Si sa che le indagini vengono svolte dal PM e il giudice delle indagini preliminari si affida alle conclusioni del P.M. E' bene dunque che gli uffici siano separati ponendoli anche in edifici diversi. Solo nominalmente i provvedimenti vengono firmati dal giudice delle indagini preliminari. Per quanto riguarda la responsabilità civile dei giudici quando facciano sentenze aberranti la riforma di Nordio è del tutto deficiente. Si conserverebbe infatti la condizione di giudici che dovrebbero giudicare altri giudici trascurando che comunque prevarrebbe lo spirito di casta. I giudici non possono essere giudicati da altri giudici. Per superare una buona volta lo spirito di casta che arriva sino al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) è necessario che i giudici vengano giudicati da una al Corte di Giustizia composta da giuristi (studiosi del diritto) e non più da altri giudici (manovali del diritto). Questa Corte sostituirebbe una Corte straniera quale è la Corte Europea dei diritti dell'uomo, a cui mi sono rivolto pur con totale scetticismo. Finalmente i giudici perderebbero lo spirito di casta sentendo sopra di essi una Corte italiana costituita da giuristi, che giudicherebbero con vero spirito di indipendenza. Solo questa alta Corte di giustizia potrebbe giudicare i giudici responsabili di sentenze aberranti senza che questa Corte debba avere il coraggio di condannare dei giudici riconoscendo una loro responsabilità civile. Oggi i giudici solo nominalmente possono essere condannati perché è lo Stato che si fa carico del risarcimento dei danni causati da sentenze che non rispettano nemmeno la logica. Si è conclusa due anni fa una causa civile durata 25 anni. Incredibile. Potrei chiedere l'intervento del CSM e del ministro della giustizia per punire tutti i giudici per cui sono passati in una vicenda che rende persino fondato il sospetto di una collusione dei giudici con il liquidatore, pur essendo evidente il cumulo di contraddizioni dietro il quale si sono dovuti riparare per salvare il liquidatore, che è un collaboratore dei giudici che dirigono la Sezione Fallimentare del Tribunale. Contraddizioni che sono derivate non da ignoranza o mancanza di filo logico ma dalla necessità di salvare il liquidatore. Sono incappato in un giudice, Mario Farina, che ha scritto che il liquidatore doveva essere pagato anche se era stato revocato dalla sua carica perché poteva essere considerato in buona fede nel suo credere di essere ancora liquidatore nonostante la sua revoca dalla sua carica. Pazzesco. La maggiore responsabile di questa vicenda è una donna, in Corte d'Appello, Donatella Aru, che ha scritto che la revoca della nomina del liquidatore non poteva avere alcuna conseguenza perché il presidente del Tribunale non aveva dichiarato che fosse nulla la nomina del liquidatore. Questa stessa donna ha scritto che mi sarei dovuto rivolgere alla Cassazione per chiedere la revoca della nomina del liquidatore, nonostante che la stessa Cassazione a Sezioni Unite avesse dato ragione a me scrivendo che mi sarei dovuto rivolgere al Tribunale, come io avevo fatto. Questa stessa donna ha riempito la sentenza di sentenze della Cassazione per darmi torto nonostante che tutte le sentenze della Cassazione da essa citate dessero ragione a me. Di fronte ad una situazione simile questa donna meriterebbe di essere licenziata anche prescindendo dal fondato sospetto, che è più di un sospetto, per avere voluto salvare ad ogni costo il liquidatore. All'inizio della sentenza ha scritto che per chiedere la revoca della nomina del liquidatore avevo agito aprendo un giudizio ordinario. Dopo qualche altra pagina è giunta a scrivere il contrario scrivendo che avrei dovuto aprire un giudizio ordinario. Questo giudizio ordinario si concluse con una ordinanza che rigettava la mia domanda di revoca della nomina del liquidatore. Ordinanza scritta da una sua collega, Tiziana Marogna, che scrisse che mi serei dovuto rivolgere alla Cassazione e non a lei in Tribunale. La M(C)arogna è crepata alcuni mesi fa. Andiamo avanti. La Aru, che aveva accolto l'ordinanza della M(C)arogna pur citando la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite che dava ragione a me (pazzesco!) concluse dicendo che il successivo decreto del tribunale che revocava la nomina del liquidatore non poteva avere alcuna conseguenza, come ho già scritto, perché il presidente del tribunale non aveva dichiarato la nullità della nomina del liquidatore, avvenuta per colpa di un precedente presidente del tribunale che mi aveva ritenuto favorevole alla nomina del liquidatore pur risultando chiaramente contrario. Dunque era necessario ricorrere ad una grave falsità potendo per legge essere nominato il liquidatore solo con la volontà di tutti i soci. E io risultavo invece contrario perché non vi era alcuno dei motivi previsti dall'art. 2272 C.C. per nominare il liquidatore. Non basta. La Aru ha scritto un'altra aberrazione scrivendo che io non potevo agire chiedendo la nullità della nomina del liquidatore (con la cosiddetta actio nullitatis) perché bastava che io avessi chiesto la revoca della nomina del liquidatore anche in base all'art. 742 C.P.C. Un giudice che non sia ignorante sa che l'art. 742 C.P.C. rientra nei provvedimenti camerali che non danno mai luogo ad un giudicato perché possono essere rimossi in ogni tempo (senza scadenza dei termini di tempo) salvi i dirittii del terzo in buona fede. E giocando su questo articolo la Aru l'ha utilizzato scrivendo, ripeto, che la revoca della nomina del liquidatore era valida perché il decreto di revoca non comportava la nullità della nomina. Solo un giudice ignorante o corrotto poteva scrivere che bastava l'art. 742 C.P.C. che rendeva inutile la richiesta di nullità della nomina del liquidatore. Una sentenza deve concludersi sempre dando luogo ad un giudicato. L'art. 742 C.P.C. esclude il giudicato, se, come ho detto, il provvedimento camerale può essere sempre rimosso senza termini di tempo (salvi i diritti del terzo in buona fede). A che servirebbe un ricorso al ministro della giustizia e al CSM se il CSM è una Corporazione di Stampo Mafioso?
Avevo ereditato la causa da mio padre, che aveva costituito una società con altri due gruppi per la costruzione di un cinema per cui mio padre aveva ottenuto la licenza dal ministero dello spettacolo. Mio padre e mia madre conferivano alla società, chiamata Cinecorallo, il terreno e i locali che sarebbero divenuti proprietà del cinema. Gli altri soci avrebbero finanziato la costruzione del cinema. A costruzione ultimata si sarebbero fatti i dovuti conguagli perché ciascuno dei tre gruppi avesse la proprietà di un terzo. Ma mio padre, che era anche ingegnere, capì che era stato gonfiato il costo della costruzione rispetto al suo preventivo per mettere i miei genitori in stato recesso e non aderì pertanto all'aumento del capitale che doveva essere pari al valore del terreno, dei locali e del costo della costruzione. Pertanto i miei genitori rimasero fermi alla loro quota del capitale iniziale, cioè al 34% di un milione, mentre il capitale era stato portato al valore complessivo di 95 milioni. Per avere riconosciuto il loro 34% i miei genitori avrebbero dovuto pagare circa 10 milioni di lire. Mio padre chiese l'annullamento del conferimento del terreno e dei locali per indampimento della Cinecorallo. Perse in tribunale e in Corte d'appello perché i giudici non controllarono i bilanci e conclusero che il terreno e i locali risultavano conferiti nella società Cinecorallo, allora S.p.A. perché allora bastava un milione per costituire una S.p.A. Era falso. Mio padre non ne vide la fine perché morì tra i dispaceri nel 1977. Era stato vittima anche di un avvocataccio suo vecchio amico di Roma. Fu sostituito dall'avv. Beniamino Piras, uno dei migliori ricordi della mia vita. Egli disse a me e ai due fratelli che il prosieguo della causa, vertente sulla richiesta dei danni, doveva ritenersi anch'esso perso date le sentenze negative in tribunale e in Corte d'Appello nel 1974. E ci consigliò di metterci d'accordo con gli altri soci per uscire dalla società. I fratelli a questo punto preferirono rinunciare all'eredità di mio padre visto che egli aveva attribuito a mia madre la proprietà di tutti gli immobili, e fecero fare anche a mia madre. Io invece decisi di volerci vedere chiaro prima di prendere una decisione. E mi buttai su una montagna di fascicoli. Mio padre aveva fatto in tempo a contrastare il costo della costruzione ritenendolo gonfiato e si rivolse ad un suo collega, l'ing. Cellesi, perché dimostrasse che era falso il costo della costruzione. Messo da me sulla strada giusta perché capisse che il costo della costruzione era stato gonfiato, e con esso il capitale sociale, la causa dopo la morte di mio padre proseguì sulla domanda di risarcimento dei danni. Fortunatamente in Corte d'Appello trovai un giudice, Oliviero Mighela, che, convinto che il costo della costruzione era stato gonfiato, demolì la perizia di ufficio sulla base della perizia di parte ritenendo che il capitale era stato gonfiato di 25 milioni di lire. Pertanto venne giustificato il rifiuto dei miei genitori di aderire all'aumento del capitale. Con l'avv. Piras vinsi anche in Cassazione. A questo punto tornai in tribunale perché venisse quantificato il danno, consistente nei 25 milioni, valore del terreno e dei locali conferiti dai miei genitori, rivalutati e con l'aggiunta degli interessi. I 25 milioni divennero nel 1991 circa un miliardo di lire. A questo punto i vecchi soci di mio padre preferirono rinunciare a tutte le quote della Cinecorallo a compensazione del miliardo di lire. I due fratelli, avendo fatto rinuncia all'eredità di mio padre, e avendola fatta fare anche a mia madre credendo che la causa fosse persa anche nel suo prosieguo, divennero titolari del 34% delle quote della Cinecorallo avendo ereditato ciascuno dei due un terzo da parte di mia madre. Dai due "fratelli" non ebbi mai un aiuto economico per portare avanti la causa dopo la morte di mio padre.
Giudici che non hanno tenuto conto che da tutta la vicenda risultava che i due "fratelli" soci di minoranza volevano costringermi a vendere per sanare i loro debiti personali. Uno, più piccolo di me di 5 anni, aveva un debito di 180 milioni di lire con la banca Cariplo.E' morto nel 2003. L'altro, più grande di me di tre anni, ancora vivente, doveva pagare ancora 100 milioni di lire alla BNL per avere acquistato una casa per l'amante, senza mai dividersi dalla moglie, che per quieto vivere, soprattutto a beneficio del figlio ancora bambino, si arrese a vivere in un triangolo. Non si può chiedere lo scioglimento di una società da sempre in attivo che conseguiva il suo oggetto sociale. La causa verteva sulla vendita tramite liquidatore di un grande locale, un cinema di circa 700 posti divisi tra platea e galleria. Il locale era stato sempre affittato ad una società che pagava regolarmente l'affitto. Essendo la proprietà distinta dall'affitto non poteva esistere alcun dissidio tra i soci. Per di più io ero stato sempre proprietario nella misura del 66%. I soci di minoranza potevano solo richiedere la liquidazione della loro quota, pari al 17%. Tre anni prima avevo rifiutato un'offerta di un miliardo e 800 milioni di lire da parte di un tale proprietario oggi di una catena di supermarket chiamata GF, iniziali di Gesuino Fenu, che voleva ristrutturare il locale del cinema trasformandolo in un supermarket. Come potevo dunque essere favorevole ad una vendita tramite liquidatore che vendette per un miliardo e mezzo meno l'esosa parcella di 166 milioni di lire del liquidatore? Tutto ciò è stato ignorato dalla Aru, la maggiore responsabile essendo in Corte d'Appello, dove avrebbe dovuto porre riparo alle sentenze del tribunale e soprattutto all'ordinanza di mero rito della M(C)arogna che scrisse che mi sarei dovuto rivolgere direttamente alla Cassazione e non a lei in Tribunale. La M(C)arogna fece riferimento ad una giurisprudenza minoritaria della Cassazione, ignorando del tutto la giurisprudenza maggioritaria che richiedeva il ricorso al tribunale. E l'ultima sentenza della Cassazione su questo argomento, a ridosso dell'ordinanza, apparteneva alla giurisprudenza maggioritaria. La Aru in Corte d'Appello ha citato la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 2002 che, per risolvere il diverbio tra le due giurisprudenze, annullò la giurispudenza minoritaria lasciando in vita quella maggioritaria che richiedeva il ricorso al Tribunale e non alla Cassazione. Ma incredibilmente la Aru non ne ha voluto tener conto ritenendo pertanto valida l'ordinanza della M(C)arogna. Un giudice che cita contro di me una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, favorevole invece a me, meriterebbe di essere licenziata perché una delle due: o è incapace di cogliere una grave contraddizione oppure ha voluto salvare il liquidatore dando luogo al sospetto, che è più di un sospetto, di collusione con il liquidatore. Dopo la tremenda falsità del presidente del Tribunale (morto quando era andato in pensione) che nominò il liquidatore dandomi come consenziente, mentre risultavio contrario, vi fu il successivo errore della Aru che convalidò l'ordinanza della M(C)arogna, finita in Corte d'Appello e nello stesso Collegio della Aru, per cui si verificò un ulteriore errore giacché la M(C)arogna non avrebbe dovuto far parte dello stesso Collegio, avendo già trattato la vicenda in Tribunale. In Cassazione la presidente del Collegio impedì al mio avvocato di leggere le 5 pagine che si era preparato dicendo che non era necessario perché il Collegio conosceva già la vicenda. FALSO! FALSO! Ero presente anch'io perché volevo assistere all'udienza, che di fatto non esistette nemmeno. Anche in Cassazione la causa viene conosciuta soltanto dal giudice relatore perché gli altri non vogliono occuparsi di cause per cui non sono relatori. Il giudice relatore si limitò a ripetere l'intervento di un minuto del P.M. saltando completamente tutti i motivi di nullità che erano stati affacciati nel Ricorso in Cassazione, ignorando anche una sentenza della Corte d'Appello di Cagliari che dava ragione a me ritenendo che fosse NULLA la sentenza del Tribunale che mi aveva sospeso dalla carica di amministratore. Ma se era nulla la sentenza del Tribunale era chiaro che veniva a mancare l'unico motivo per cui i due soci di minoranza avevano chiesto la nomina di un liquidatore. Si ricavava da ciò che io ero stato sempre amministratore e che pertanto anche per questo motivo non si poteva giustificare la nomina di un liquidatore, non potendo coesistere insieme l'amministratore e il liquidatore, che richiedeva il venir meno dell'amministrazione. Tutto ciò è stato ignorato anche in Cassazione. IN CONCLUSIONE, si rende necessaria una alta Corte di giustizia che ponga riparo a gravi sentenze dei giudici, non potendo ritenersi che siano infallibili i giudici della Cassazione, che vi arrivano senza alcun concorso che valuti il loro merito. Anche per questo dovrebbe esistere in casi gravi una alta Corte di giustizia che ponga rimedio ai gravi errori che possono essere commessi anche in Cassazione. Una alta Corte di giustizia che sia costituita da giuristi e non da giudici, che rimarrebbero dipendenti dalla loro appartenenza ad una casta, da cui sarebbero indipendenti i giuristi che costituissero questa alta Corte di giustizia.
Ecco perché ritengo che la riforma di Nordio sia del tutto insufficiente, giacché lascia pur sempre alla casta la decisione sull'operato dei giudici togati.
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