Ricevo da un mio corrispondente dalla Svizzera quanto segue. Ho eliminato i cognomi di mia iniziativa non sapendo se potessi pubblicarli.
Caro prof. Melis,
passo ogni tanto a un mio amico di
Torino, che ho conosciuto in rete, alcuni Suoi articoli. Per es. il Suo
parere “Argomento invicibile contro l’euro” e anche "GIOVANNI PAOLO II: APRITE, ANZI SPALANCATE LE PORTE A CRISTO. PASQUA DI SANGUE” più la Sua “Intervista”.
Ecco
il parere e le sue obiezioni di Massimo M. in merito ai Suoi
articoli. Cosa replicherebbe? Secondo me il “neminem laedere” non è un
valore convenzionale come dice lui. Ovviamente il ritorno al “cuius
regio” non è praticabile. Il cristianesimo è morto o moribondo (almeno
sul piano filosofico o razionale) e non saprei quindi che religione
dovrebbe adottare l’Europa occidentale. Non bisognava fare affluire
tutti questi islamici in Europa, e che la sinistra atea vi abbia
contribuito, è proprio il colmo. Come diceva ieri Feltri nel Giornale
gli islamici odiano non solo cristiani ed ebrei, ma anche gli atei. È
ovvio, gli atei se ne fottono del loro Maometto e Allah. Se ne
accorgeranno queste teste di c… di sinistra. Non avranno nemmeno più il
diritto duramente conquistato di scopare liberamente, come diceva la
Fallaci.
Di nuovo cordiali saluti
Sergio P.
Caro Sergio,
complimenti vivissimi a Melis che ha centrato perfettamente il problema dell'euro (e complimenti a te per il preciso ed informato commento). Come dice sempre Bagnai, l'Italia non avrà mai le palle per uscire dall'euro: dovremo aspettare che lo faccia cadere qualche evento esterno, che può essere il crollo della Grecia, ma non solo, visto che anche in Francia stanno incominciando a farsi certe domande.
complimenti vivissimi a Melis che ha centrato perfettamente il problema dell'euro (e complimenti a te per il preciso ed informato commento). Come dice sempre Bagnai, l'Italia non avrà mai le palle per uscire dall'euro: dovremo aspettare che lo faccia cadere qualche evento esterno, che può essere il crollo della Grecia, ma non solo, visto che anche in Francia stanno incominciando a farsi certe domande.
Caro Sergio,
sempre interessante Melis, devo riconoscerlo. Bello il primo pezzo, ma abbastanza facile, visto l’argomento.
sempre interessante Melis, devo riconoscerlo. Bello il primo pezzo, ma abbastanza facile, visto l’argomento.
Più
difficile (e quindi per me più interessante) l'intervista, la cui prima
parte, dedicata alla storia delle religioni, mi ha fatto imparare
parecchie cose che non conoscevo.
Magari ci faccio un post.
Mi ha convinto di meno invece la seconda parte in cui, secondo la sua linea preferita, contrappone la superiorità di un diritto naturale ex ante al relativismo dei valori.
Non mi convince perchè i valori comuni (diritto, etica, morale, ecc.) nascono dall'ovvia esigenza di tenere a freno gli egoismi individuali a beneficio della convivenza sociale.
Ed in questo campo, a mio avviso, TUTTO E' SEMPRE E SOLTANTO CONVENZIONALE, nel senso che ogni società storica ha trovato e trova le proprie specifiche soluzioni, nessuna delle quali è migliore o peggiore delle altre.
Magari ci faccio un post.
Mi ha convinto di meno invece la seconda parte in cui, secondo la sua linea preferita, contrappone la superiorità di un diritto naturale ex ante al relativismo dei valori.
Non mi convince perchè i valori comuni (diritto, etica, morale, ecc.) nascono dall'ovvia esigenza di tenere a freno gli egoismi individuali a beneficio della convivenza sociale.
Ed in questo campo, a mio avviso, TUTTO E' SEMPRE E SOLTANTO CONVENZIONALE, nel senso che ogni società storica ha trovato e trova le proprie specifiche soluzioni, nessuna delle quali è migliore o peggiore delle altre.
Forse il relativismo che dà fastidio a Melis è un
altro, e cioè il multiculturalismo, ovvero la è presenza contemporanea
in una stessa società di tante visioni valoriali diverse.
E questo, in effetti (e lo vediamo intorno a noi) non funziona e non puà funzionare.
Forse, si dovrebbe tornare (in forma laica, se possibile) al cuius regio.
E questo, in effetti (e lo vediamo intorno a noi) non funziona e non puà funzionare.
Forse, si dovrebbe tornare (in forma laica, se possibile) al cuius regio.
RISPONDO
Sia nell'antichità (con lo stoicismo) che nell'età moderna (Grozio, Pufendorf, Locke, Leibniz, Voltaire, il primo Rousseau, Montesquieu, Kant, il primo Fichte) il diritto naturale è stato considerato come diritto della ragione, e ciò in contrasto con la rivoluzione scientifica che aveva astronomicamente decentrato la Terra e perciò l'uomo, ponendolo alla periferia del sistema solare. Finito il sistema geocentrico (che poteva giustificare l'antropocentrismo) non aveva più senso separare l'uomo da tutte le altre forme di vita. Nel '700 sopravvive un contrasto tra il materialismo francese di Lamettrie, D'Holbach, Helvetius e Diderot, che riconoscevano un'origine comune di tutte le forme di vita e il loro non percepire che il diritto naturale non poteva più essere considerato come diritto della ragione, escludendo da esso tutti gli animali non umani. Dopo Kant si è avuta l'eclisse del diritto naturale per il prevalere dello storicismo a cominciare dall'idealismo di Hegel. Si è aggiunta la concezione convenzionalistica nella filosofia della scienza che ha portato a credere che le leggi fisiche siano solo una nostra interpretazione della REALTA' naturale, ma ciò in contrasto con il pensiero di eminenti scienziati come Niels Bohr, Werner Heisenberg, Einstein.
Chi ha contrastato il diritto naturale (anche nella versione moderna del diritto naturale inteso come diritto della ragione) ha sempre confuso il diritto naturale con le norme morali. E poiché le norme morali portano sempre al relativismo delle culture si è voluto concludere che con il diritto naturale non si può superare il relativismo o il convenzionalismo delle norme giuridiche. Nel '700 il diritto naturale trovò la sua massima opposizione in Davide Hume, che considerò la giustizia una costruzione artificiale "volta ad assicurare all'individuo potenza, abilità e sicurezza"(Trattato della natura umana, P. II, sez. I). La società nasce per convenzione, non per contratto sociale (come in Hobbes e in Locke) essendo fondata sull'utilità espressa dal vantaggio dell'individuo di avere un godimento stabile dei suoi beni. Contraddittoriamente Hume fondò il carattere di universalità del giudizio morale sul sentimento generale di approvazione o disapprovazione di determinate azioni, quando questo sentimento non dipenda da una valutazione sociale ma sia un sentimento disinteressato di simpatia o di approvazione per tutte le qualità che vengono riconosciute essere piacevoli o utili per chi le possieda o per gli altri (Trattato, L. III, P. III, sezz. 1-6). Secondo Hume "la nozione morale implica qualche sentimento comune a tutta l'umanità, che raccomanda lo stesso oggetto all'approvazione generale...Essa implica altresì qualche sentimento così universale e comprensivo da estendersi a tutto il genere umano e da rendere le azioni e la condotta, anche delle persone più lontane, oggetto di plauso o di censura (Ricerca sui principi della morale, sez. IX).
L'argomentazione fondamentale di Hume, ripresa ancor oggi dai filosofi contemporanei che non accettano il diritto naturale, consiste nell'affermare che non si può dedurre il dover essere dall'essere (cioè dalla natura). In sostanza, si vuole dire, in natura non esistono né diritti né doveri morali.
Ma la concezione humiana della norma morale universale non è affatto applicabile se ci si riferisce a tutta l'umanità, altrimenti si dovrebbero superare i limiti culturali (storici) delle diverse norme morali che hanno diversi popoli. Soprattutto se si pretende di fondare la norma morale sul sentimento e non sulla ragione (come farà Kant con il famoso imperativo categorico, che nella formulazione principale dice: "Agisci in modo da considerare la massima della tua azione come principio di una legislazione universale". Ma Kant cadde nell'errore di considerare poi il diritto naturale solo nell'ambito dei soggetti morali, e perciò la morale come fondamento della giustizia. In realtà la norma morale di Kant potrebbe essere considerata alla stregua di una norma giuridica universale. Infatti lo stesso Kant espresse la norma generale del diritto in questi termini: "Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale" (Metafisica dei costumi, Introduzione alla dottrina del diritto, §C).
L'errore fondamentale di ogni concezione convenzionalistica del diritto, contro cui ho sempre combattuto, parte dalla solita confusione del diritto naturale con l'etica. E' infatti vero (come disse Hume) che il dover essere (cioè la morale) non può essere tratto dall'essere. Ma il diritto naturale è ricavabile invece proprio dall'essere. Pare che io sia l'unico ad avere affermato ciò, che mi sembra tanto evidente. Consideriamo infatti il primo principio della dinamica. Esso dice: ogni corpo TENDE a mantenre il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Si tratta di una legge fisica che è fondata su una TENDENZA. Negare questa TENDENZA significa negare il primo principio della dinamica. Orbene, in natura vi è la TENDENZA naturale di ogni essere vivente a conservarsi in vita. Si vuole negare che da tale TENDENZA scaturisca un diritto? Allora sono disposto a rinunciare anche al termine "diritto" (che può avere una connotazione antropomorfica) senza per questo cambiare la sostanza, dicendo che in natura esiste "il principio naturale della tendenza di ogni organismo a conservarsi in vita". Negare questo principio significa che è del tutto convenzionale che ogni organismo TENDA a conservarsi in vita. Il che è assolutamente falso perché contraddetto dalla stessa natura. Contrastare il principio della tendenza di ogni essere vivente ad autoconservarsi in vita significa andare contro natura. E' evidente che questo principio si autolimita da sé in quanto ogni essere vivente tende a conservarsi in vita cercando di sottrarsi ad esseri viventi che siano nocivi per la sua vita. Altrimenti non dovremmo usare nemmeno gli antibiotici per uccidere determinati batteri o evitare di difendersi da insetti come le zanzare. E questo principio non è contraddetto nemmeno dalla catena alimentare perché il predatore (carnivoro) può autoconservarsi in vita soltanto predando. L'uomo, divenuto animale culturale, ha smesso di predare (a parte la feccia dei cacciatori che sono tali solo per il gusto di uccidere) ed è divenuto allevatore di esseri viventi in allevamenti di morte industriali. E ciò è contro natura. I predatori non allevano le loro prede. Che poi l'uomo sia un animale onnivoro anche questo è falso, considerando la sua evoluzione dall'australopithecus africanus. Già Rousseau in due note del Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini aveva fatto notare come tutta la conformazione fisica dell'uomo (dall'intestino assai lungo ai denti, al numero dei capezzoli) facesse intendere che esso dovesse essere ricompreso naturalmente tra gli animali erbivori.
Nell'antichità Epicuro ebbe una concezione convenzionalistica della società, ma cadde in contraddizione pretendendo poi di far valere come norme universali le norme morali tendenti a favorire una vita tranquilla e serena e a giustificare una dieta vegetariana sia per ragioni di salute che per rispetto della vita degli animali. Egli non seppe però fondare questo rispetto perché non concepì un diritto naturale, una volta escluso che questo diritto non valesse a giustificare l'origine della società, e dunque non valesse nemmeno tra gli uomini, a cui consigliava di tenersi lontani dalla politica per difendere uno stato di tranqullità, sostituendo utopisticamente i rapporti sociali con rapporti privati fondati sull'amicizia. Come se si potesse vivere fuori della società e si potesse dunque fare a meno della politica. Giustamente Aristotele (Politica, L. I) disse che l'uomo è un animale politico (Zòon politikòn).
Chi ha contrastato il diritto naturale (anche nella versione moderna del diritto naturale inteso come diritto della ragione) ha sempre confuso il diritto naturale con le norme morali. E poiché le norme morali portano sempre al relativismo delle culture si è voluto concludere che con il diritto naturale non si può superare il relativismo o il convenzionalismo delle norme giuridiche. Nel '700 il diritto naturale trovò la sua massima opposizione in Davide Hume, che considerò la giustizia una costruzione artificiale "volta ad assicurare all'individuo potenza, abilità e sicurezza"(Trattato della natura umana, P. II, sez. I). La società nasce per convenzione, non per contratto sociale (come in Hobbes e in Locke) essendo fondata sull'utilità espressa dal vantaggio dell'individuo di avere un godimento stabile dei suoi beni. Contraddittoriamente Hume fondò il carattere di universalità del giudizio morale sul sentimento generale di approvazione o disapprovazione di determinate azioni, quando questo sentimento non dipenda da una valutazione sociale ma sia un sentimento disinteressato di simpatia o di approvazione per tutte le qualità che vengono riconosciute essere piacevoli o utili per chi le possieda o per gli altri (Trattato, L. III, P. III, sezz. 1-6). Secondo Hume "la nozione morale implica qualche sentimento comune a tutta l'umanità, che raccomanda lo stesso oggetto all'approvazione generale...Essa implica altresì qualche sentimento così universale e comprensivo da estendersi a tutto il genere umano e da rendere le azioni e la condotta, anche delle persone più lontane, oggetto di plauso o di censura (Ricerca sui principi della morale, sez. IX).
L'argomentazione fondamentale di Hume, ripresa ancor oggi dai filosofi contemporanei che non accettano il diritto naturale, consiste nell'affermare che non si può dedurre il dover essere dall'essere (cioè dalla natura). In sostanza, si vuole dire, in natura non esistono né diritti né doveri morali.
Ma la concezione humiana della norma morale universale non è affatto applicabile se ci si riferisce a tutta l'umanità, altrimenti si dovrebbero superare i limiti culturali (storici) delle diverse norme morali che hanno diversi popoli. Soprattutto se si pretende di fondare la norma morale sul sentimento e non sulla ragione (come farà Kant con il famoso imperativo categorico, che nella formulazione principale dice: "Agisci in modo da considerare la massima della tua azione come principio di una legislazione universale". Ma Kant cadde nell'errore di considerare poi il diritto naturale solo nell'ambito dei soggetti morali, e perciò la morale come fondamento della giustizia. In realtà la norma morale di Kant potrebbe essere considerata alla stregua di una norma giuridica universale. Infatti lo stesso Kant espresse la norma generale del diritto in questi termini: "Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale" (Metafisica dei costumi, Introduzione alla dottrina del diritto, §C).
L'errore fondamentale di ogni concezione convenzionalistica del diritto, contro cui ho sempre combattuto, parte dalla solita confusione del diritto naturale con l'etica. E' infatti vero (come disse Hume) che il dover essere (cioè la morale) non può essere tratto dall'essere. Ma il diritto naturale è ricavabile invece proprio dall'essere. Pare che io sia l'unico ad avere affermato ciò, che mi sembra tanto evidente. Consideriamo infatti il primo principio della dinamica. Esso dice: ogni corpo TENDE a mantenre il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Si tratta di una legge fisica che è fondata su una TENDENZA. Negare questa TENDENZA significa negare il primo principio della dinamica. Orbene, in natura vi è la TENDENZA naturale di ogni essere vivente a conservarsi in vita. Si vuole negare che da tale TENDENZA scaturisca un diritto? Allora sono disposto a rinunciare anche al termine "diritto" (che può avere una connotazione antropomorfica) senza per questo cambiare la sostanza, dicendo che in natura esiste "il principio naturale della tendenza di ogni organismo a conservarsi in vita". Negare questo principio significa che è del tutto convenzionale che ogni organismo TENDA a conservarsi in vita. Il che è assolutamente falso perché contraddetto dalla stessa natura. Contrastare il principio della tendenza di ogni essere vivente ad autoconservarsi in vita significa andare contro natura. E' evidente che questo principio si autolimita da sé in quanto ogni essere vivente tende a conservarsi in vita cercando di sottrarsi ad esseri viventi che siano nocivi per la sua vita. Altrimenti non dovremmo usare nemmeno gli antibiotici per uccidere determinati batteri o evitare di difendersi da insetti come le zanzare. E questo principio non è contraddetto nemmeno dalla catena alimentare perché il predatore (carnivoro) può autoconservarsi in vita soltanto predando. L'uomo, divenuto animale culturale, ha smesso di predare (a parte la feccia dei cacciatori che sono tali solo per il gusto di uccidere) ed è divenuto allevatore di esseri viventi in allevamenti di morte industriali. E ciò è contro natura. I predatori non allevano le loro prede. Che poi l'uomo sia un animale onnivoro anche questo è falso, considerando la sua evoluzione dall'australopithecus africanus. Già Rousseau in due note del Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini aveva fatto notare come tutta la conformazione fisica dell'uomo (dall'intestino assai lungo ai denti, al numero dei capezzoli) facesse intendere che esso dovesse essere ricompreso naturalmente tra gli animali erbivori.
Nell'antichità Epicuro ebbe una concezione convenzionalistica della società, ma cadde in contraddizione pretendendo poi di far valere come norme universali le norme morali tendenti a favorire una vita tranquilla e serena e a giustificare una dieta vegetariana sia per ragioni di salute che per rispetto della vita degli animali. Egli non seppe però fondare questo rispetto perché non concepì un diritto naturale, una volta escluso che questo diritto non valesse a giustificare l'origine della società, e dunque non valesse nemmeno tra gli uomini, a cui consigliava di tenersi lontani dalla politica per difendere uno stato di tranqullità, sostituendo utopisticamente i rapporti sociali con rapporti privati fondati sull'amicizia. Come se si potesse vivere fuori della società e si potesse dunque fare a meno della politica. Giustamente Aristotele (Politica, L. I) disse che l'uomo è un animale politico (Zòon politikòn).
Che tutti gli oppositori del diritto naturale cadano in contraddizione con se stessi è dimostrato dall'analisi che io nei miei libri ho fatto dei giuspostivisti, come Kelsen e Norberto Bobbio.
Il noto studioso del diritto Norberto Bobbio scrisse un libro (da me assai criticato sino a portarlo al ridicolo) intitolato Giusnaturalismo e positivismo giuridico. Bobbio critica ferocemente il diritto naturale sulla base di una serie di argomentazioni che sarebbe troppo lungo riportare qui. Il suo principale argomento consiste nel considerare che il diritto naturale è privo di un preciso contenuto in quanto si è prestato a giustificare sia l'assolutismo che il liberalismo. Egli, come tutti anche tutti i giusnaturalisti moderni da me citati, ha considerato il diritto naturale come diritto della ragione e non come diritto all'AUTO-conservazione della vita. Riporto ora quanto ho scritto nel mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Chi,
come Norberto Bobbio, ha creduto di fare del diritto una scienza
impoverendolo nel formalismo linguistico e nello storicismo raccoglie
oggi le miserie che ha coltivato per tutta la vita, non avendo mai
potuto giustificare in tal modo le sue scelte politiche e di vita,
che, se fosse stato coerente, avrebbe dovuto considerare del tutto
convenzionali, a partire dalla sua conversione dal fascismo all'antifascismo. I suoi studi, alla luce delle odierne problematiche,
sono del tutto sterili e inservibili, anticaglie del diritto. E’ il
giusto risultato che si merita chi ha scritto: “Ma oggi chi mai
scriverebbe ancora un trattato di diritto naturale? La storia del
diritto naturale è la storia di una grande evasione. La storia
della giurisprudenza comincia quando questa evasione è
esaurita…Tutto quel rigore che i giuristi avevano impiegato per
costruire un diritto ideale, sarà meglio adoperato per
costruire il sistema del diritto vigente” (Scienza
del diritto e analisi del linguaggio,
Rivista trimestrale 1950, pp. 342-67. Cfr. anche Giusnaturalismo
e positivismo giuridico,
Comunità 1965). Privo di competenze Bobbio (art. cit., p. 363)
ha frainteso il significato della geometria euclidea, che non è
una pura costruzione formale in alternativa ad altre geometrie (dello
spazio curvo), ma, come la considerò Einstein, una metrica
oggettiva,
valida entro i limiti della fisica newtoniana e della relatività
ristretta, intese come approssimazione alla fisica della relatività
generale (riferentesi alla geometria dello spazio curvo di Riemann).
Chi, pessimo maestro di coerenza, ha preteso di non essere un
“evasore” nel diritto avrebbe dovuto tacere invece di pretendere
di giudicare gli avversari politici, non avendone l’autorità
sulla base di un diritto storico e “scientifico”. Simili
individui non hanno alcunché da insegnare, se non in negativo.
Lo stesso discorso può farsi per Benedetto Croce, liberale e
storicista, che considerò il diritto come espressione della
forza dello Stato, non potendo in questo modo giustificare il suo antifascismo. Giovanni Gentile fu almeno coerente nella sua
concezione dello Stato etico che, nell’identificazione della
volontà dello Stato con la libertà individuale, negava
il diritto naturale.
Ho ripetuto, allargando il discorso, le stesse cose nel mio libro Io non volevo nascere.
Non
ho la pretesa di convincere i giuristi che per antica tradizione sono
usi a considerare il diritto secondo una concezione formalistica, da
farisei della giustizia, che lo riduce ad un insieme di norme che
trae validità unicamente dalle leggi dello Stato. Essi, chiusi
ad ogni considerazione che non riguardi unicamente il limitato
ambito del sistema delle norme e della loro operatività, sono
destinati a rimanere dei miseri operatori del diritto, nemmeno
pensatori, giacché incapaci di elevarsi oltre il livello del
diritto positivo. Il negativo di tale concezione non consiste tanto
in tale limitatezza, quanto nel fatto che in tal modo si continua ad
alimentare un relativismo anche da parte di chi, indirettamente,
nella dottrina, crea il diritto per i suoi possibili riflessi sulle
leggi.
Questi
individui ben possono essere rappresentati in Italia da Norberto
Bobbio, che, in quanto teorico del diritto positivo avendo egli
stesso rifiutato il concetto di filosofia del diritto quando questa,
proponendosi il compito di definire a priori il diritto, voglia
essere filosofia dei "problemi ultimi" con un
linguaggio che i giuristi non comprendono1
- ne estese la miseria alla sua concezione della giustizia, che oggi
appare del tutto inutilizzabile alla luce delle problematiche più
inquietanti del nostro tempo, essendo rimasta sempre entro i limiti
di una concezione positivistica del diritto, che separava la scienza
del diritto, in quanto avalutativa, dalla giustizia, intesa sulla
base di valori morali che, espressione – come lo stesso
liberalismo2
- di un'ideologia,3
sono considerati come insieme di “beni o interessi”4
che il diritto deve proteggere stando a contatto con “le matrici
culturali da cui ogni ordinamento giuridico è derivato”5
Bobbio
ha pertanto considerato i diritti umani dei “pii desideri” prima
che vengano riconosciuti in un ordinamento giuridico6
- nascendo essi dal bisogno di limitare il potere statale7-
e il diritto “un mero fatto storico”,8mentre
la sua militanza politica, da antifascista dell'ultima ora - quando
il fascismo stava ormai per essere sconfitto dalla guerra - si
aggrappò, contraddittoriamente, sulla base di una retorica
umanistica, a determinati valori morali, quelli dei vincitori, in
contrasto con il positivismo giuridico e con l'asserita storicità
dei valori morali, entro i quali egli considerò la vita e la
libertà, invece di derivarli – e non come valori morali –
dal diritto naturale, che egli confuse sempre con una teoria della
morale,9per
cui avrebbe dovuto ritenere la sua scelta politica dettata anch'essa
da un “pio desiderio” di libertà, giustificabile soltanto
soggettivamente per la preferenza soggettiva data ad una certa
“ideologia” invece che ad un'altra. Bobbio, per di più, fu
incapace di capire che sono proprio i valori morali l'espressione di
un relativismo storicistico, con cui poteva accordarsi lo stesso
positivismo giuridico, ma senza che egli fosse capace di rendersi
minimamente conto di ciò. Norberto Bobbio rimane come emblema
negativo di tutti i giuristi incapaci di rendersi conto della miseria
della loro concezione morale del diritto, muto, cieco e sordo di
fronte ad ogni questione che debba essere risolta soltanto al di là
delle diatribe culturali, cioè storiche, soltanto
sulla base del diritto naturale, che deve essere il fondamento extra
giuridico, metaculturale, di ogni sistema giuridico se non vuole
cadere nel baratro del relativismo, a cui non si può sfuggire
con l'appello ai valori morali, che sono sempre culturali.
Chi,
come Norberto Bobbio, ha creduto di fare del diritto una scienza
impoverendolo nel formalismo linguistico e nello storicismo raccoglie
oggi le miserie che ha coltivato per tutta la vita, non avendo mai
potuto giustificare in tal modo le sue scelte politiche e di vita,
che, se fosse stato coerente, avrebbe dovuto considerare del tutto
convenzionali. I suoi studi, alla luce delle odierne problematiche,
sono del tutto sterili e inservibili, anticaglie del diritto. E’ il
giusto risultato che si merita chi ha scritto: “Ma oggi chi mai
scriverebbe ancora un trattato di diritto naturale? La storia del
diritto naturale è la storia di una grande evasione. La storia
della giurisprudenza comincia quando questa evasione è
esaurita…Tutto quel rigore che i giuristi avevano impiegato per
costruire un diritto ideale, sarà meglio adoperato per
costruire il sistema del diritto vigente”10
Privo di competenze Bobbio11
ha frainteso il significato della geometria euclidea, che non è
una pura costruzione formale in alternativa ad altre geometrie (dello
spazio curvo), ma, come la considerò Einstein, una metrica
oggettiva,
valida entro i limiti della fisica newtoniana e della relatività
ristretta, intese come approssimazione alla fisica della relatività
generale (riferentesi alla geometria dello spazio curvo di Riemann).
Chi, pessimo maestro di coerenza, ha preteso di non essere un
“evasore” nel diritto avrebbe dovuto tacere invece di pretendere
di giudicare gli avversari politici, non avendone l’autorità
sulla base di un diritto storico e “scientifico”. Simili
individui non hanno alcunché da insegnare, se non in negativo.
Altra
espressione di penose contraddizioni fu lo storicismo confusionario
di Benedetto Croce (Etica
e politica, 1931), che
lottò sempre per il liberalismo pur non essendo mai riuscito a
giustificarlo sulla base della sua concezione del diritto inteso come
espressione della forza dello Stato, a cui seppe soltanto
contrapporre dialetticamente la spiritualità come “forza
vitale” della coscienza morale, che, proveniente dalle volontà
individuali della società civile, “disfa e rifà”
continuamente il diritto dello Stato, entrando in una tragica, ma
necessaria, relazione con il mondo della forza, sia con il pensiero
che con la rivolta armata. Con ciò giustificando, senza
avvedersene, tutto e il contrario di tutto, il liberalismo e la
dittatura, con la pretesa di identificare questa dialettica con la
storia della libertà, cioè dello Spirito, anche in quei
periodi storici in cui essa viene oppressa da sistemi dispotici.
Forse Croce si sarebbe ricreduto se il fascismo non gli avesse
permesso di scrivere liberamente anche contro di esso.
Giovanni
Gentile fu almeno coerente nella sua concezione dello Stato etico
che, nell’identificazione della volontà dello Stato con la
libertà individuale, negava il diritto naturale.
Maggiore
esponente del positivismo giuridico è Hans Kelsen (La
dottrina pura del diritto,
1934), che considerò il diritto come un sistema di norme
fondato su una norma fondamentale che costituisce l'unità del
sistema giuridico. Tale norma non può non avere, secondo lo
stesso Kelsen, un'origine extra giuridica, fondata però sulla
volontà del legislatore. Egli rinunciò, da puro
formalista del diritto, alla domanda riguardante la legittimità
del potere da cui deriva la norma fondamentale. Passerin D'Entrèves12
fece notare che Kelsen avrebbe fatto meglio a chiamare "principio
fondamentale" quella che egli chiama "norma
fondamentale" in quanto la sua costruzione giuspositivistica
si presenta sostanzialmente come fondata su un principio
giusnaturalistico. Kelsen non capì che, risalendo di norma in
norma, si arriva necessariamente a dover postulare un'autorità
superiore rispetto alla stessa Costituzione, cioè rispetto
alla volontà di un'assemblea costituente, a cui, invece Kelsen
volle fermarsi. Il risultato fu che il suo sistema giuridico venne
criticato sia dai liberali che dai socialisti e nazionalsocialisti
perché si prestava ad essere applicato a qualsiasi ordinamento
giuridico. E in effetti Kelsen non poté mai giustificare la
sua fede democratica considerando la democrazia sul piano puramente
procedurale, quale sistema fondato sul pluralismo e sulla dialettica
tra maggioranza e minoranza. Infatti la democrazia non può
fondarsi da sé, dovendo presupporre dei principi, quelli del
liberalismo, che sfuggono ad una fondazione democratica, non potendo
essere la volontà politica di una maggioranza il fondamento
dei principi fondamentali di una Costituzione liberale.
Dai
giuristi bisogna distinguere i giudici, puri manovali del diritto.
Tra i primi e i secondi vi è la stessa differenza che esiste
tra un fisico studioso di idraulica ed un idraulico.
Ma
i giuristi, abituati all'analisi del linguaggio giuridico sul piano
puramente formalistico, cioè all'analisi della coerenza delle
norme del sistema giuridico, quando superano questi limiti
introducono il riferimento ai valori morali trovandosi di fronte ad
un conflitto tra norme giuridiche, che non può essere risolto
con un'argomentazione che ponga capo ad una valutazione comparativa
dei valori morali, cioè entro un orizzonte puramente
socio-culturale, che comporterebbe un impossibile riferimento a
valori morali fondamentali da ricercarsi nella forma di un consenso a
livello dell'umanità intera, invece che in una via di uscita
dall'antropocentrismo dei valori morali, che è data unicamente
dal diritto naturale quale presupposto di ogni altro diritto.
Accade
così che la prassi giuridica alimenti in ogni caso una
concezione culturale del diritto, inteso come diritto positivo, anche
quando faccia riferimento a valori universali, che
contraddittoriamente troverebbero la loro giustificazione in una
certa cultura giuridica giacché non vi può essere
universalità al livello dei valori morali se non per la
pretesa di una cultura di essere superiore alle altre anche quando
questo non venga universalmente riconosciuto. Al contrario, il
diritto naturale non ha bisogno di tale riconoscimento essendo
metaculturale per il suo stare al di sopra e al di là di ogni
cultura.
1
Giusnaturalismo e
positivismo giuridico,
ed. Comunità 1965, p.35
2
Ibid., p.96. “In realtà
esprimiamo un giudizio di scelta fra due ideologie, il liberalismo
classico o puro e il liberalismo sociale”.
3
Ibid.,
p. 104.
4
Ibid.,
p. 47.
5
Ibid.,
pp. 49-50
6
Ibid.,
p.164.
7
Ibid.,
p.192.
8
Ibid.
p.135.
9
Ibid., pp.179 sgg.
10
Scienza del diritto e analisi
del linguaggio,
Rivista trimestrale 1950, pp. 342-67. Cfr. anche Giusnaturalismo
e positivismo giuridico,
Comunità 1965.
11
Art. cit., p. 363.
12
Alessandro Passerin D'Entrèves,
La dottrina del diritto naturale,
ed. Comunità 1954.
3 commenti:
Gentile professor Melis, anzitutto La ringrazio per il lungo post che ha voluto dedicare alle mie modeste osservazioni (e ringrazio anche l'amico Sergio ha deciso di fargliele conoscere).
Ho grande stima del suo pensiero, tanto è vero che mi è capitato più volte di pubblicare alcuni suoi post nel mio piccolo blog personale.
Tornando all'oggetto della nostra discussione, forse stiamo dicendo cose molto simili, solo con una impostazione leggermente diversa.
Per me, che faccio del darwinismo (e dei libri di Richard Dawkins) il punto di riferimento principale (unitamente, guarda un po' ai principi della termondinamica, in particolare il terzo, quello dell'entropia) è facile accettare il principio di sopravvivenza come base assoluta di ogni norma giuridica comune.
Resta però il fatto che i singoli diritti alla sopravvivenza confliggono inevitabilmente tra di loro e che le norme che possono essere elaborate per consentire la coesione sociale sono molte e diverse, e la storia umana ci ha mostrato, nel tempo e nello spazio, moltissime soluzioni diverse.
Mi sembra quindi (ma questa è una mia opinione personale), che passare dal primo livello del diritto naturale (quello della sopravvivenza dei singoli) al livello successivo (quello dell'interazione pacifica tra i membri della comunità) diventi una sfida molto impegnativa.
Con grandissima stima, La saluto molto cordialmente
(Massimo M., alias Lumen)
Caro Massimo
se non esiste il diritto naturale, proprio alla luce di Darwin, nella storia avrebbe ragione sempre il più forte e varrebbe la ragione della forza e non la forza della ragione. Lei mi dirà che in natura ha ragione sempe il più forte, come la forza del predatore sulla preda. Ma non è così. Il prevalere della forza del predatore sulla preda è il prevalere della forza della sopravvivenza in un rapporto INTERSPECIFICO. Gli uomini si sono fatti le guerre in un rapporto INTRASPECIFICO e non per ragioni di sopravvivenza. Grozio sulla base del diritto naturale giustificava solo le guerre difensive (De jure belli ac pacis). Se non esiste il diritto naturale non si hanno armi concettuali per condannare i crimini contro l'umanità, non si può condannare il nazismo e oggi non si possono condannare i pazzi dell'ISIS. Contro questi pazzi si giustifica anche una guerra totale che porti al loro sterminio.
P. S. Di Dawkins lessi "L'orologiaio cieco" e "Il gene egoista"
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