piccoli all’asilo e li portavo a casa, poi cominciavo a fare le pulizie e rassettavo i letti. Non mi è mai passato per la mente che fosse un’ingiustizia. Era cosí e basta. Era quel che ci si aspettava da te, se eri la figlia maggiore in una famiglia di lavoratori. Certo, alla sera era la mamma a occuparsi di tutto. Tornava alle sei e preparava la cena, che era uguale alla colazione: pane e margarina.
Diversamente da molte persone che ho conosciuto, a scuola non ho mai fatto grandi amicizie. Però avevo la mia famiglia, quindi la cosa non mi preoccupava; e poi, insomma, la città era tutta per noi.



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Dowtown Abbey
30.11|21:23 baskerville1970
Il telefilm è assai gradevole, ma il libro pare un concentrato di luoghi comuni. Povero Giulio Einaudi...
Dowtown Abbey
30.11|18:41 larall
Un polpettone vittoriano!! Sono in Inghilterra ho visto qualche puntata. Rinforza l'idea della divisione in classi della societa' tanto cara agli inglesi. Questo governo poi sta riportando il Regno Unito alla poverta' quella vera e Downtown Abbey qui lo guardano perche' per molti e' la societa' che si sta profilando. Orribile!!!
Ma Downtown Abbey...
30.11|17:54 Siderado
ha qualcosa in comune con una serie inglese degli anni 70 e che si chiamava "Su e Giu per le scale" trasmessa anche da Rai Uno
Che robaccia!
30.11|17:54 robert nozick
Ma come fa Einaudi a pubblicare simile robaccia priva di pensiero? Se l'avessi proposto io l'avrebbero respinto senza nemmeno leggerlo. Ecco come va la grande editoria in Italia. Basta pagare la pubblicità per dare da mangiare al lettore ignorante simile robaccia.
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3 commenti:

Massimo Villivà ha detto...

Grazie Prof Melis! Concordo con lei al cento per cento. Ogni volta che vado in libreria mi viene lo sconforto per la quantità sovrumana di merda letteraria prodotta a getto continuo. E le agenzie letterarie, poi ... pura speculazione alle spalle dei poveretti! Ho avuto anch'io a che fare con la Lepri ... io 600 euro non li caccerei neanche se li avessi. Un'agenzia letteraria seria non ti deve chiedere nulla. Se quello che fai vale, si prende una percentuale. Se fa schifo, te lo dice e basta.
Aggiungo che concordo con lei sulla questione elezioni, sull'ennesimo massacro negli USA, sulla Murgia ...
Continui così, prof, non smetta, perché c'è bisogno di gente che non abbia paura di parlare chiaro e forte e di dire che la merda è merda, sotto qualunque forma si presenti.

Ebenezer ha detto...

con ogni franchezza tale testo, sia pur commerciale, mi pare più leggibile, in termini di struttura e prosa, dei post contenuti nel presente blog (e dunque, probabilmente, del suo manoscritto); inoltre è errato giudicare una casa editrice dai suoi libri peggiori. Ci si confronti con i migliori, e si vedrà che quello che dobbiamo fare è migliorarci ancora molto...

Pietro Melis ha detto...

Prima di tutto non deve giudicarmi in base a quanto scrivo nel blog per quanto riguarda la forma in quanto si tratta di articoli che non revisiono nella forma, nonostante sia rispettoso della sintassi e della grammatica, come invece non sono molti scrittori che non rispettano il congiuntivo, che hanno contribuito ad uccidere. Faccio un esempio. Leggo spesso: non so se sai...Errato. Nell'interrogativa indiretta, nella dubitativa occorre il congiuntivo. Perciò: non se se (tu) sappia...
Inoltre io mi riferivo al fatto che la maggior parte dei libri sono romanzi privi di idee. Libri di evasione. Tempo perso leggerli: essi non danno conoscenze né inducono a riflettere e a porsi domande sul significato della vita. Libri di evasione. Se molti hanno bisogno di mandare il cervello in vacanza facciano pure. Sono quelli che fanno fare più soldi agli scrittori ignoranti privi di idee.