martedì 29 maggio 2012

GIUDICI SUBANIMALI CACCASOTTO ANCHE IN CASSAZIONE. SPORCA SENTENZA. SE FOSSE STATA PORCA SAREBBE STATA MIGLIORE

Scriverò meglio dopo aver letto la lurida sentenza politica di giudici caccasotto anche in Cassazione. Disonesti per non avere specificato che il mio attacco era solo contro gli ebrei CREDENTI (osservanti della macellazione kasher che è anche islamica, ed infatti attaccavo anche gli islamici). E' stato usato un foglio unito solo al saggio inviato a quel pazzo di rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni che in un suo scellerato libro "Guida alle regole alimentari ebraiche" ha riconosciuto la maggiore crudeltà della macellazione kasher ma ha aggiunto che essa in tal modo veniva "sacralizzata" e diventava "atto educativo"(sic!). Di fronte a tanta pazzia reagii con pesanti e provocatorie frasi solo per stanarlo (non essendo riuscito a stanare il suo predecessore Toaff con frasi non violente). Ma quel foglio, è stato sempre ribadito dalla mia difesa, non poteva far parte degli atti del giudizio in quanto potevano essere considerate solo le frasi contenute nel saggio, che dicevano esattamente il contrario: "Se non esiste il diritto naturale, che è diritto all'autoconservazione (di tutti gli animali, sottinteso), allora è anche giusto dichiararsi antisemiti nei riguardi degli ebrei credenti (osservanti della macellazione kasher) né ci si può dolere che essi siano finiti nelle camere a gas. Essi, non riconoscendo che vi deve essere un limite invalicabile che è il diritto naturale a non soffrire, quando la sofferenza può essere evitata, non possono pretendere che si abbia rispetto per la loro vita (memoria)se non hanno avuto alcun rispetto per la vita degli animali, sacrificati al rispetto della barbarie della loro tradizione religiosa. La religione ebraica è la radice velenosa dell'antropocentrismo occidentale, oltre che dell'islamismo". 
In sostanza, volevo dire che avevo il diritto di non commuovermi per le sofferenze di coloro che non hanno alcuna sensibilità per le sofferenze altrui (umane e non umane). Non stavo facendo l'elogio delle camee a gas. Era evidente. E' forse  un reato il non commuoversi? Se avessi usato il termine "ostili" invece del termine "antisemiti"non avrei avuto alcuna risonanza. Eppure era chiaro che limitandomi agli ebrei osservanti della macellazione kasher il termine "antisemiti" aveva un significato solo provocatorio nei confronti degli ebrei credenti (osservanti del kasher), perché il vero antisemita non distingue tra ebrei credenti e non credenti. D'altra parte semiti non sono solo gli ebrei ma anche gli arabi. E allora? Perché non mi hanno accusato di essere anche antiarabo?
Ma questi disonesti della Cassazione (anch'essi manovali e non studiosi del diritto) che hanno fatto? Hanno tolto la premessa "Se non esiste il diritto naturale" e hanno lasciato la conseguenza "è giusto dichiararsi antisemiti etc.". 
Sono rimasti anche insensibili ad un documento dell'associazione dei veterinari di Torino prodotto in giudizio. In esso si descrivono le terribili sofferenze dell'animale costretto a morire cosciente e lentamente per dissanguamento mentre si dibatte legato per terra  sino a quando si arrende alla morte per il venire a mancargli le forze. Pertanto in tale documento termina dicendo che "non sembra si possa negare che le macellazioni senza stordimento configurano una situazione di eccitazione, di dolore e sofferenza per gli animali e vi sono buone ragioni per rivedere le normative in tema di macellazione per evitare metodi cruenti e dolorosi per gli animali e che possono offendere la sensibilità di larga parte della popolazione italiana".  Gli stessi veterinari dei mattatoi, pur abituati ad assistere alle macellazioni normali (con previa ed improvvisa rimozione della coscienza tramite il colpo di pistola a proiettile captivo o retrattile, nel senso che rientra dentro la pistola)  hanno definito la macellazione kasher "un evento impressionante". 
E io ho trovato dei  cazzi di "giudici" in tre gradi del giudizio che, del tutto insensibili a questo "evento impressionante", si sono messi a difendere le farneticazioni di chi ammanta di "sacralita" la maggiore sofferenza di un animale. "Giudici" che poi in Cassazione hanno avuto lo spudorato coraggio di appellarsi ai "valori superiori della dignità umana".Ma dove sta la dignità umana? Anche nelle farneticazioni alla Di Segni?      
Non basta. Vi è un fatto ancora più grave. Che per la terza volta si sia usato un foglio accompagnatore del saggio inviato a quel pazzo di rabbino che crede (in base al tremendo Levitico, libro di macelleria dell'Antico Testamento) che il povero animale, se prima privato dei sensi, diventa impuro e la sua carne non mangiabile), mentre il foglio doveva essere tenuto fuori degli atti del giudizio in quanto l'accusa era di "istigazione all'odio razziale e religioso". Come poteva quel foglio essere usato come mezzo di istigazione se l'avevo inviato solo a quello stronzo di Di Segni? Forse istigavo questo stronzo all'odio razziale e religioso contro se stesso? Pazzesco. E invece quel foglio accompagnatore fu chiamato "volantino" come se io ne avessi fatto volantinaggio per fare propaganda. Ed hanno basato la sentenza principalmente su questo foglio, mentre non avrebbero dovuto nemmeno accennarne in quanto quel foglio non poteva rientrare nell'accusa di istigazione nella propaganda. Se il Di Segni l'ha reso pubblico, promuovendo perfino due interrogazioni contro di me alla Camera e al Senato, erano cazzi suoi e non miei. Da notare che disonestamente le sentenze (di tutti i gradi) hanno omesso sempre l'aggettivo "credenti" (osservanti della macellazione kasher) per lasciare solo il termine "ebrei" per farmi apparite antisemita (questo è il non plus ultra della disonestà), mentre sono stato sempre filoisraeliano, riconoscendo che gli arabi sono stati solo degli invasori nella Palestina e che solo gli ebrei avevano un titolo storico (fondato sul diritto naturale) per ritenersi palestinesi provenendo da una popolazione autoctona della Palestina, dove ebbe per più di un millennio uno Stato di cui fu espropriata con la forza sin dall'epoca romana. E perché non mi hanno accusato di essere anche antislamico (e questo è vero) per il fatto che gli islamici impiegano lo stesso crudele metodo di macellazione (che chiamano halal) derivandolo anch'essi dalle norme mosaiche (cioè di un individuo che per l'esegesi biblica, che ben conosco e su cui ho scritto centinaia di pagine, non è mai esistito)? Perché a questi farabutti degli islamici non gliene importa un cazzo. Basta non toccare quei pazzi del popolo eletto delle sinagoghe perché altrimenti si dà l'impressione di essere contro tutti gli ebrei. Infatti, ripeto, è stato sempre tolto l'aggettivo "credenti" (osservanti del kasher) al termine "ebrei" per dare ad intendere anche ai pennivendoli che io intendessi riferirmi a tutti gli ebrei. Maledetti disonesti.  
E poi si sono costituiti come parti civili due altri pazzi che non sono nemmeno ebrei ma dichiararono di essersi convertiti da pochi anni alla RELIGIONE ebraica. E allora che c'entrava nei loro confronti l'istigazione all'odio razziale se non sono nemmeno ebrei? Si sono almeno fatti circoncidere? E a che titolo si sono costituiti come parti civili, manovrati da quel pazzo di rabbino? Allora si sarebbero potuti costituire, in fila indiana, tutti gli ebrei (credenti e non credenti) del mondo per chiedermi i danni, mentre, al massimo, poteva costituirsi l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) in quanto le varie comunità locali (come quella di Roma a cui appartiene il Di Segni) hanno sopra di sé l'UCEI, che invece non si è costituita in giudizio. In Tribunale a uno dei due coniugi (uno più pazzo dell'altro) fu domandato da una stronza di giudice (Ornella Anedda): in che cosa consistono i danni che lei asserisce di avere sopportato? Risposta: "sa, ho paura di finire in una camera a gas". E ad una pazza simile (non ebrea) è stato riconosciuto persino un risarcimento danni. Questi due individui da manicomio, per rafforzare le accuse, hanno anche detto il falso aggiungendo che il mio saggio era compreso nel programma di esame. Non sono bastate due testimonianze a mio favore di due studenti per sconfessarli. Essi aggiunsero che mai mi avevano sentito parlare in aula in termini di antisemitismo e che, anzi, non avevo mai toccato questo argomento. D'altra parte che propaganda potevo fare con un saggio incluso, anzi sepolto, negli Annali della Facoltà di Scienze della formazione, che non sono in vendita e che gli studenti non conoscono nemmeno perché i volumi, con gli estratti, vengono consegnati solo ai docenti?  
Ma questa è giustizia da giudici miserabili più pazzi di coloro che mi hanno accusato. E ciò che ora ho scritto lo ripeterò in altri blog e in vari giornali. Perchè i disonesti sappiano. Io non mi lascio intimorire. Vogliono 40.000 euro. Che ridere!!! Mi possono pignorare solo i peli del culo, giacché da molti anni mi ero già reso legalmente nullatenente (ma per altri motivi, ancor prima che iniziasse questo pazzesco processo).  E i pennivendoli che hanno scritto che ora dovrò pagare 4000 euro di multa non sono nemmeno informati del fatto che la multa era già passata per legge sotto condono e che dunque non debbo pagarla. 
L'amara realtà è che questi manovali del diritto sono dei disonesti politicizzati che non volevano mettersi contro i potenti, anche se pazzi, delle sinagoghe, perché disonestamente identificano questi pazzi razzisti, che credono ancora di essere il popolo eletto,  con tutti gli ebrei, mentre si sa che, tra gli ebrei, quelli delle sinagoghe  sono una sparuta (anche se potente) minoranza, che crede in quel libro di merda che è l'Antico Testamento. Eppure ho sempre scritto che non sono e non sono mai stato antisemita e nello stesso saggio ho riempito un'intera pagina di filosofi ebrei (incominciando dal grande filosofo ateo Spinoza) tutti non credenti, che appartengono alla migliore intelligenza mondiale. Non era forse ebreo l'ateo materialista Marx, che ne La questione ebraica scrisse contro i fanatici ebrei credenti che coltivavano il loro isolamento rifiutando l'integrazione nella società a causa delle loro aberranti credenze "religiose"? E non fu forse l'ebreo Freud a dissacrare ogni religione? Non fu forse l'ebreo ateo Einstein (da me definito "ideale di una umanità metaculturale"), ad affermare che "il carattere antropomorfico dell'idea di Dio nelle religioni è dimostato dal fatto che gli uomini si rivolgono all'essere divino nelle loro preghiere e lo supplicano perché i loro desideri vengano esauditi?" (Idee e opinioni, ed. Schwarz). 
Chi hanno voluto difendere questa accozzaglia di giudici? Non di certo la migliore intelligenza mondiale, bensì i pazzi del popolo eletto che nelle sinagoghe (come se le conoscenze scientifiche, dalla cosmologia all'evoluzione biologica, non esistessero) usano ancora un calendario che parte dalla creazione del mondo che secondo i loro calcoli da mentecatti fatti sulla base del Genesi  dovrebbe risalire (quest'anno) a 5.572 anni fa. Hanno voluto difendere dei pazzi. Ma allora sono anch'essi dei pazzi se non sono dei disonesti politicizzati. Scelgano come preferiscono essere chiamati.  Secondo quanto risulta dal comunicato stampa trasmesso ai quotidiani  (perché non conosco ancora la sentenza) 
"i supremi giudici hanno respinto la dignità scientifica della tesi sostenuta da Melis in nome della causa animalista della quale, da vegetariano convinto, si è fatto fautore". Ma come si sono permessi questi ignoranti di giudicare la mia dignità scientifica se essi, manovali, e non studiosi, del diritto  (tra un giurista e un giudice vi è la stessa differenza che vi è tra un professore di idraulica e un idraulico) non potevano essere nemmeno in grado di capire il contenuto del mio saggio sul diritto naturale? Sono sicuro che hanno estrapolato una frase e non hanno letto tutto il saggio di 70 pagine, incapaci di comprendere, anche perché di lettura non facile. Essi possono permettersi per legge di non aprire più un libro di diritto da quando, magari fortunosamente, hanno superato un concorso di ingresso nella magistratura. Poi, ignorando la dottrina, si attaccano alla loro stessa giurisprudenza sputando sentenze contraddittorie anche in Cassazione, tanto è vero che ogni tanto debbono riunirsi nelle Sezioni Unite per por fine a lotte intestine che non esisterebbero se sapessero ragionare e non sostituissero la logica dell'argomentazione giuridica con le loro escrescenze personali che si ammantano di un linguaggio oscuro ed incomprensibile con cui nascondono la loro ignoranza. Fanno carriera (avanzando di stipendio) per sola anzianità, mentre io mi sono fatto un mazzo studiando tutta la vita, anche filosofia del diritto. Non sanno nemmeno porsi la domanda su che cosa siano fondati gli asseriti diritti umani. Infatti questi beceri individui hanno scritto che la libertà di pensiero non può essere invocata quando "travolge il rispetto dei valori più alti, pure costituzionalizzati, quale la dignità umana" (sic!). Ecco il solito discorso antropocentrico stantio sulla dignità umana, come se questa conseguisse solo dal fatto di appartenere anche soltanto biologicamente alla specie umana. Dunque anche i peggiori criminali della storia hanno una loro dignità umana?Ma che stronzate vanno scrivendo anche in Cassazione? La dignità bisogna meritarsela, non è iscritta nel DNA. Molta umanità sarebbe migliore se fosse al livello dell'animalità perché un animale (come il predatore) non uccide per crudeltà, come fa l'uomo per motivi culturali, ma per il suo diritto naturale (metaculturale) alla sopravvivenza. L'animale predatore, fortunatamente privo di religione ebraica ed islamica, non cerca di procurare una maggiore sofferenza alla preda. La macellazione rituale (ebraica e islamica) pone coloro che la praticano sotto il livello dell'animalità. Ma va' a farlo capire a questi beceri rappresentanti di una pseudo giustizia, ignoranti in fatto di fondamenti del diritto, che non sanno nemmeno rispondere quando si domandi loro su che cosa si fondino gli asseriti diritti umani. Tolgono sempre fuori la stronzata giuridica della dignità umana. Essi, difendendo i subanimali che praticano la macellazione ebraica e islamica, sono anch'essi dei subanimali. Ma non possono rendersene conto perché altrimenti non sarebbero dei subanimali. Sarebbero almeno degli animali. E nelle loro mani da subanimali sta la giustizia. Pertanto non mi aspettavo affatto un accoglimento del ricorso, non avendo mai avuto l'ottimismo dei miei avvocati, che non capisco su che cosa lo fondassero. Era tutto già scritto. Una sentenza politica.  Guai a chi tocca gli ebrei, anche se solo quei deficienti fanatici delle sinagoghe e della macellazione kasher perché altrimenti si  pensa che si stiano toccando tutti gli ebrei, che debbono continuare a vivere di rendita per la consumazione dei secoli. Ad essi tutto deve essere permesso in base alla rendita dell'olocausto. Altrimenti si diventa antisemiti. Come se nella storia non vi fossero stati altri olocausti e gli stessi antichi ebrei non appaiano nell'Antico Testamento maestri dei nazisti. Ma si sa che però le stragi da essi stessi attuate e raccontate, e di cui sempre si vantano, invece di vergognarsi, in quel vomitevole libro, sono stragi appartenenti ad una storia che essi ritengono sacra. Sì, perché voluta da quel dio di merda che essi chiamano Jahweh, abitante nell'antichità in un mattatoio che essi chiamavano tempio. Ma hanno sempre preteso che nei mattatoi con la macellaziome kasher fosse conservata la tradizione dell'antico tempio-mattatoio con le regole di macellazione dettate dal romanzesco Mosè, che nell'Antico Testamento appare come macellatore di uomini, donne, bambini e "bestiame" in onore di Jahweh.        
Questa sporca sentenza è un'ulteriore sconfitta dei diritti degli animali, almeno del diritto naturale a non soffrire maggiormente quando la maggiore sofferenza possa essere evitata.            
Quando vi sarà finalmente un'Alta Corte di giustizia (come negli Stati Uniti) per porre sotto processo (con una giuria popolare) i giudici che fanno sentenze palesemente aberranti perché dettate da ignoranza e/o incapacità di ragionare? Questa casta di individui ignoranti ed arroganti, padroni e non servitori della giustizia, si stanno chiudendo a riccio perché non vogliono l'attuazione di una normativa europea che introduce la responsabilità civile dei giudici quando facciano sentenze aberranti (dettate da "negligenza o vizi logici inescusabili"). Non vogliono alcuna responsabilità nemmeno quando facciano sentenze viziate da gravi errori di diritto. Vogliono continuare a sentirsi al di sopra della Costituzione, che dice che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge. Essi si ritengono più eguali sottraendosi ad ogni pur grave responsabilità. Possono anche far finire in galera un innocente senza mai pagare di persona. Non vogliono nemmeno la riforma della Commissione disciplinare staccata dal CSM (Corporazione di Stampo "Mafioso") per poter continuare a non essere giudicati. ORA BASTA.
Ricorrerò alla superiore Corte Europea dei diritti dell'uomo.     

Dopo aver inviato questo post al fanatico impostore Riccardo Di Segni (disegnicoen@libero.it) mi è pervenuta, forse in risposta, una email dal sito www.focusonisrael.org , in cui, come se non lo sapessi già, questi disonesti danno notizia della sentenza dei parrucconi politicizzati della Cassazione. E allora ho deciso di allungare questo post con quanto segue per inviare poi tutto il post al sito focusonisrael (focusonisrael@inbox.com). 

Non è che avessi la speranza di vincere in Cassazione. Ma al solito trovo sempre avvocati che fanno di testa loro senza darmi ascolto in tutto. Poi la causa la perde sempre il cliente.

Come nel calcio la migliore difesa è l'attacco. Avevo detto che era necessario attaccare Di Segni squalificandolo in tre modi:


1) Citare quanto ha scritto nel suo scellerato libro
Guida alle regole alimentari ebraiche (Lamed 2000) giustificando la macellazione kasher, pur nel  suo riconoscimento della maggiore sofferenza, con la necessità di "sacralizzarla" (testuale) perché essa diventi "un  atto educativo" (testuale). Queste cose le può scrivere solo un fanatico insano di mente. Queste righe potevano giustificare benissimo la mia reazione rabbiosa in quel foglio. Che comunque non poteva far parte degli atti del giudizio. Ma ad evitare che si continuasse a strumentalizzarlo disonestamente bisognava approntare una migliore difesa facendo riferimento ad un mio stato d'animo provocato dallo stesso Di Segni con le sue farneticazioni sulla maggiore riconosciuta sofferenza degli animali, giustificata persino come "atto edicativo" per la sua "sacralità". Bisognava avere il coraggio di dire che un individuo simile è un interessante soggetto per la psichiatria.
2) Sputtanare Di Segni citando il suo Vangelo del Ghetto che raccoglie racconti rabbinici (Toledot Yeshu) su Gesù, nato da un rapporto mercimonio della puttana (!) Maria con un centurione romano di nome Ben Panther. Questo libro, curato e commentato con entusiasmo da Di Segni (traduttore dei Toledot Yeshu in italiano) fu ritirato poi dal commercio per pressione della stessa comunità ebraica che si trovò in grave imbarazzo (pur accettando nascostamente la tradizione rabbinica dei Toledot Yeshu). Gesù vi è presentato come uno che aveva imparato le arti magiche in Egitto e faceva miracoli ispirato dal demonio. I rabbini lo impiccarono e il suo cadavere fu tolto dalla tomba di notte e buttato in una cloaca. Gli apostoli di Gesù, vedendo la tomba vuota, dissero che era risorto. Ma i rabbini ripescarono dalla cloaca il cadavere e lo mostrarono ai discepoli, i quali fuggirono per evitare di essere anch'essi impiccati e si dispersero per varie nazioni dicendo che Gesù era risorto. Tralascio altri particolari che cadono nell'oscenità. Sarebbe bastato fare fotocopia di queste pagine (tratte dal libro di Riccardo Calimani Gesù ebreo) e produrle in giudizio per far capire quale nascosto odio ebrei alla Di Segni coltivino tuttora contro i cristiani. E proprio questo individuo (da quale pulpito viene la predica) mi ha accusato di "istigazione all'odio religioso e razziale"). I Toledot Yeshu furono condannati dalla Chiesa ripetutamente (anche negli anni '50) come "dissacratori, blasfemi ed osceni".
3) Tuttora nelle sinagoghe si recita nascostamente la seguente "preghiera" tratta dal Talmud:
“Il giudeo che uccide un cristiano offre a Dio un sacrificio accetto” (V. Sepher Or Israel 177 – Ialkut Simoni 245 c.n. 772 – Bamidbar rabba 229 c).
“A chi uccide i cristiani è riserbato il più alto luogo in paradiso” (V. Zohar 1,38b – e39).
“Dopo la ruina del tempio non avvi altro sacrificio che l'esterminio dei cristiani” (Zohar II, 43° - Id. III 227b – Mkdasch Melech ad Zohar fol. 62).
“Niuna solennità deve impedire al giudeo di scannare un cristiano” (Pesachim 49b).
“Se il giudeo ha il dovere di danneggiare il cristiano nella roba e nella persona, a più ragione avrà quello di non aiutarlo ne' suoi bisogni” (Iore dea 158,1).
Si dirà che si sarebbe andati fuori tema. E io dico di no.Queste frasi sono di istigazione tremenda all'odio religioso. Ma viene tenuto nascosto da questa razza di impostori. Chi  accusa altri di un certo reato deve essere credibile e non colpevole dello stesso reato. Chi ha scritto le cose scritte da Di Segni e che accetta la tradizione del Talmud non può avere credibilità come accusatore. Era l'occasione d'oro per sputtanare pubblicamente questo individuo togliendogli l'aureola della credibilità e della sanità mentale.
E invece non è stato fatto per la solita  PAURA, anche di chi mi doveva difendere, di andare contro un ebreo impostore leggendogli la vita. Vi siete dimostrati anche voi timorosi della potenza ebraica calandovi le braghe costringendomi a difendermi soltanto da questo scellerato invece di attaccarlo per costringerlo a difendersi.   
E questo non lo posso perdonare.         
     Leggere infine il mio florilegio del Corano (del 20 ottobre 2009) in cui si documenta che si tratta di un libro scritto da un pazzo per i pazzi perché si incita alla violenza di ogni genere sino alla giustificazione dell'omicidio di massa per gli infedeli e a volere l'amputazione delle mani e dei piedi e la crocifissione per coloro che "corrompono la terra" (Sura II). E questa non è vera istigazione all'odio religioso? Ho detto che il Corano è un testo contrario al nostro ordinamento giuridico (a iniziare dall'art. 8 dela Costituzione). Io in Tribunale avevo chiesto che per le stesse (ma infondate) accuse rivolte a me fosse sequestrato il Corano, che viene predicato nelle moschee impunemente. Ma il P.M. Danilo Tronci, violando la legge, non mi ha nemmeno risposto, nonostante fosse obbligato a rispondermi in caso di richiesta di archiviazione per rispettare il diritto, riconosciuto dalla legge, di oppormi alla domanda di archiviazione della mia richiesta di sequestro del Corano. E' evidente che non mi aspettavo un sequestro perché dietro quel libro vi sono un miliardo e 200 milioni di pazzi che vi credono. Ma il P.M. era obbligato a rispondere. Evidentemente si trovò in difficoltà perché privo di argomenti. Questa è la giustizia attuata dai vili che se la prendono con uno che lotta per i diritti degli animali contro le farneticazioni pseudoreligiose di ebrei ed islamici (con la loro crudele macellazione kasher e halal) ma non hanno il coraggio di porsi contro i potenti, sia per numero (gli islamici) sia per altri motivi (nel caso degli ebrei) perché anche lo sputtanare i soli ebrei delle sinagoghe (alla Di Segni) significa per questi disonesti istigazione all'odio religioso e razziale (che cosa c'entri poi la razza non si capisce). Ma i vili parrucconi della Cassazione non potevano tener conto di tutto ciò.  

CHIARISCA LA BRAMBILLA SU QUANTO HO APPRESO SU DI LEI. NESSUNO E' PERFETTO.

Ho scritto alla Brambilla (nel sito della Camera dei deputati e nel sito LA COSCIENZA DEGLI ANIMALI (info@lacoscienzadeglianimali.it) da lei ideato riportando quanto mi ha scritto un mio corrispondente e che qui sotto riporto. AMICUS PLATO SED MAGIS AMICA VERITAS.
L'articolo è del 2007. Pertanto ho riportato quanto risulta da Wikipedia in merito al contenuto dell'articolo e quanto risulta per gli anni successi. 

Fonte: http://www.rinopruiti.it/dblog/articolo.asp?articolo=477 
 
La Repubblica -
 del 10.09.2007 
Dal Comune di Lecco 542 mila euro per 9 anni. I volontari: animali maltrattati dall'inviato Paolo Berizzi 
LECCO
 - Michela Vittoria Brambilla vive nella natia Calolziocorte in una 
villa che è una specie di zoo: 25 gatti, 14 cani, quattro cavalli, due 
asini, tre caprette, duecento piccioni. Un manifesto-spot della sua 
passione per gli animali. Soprattutto, i cani. Pochi lo sanno, ma oltre a
 essere imprenditrice "votata all´iniziativa di successo" (vedi 
curriculum vitae) - ramo importazione e vendita prodotti ittici, e 
alimenti per cani e gatti - la signora dei Circoli della Libertà 
gestisce anche il canile di Lecco. Da sette anni. 

Per questo 
incarico, nel 2002, Brambilla, con la sua Lega italiana per la difesa 
degli animali, ha ricevuto dal Comune l´affidamento diretto per nove 
anni. Il che vuol dire 540 mila euro. Il che vuol dire che i 307 cani 
ospitati in questo capannone in zona Pescarenico dovrebbero per lo
 meno passarsela discretamente. E invece pare che questo non sia. 


I volontari che ci lavorano hanno presentato una denuncia al Comune e 
all´Asl per raccontare lo stato di abbandono e incuria in cui versa il 
canile. Da un mese loro non possono più entrare. Lo ha deciso Michela 
Brambilla, interrompendo qualsiasi collaborazione. In effetti il posto 
non è proprio accogliente. 

Nella denuncia si parla di 
sovraffollamento (Fido vive in gabbie con simili non idonei), di morti a
 causa di sbranamento, di box fatiscenti, umidi e bagnati, e gravi 
problemi fognari. E ancora: "cibo di scarsa qualità", con conseguenti 
problemi intestinali, e presenza di topi. "Una realtà drammatica - dice 
Susanna Chiesa, una volontaria - . Non abbiamo ancora ricevuto nessuna 
risposta dal Comune, e la sospensione improvvisa della nostra attività 
non è ancora stata revocata".
 
Da Wikipedia 

La gestione del canile di Lecco

A fine 2002 la LNDC-Lecco rinuncia alla gestione del canile, e il Comune delibera con urgenza di affidare la gestione del canile, direttamente e senza gara d'appalto, alla LIDA della stessa Brambilla, per 9 anni rinnovabili ed un importo di 542.000 €, di molto superiore al limite di 200.000 € fissato per gli appalti di pubblici servizi. La LIDA, al momento di ottenere l'incarico, non è ancora iscritta al registro regionale delle onlus e non potrebbe pertanto ricevere finanziamenti pubblici.[36]
Nel 2007 i volontari del canile presentano denuncia ad ASL e Comune lamentando lo stato di abbandono ed incuria del canile, dopo che per un mese è stato loro vietato l'accesso. La Asl replica con una lettera in cui afferma la “conformità della struttura e soddisfacenti condizioni igienico-sanitarie” e il sindaco di Lecco Antonella Faggi si dichiara d'accordo.[37]
Nel 2008, la presidenza della LIDA passa al compagno di Michela Brambilla, Eros Maggioni. Nel maggio 2010, la Asl in una lettera al comune di Lecco indica che in base alla nuova normativa del 2008 il canile non possiede più i requisiti previsti; specificando tuttavia che i deficit sono della struttura, perciò non imputabili alla gestione della Leida.[37] Il nuovo sindaco, Virginio Brivio, dichiara che il Comune realizzerà una nuova struttura e la darà in gestione con regolare gara d'appalto.[37]
Riporto un comento lasciato  nel precedente post
 
Giorgio Alessandrini ha detto...
L'animalismo alla Brambilla onestamente lo lascerei da parte.
La Brambilla (che cavalca la tigre animalista per risalire la china della popolarità) dovrebbe spiegare perché i beagle si e i salmoni no. Può definirsi antispecismo questo?
Se questi sono i "testimonials" dell'antispecismo....stimo freschi!
Per la cronaca: La Brambilla è titolare della SAL SeaFood, un'azienda che importa enormi quantità di salmone norvegese che finisce nei supermercati di mezza Italia.
"...«La Sal Seafood è un mio vanto», dice la Brambilla. Oggi il Gruppo Sal, entrato in partnership con i produttori, è da quattro anni leader nazionale nel suo settore e nella vendita del salmone norvegese affumicato detiene una quota del 98% in Italia e del 34% in Europa.
La grande distribuzione. Nel 2001 Michela Brambilla dà vita sempre a Merate alla Sotra Coast International, un'altra società commerciale che importa e vende alla grande distribuzione prodotti ittici ma freschi..."
Tratto da qui:
http://www.ilgiornale.it/economia/michela_brambilla_manager_dacciaio_sempre_piu_ribelle/28-10-2006/articolo-id=129465-page=0-comments=1
 

lunedì 28 maggio 2012

BRAVA MICHELA, INSISTI CONTRO I SUBANIMALI DEL GOVERNO

La Brambilla scrive a Monti per difendere i cani e i gatti: "Non penalizzi i proprietari"

L'ex ministro del Turismo lancia un appello all'esecutivo: "Riconosca lo status di essere senzienti agli animali e porti in Europa una nuova cultura"

di -
"E’ un peccato che non sia qui con noi un rappresentante del ministero dell’Economia. Vedrebbe che i proprietari di cani non sono né evasori da stanare con il redditometro né ricconi da spremere con qualche nuovo balzello, ma persone normalissime, di tutte le età e le classi sociali".
L'ex ministro Michela Vittoria Brambilla
L'ex ministro Michela Vittoria Brambilla
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A dichiararlo è l'ex ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, a margine della manifestazione “Dog Show 2012”, gara di simpatia per cani meticci e di razza, organizzata a Lecco dalla LEIDAA (Lega italiana Difesa Animali e Ambiente, presieduta dalla stessa Brambilla).
Inoltre, la Brambilla ha rivolto un appello al premier Mario Monti affinché sostenga le famiglie che convivono con animali domestici e smetta di trattare “gli amici a quattro zampe” come se fossero beni di lusso, "una errata prospettiva culturale e metodologica che li inquadra come oggetti, al pari di una barca o di un auto di grossa cilindrata, e non quali esseri senzienti portatori di diritti, come stabilito dal Trattato sul funzionamento dell’Ue, in vigore dal 2009, e richiesto da Bruxelles a tutti gli stati membri".
“Ci rivolgiamo al governo perché resista alla tentazione di individuare nei proprietari di animali domestici una categoria da colpire come se tenere con sé un cane o un gatto fosse manifestazione di chissà quale capacità contributiva. E’ forse il caso di sottolineare che nelle famiglie italiane gli animali domestici ricoprono un ruolo di grande importanza", si legge nell'appello.
Che cita poi il rapporto Eurispes 2012, secondo cui "ben il 42 per cento degli italiani dichiara di avere in casa uno o più animali domestici, che valuta al pari di veri e propri componenti della famiglia. Se consideriamo poi il ruolo di sostegno psicologico che essi svolgono per gli anziani soli, per i bambini o per le persone malate (la pet-therapy è riconosciuta efficace non solo per i portatori di disabilita di vario genere ma anche solo per chi soffre di stress o di depressione) è facile intendere quale importanza possa avere per tante persone la compagnia di un animale domestico".
Poi la Brambilla ammonisce il governo: "Nelle sue scelte politiche, invece, il governo sembra ignorare tanto le dimensioni quanto la qualità del fenomeno della convivenza con gli animali domestici. Non soltanto non ha esentato gli alimenti per animali e i servizi veterinari dall’aumento dell’IVA, punendo chi ha compiuto la "buona azione" di adottare un cane o un gatto e trascurando le probabili ricadute negative sulla salute pubblica, ma include le spese veterinarie nel nuovo redditometro come se possedere cani o gatti o altri piccoli animali domestici fosse roba da Paperoni e dà (incautamente o deliberatamente) il suo assenso al grottesco tentativo di introdurre, col pretesto di combattere il randagismo, una “tariffa comunale” su cani e gatti che provocherebbe soltanto un aumento degli abbandoni e maggiori spese per la pubblica amministrazione".


giovedì 24 maggio 2012

TREMONTI: MINISTRO DEL MALAFFARE

HO LASCIATO IL SEGUENTE COMMENTO NEL SITO DEL MINISTRO DEL MALAFFARE (parafrasando Gaetano Salvemini che scrisse un libro su Giolitti intitolato Il ministro della malavita)
Giulio Tremonti

Lei ha la faccia tosta di saper predicare bene contro la globalizzazione (vedi trasmissione di Santoro a Rai2) ma è la causa maggiore dello sfacelo finanziario. Che cosa ha fatto come ministro dell'economia contro il potere delle banche, perché non ha mai parlato del signoraggio? Lei è l'inventore dell'Equitalia, cioè di un sistema di riscossione da rapinatori di Stato che manda cartelle di pagamento senza prima accertarsi che i tributi siano realmente dovuti e non vi siano stati errori. Arrivano raccomandate con sanzioni enormi oltre gli interessi anche senza avere preavvisato del ritardo. Inoltre nelle raccomandate non sono specificati i motivi del pagamento ed uno deve andare all'ufficio della rapinatrice di Stato Equitalia per sapere a che titolo siano dovuti.
Stato arrogante per il solo fatto di aggiungere le sanzioni oltre agli interessi. Un creditore privato che in sede di giudizio riesca ad avere la riscossione del credito tramite pignoramento può pretendere solo gli interessi per il ritardo perché per avere la stessa somma rivalutata deve dimostrare il maggior danno (che invece dovrebbe essere pacifico) dovuto alla svalutazione. E per dimostrarlo deve dimostrare, per esempio, che era in condizioni di investire il suo credito e che da tale investimento avrebbe tratto un guadagno. Per questo Stato di merda che lei ha sempre bene rappresentato invece non vale ciò che vale nei Tribunali. Aggiunge le sanzioni oltre gli interessi senza avere dimostrato il maggior danno e prima poneva ipoteche sulla casa senza nemmeno avvisare il proprietario (come invece richiesto dal Codice Civile). Poi la Corte di Cassazione, sostituendosi alla legge, stabilì che non si potevano porre ipoteche per un valore inferiore a 8000 euro. Ora si è passati per legge ad un valore che deve superare un asserito credito dell'Equitalia superiore a 20.000 euro. Ma ci poteva pensare lei prima come ministro dell'economia. Ministro di quel venditore di fumo che è stato il puttaniere maniaco sessuale Berlusconi. Sa che cosa le dico? Che individui come lei dovrebbero essere idealmente gambizzati perché paghino di persona (visto che non vanno in galera per i loro misfatti) come responsabili di tutti i suicidi causati da uno Stato ladrone di una democrazia di merda che non rinuncia ai privilegi dei politici che vanno in pensione con più di tremila euro al mese anche per essere stati in quel casino di parlamento per pochi giorni ed essersi dimessi poi avendo altri incarichi. E questo Stato pretende invece il pagamento dei tributi ancor prima di pagare esso ciò che deve all'imprenditore. Non solo. Ma quando paga con moneta svalutata a causa del ritardo di anni si permette di violare il Codice Civile non aggiungendo nemmeno gli interessi. Si ritiene al di sopra della legge. Ma non era stato dichiarato anticostituzionale il "solve et repete" (prima paghi e poi protesta)? Ora si è inventata la legge che prevede che anche in caso di ricorso alla commissione tributaria l'asserito debitore debba comunque anticipare almeno il 33%. Gambizzare individui come lei per vendicare tutti i poveretti che sono stati portati al suicidio da luridi individui come lei sarebbe troppo poco. 
Ciò che ho scritto sto per riportarlo nel mio blog. E ora Tremonti mi sbatta la faccia in culo. Individuo spocchioso, arrogante e ignorante anche in fatto di economia. Disgrazia dell'Italia con il suo amico Berlusconi. Che si sarebbe meritato più di un modellino del duomo di Milano lanciato in faccia. Io non ho paura. Il suo libro Uscita di sicurezza ha un titolo profetico. Infatti lei ci è uscito finalmente dai coglioni. Spero che la politica sia per lei solo un ricordo per tutti i disastri che ha combinato.  
  
Dopo aver scritto ciò alcuni avvocati mi hanno detto di cancellare le espressioni per cui potrei addirittura essere accusato di istigazione al delitto. Rifiuto. Sono espressioni metaforiche, iperboliche. Non incito alcuno alla violenza fisica. Vi sono armi migliori, come spiegherò appresso. Prima di tutto difendo la memoria degli onesti imprenditori vittime di uno Stato omicida che li ha portati al suicidio non pagando i loro crediti. Uno Stato forte con i deboli e debole con i forti, come ha dimostrato di esserlo patteggiando con la criminalità delle banche, a cui ha riconosciuto una riduzione dei loro grandi debiti. In secondo luogo mi fa schifo questo Stato che, colluso con la mafia e responsabile della morte di Falcone e Borsellino, anche Tremonti ha rappresentato.
Non ho forse il diritto di non commuovermi per la fine di Marco Biagi, uno che al servizio di un'economia predatrice che riduce l'uomo ad una merce, introdusse il concetto di flessibilità per mascherare un maggiore precariato nel lavoro ed una maggiore disoccupazione a beneficio di un maggiore profitto? Se l'avessi conosciuto personalmente gli avrei detto: per chi scrive e lavora lei? Per il maggiore profitto delle imprese o per i lavoratori che generano il profitto? Lei che crede di essere un economista (mentre io non lo sono) mi dica: può lei ritenere che un'impresa possa licenziare senza vincoli anche quando il licenziamento non si renda necessario a causa della situazione deficitaria dell'impresa (riduzione della richiesta di mercato, passività di bilancio, etc.) ma sia finalizzato solo ad un maggiore profitto? E' in questo modo che lei ritiene si debba migliorare il diritto del lavoro, disciplina di cui lei è professore universitario? E' con il licenziamento dei lavoratori anziani , messi alla fame perché costano troppo rispetto a giovani assunti nel precariato, che lei chiama da impostore flessibilità, che lei crede di avere migliorato il mondo del lavoro? E' questo che lei insegna agli studenti cercando di convincerli che, se un giorno saranno licenziati, ciò sarà giusto in base alla sua concezione del diritto del lavoro? Se lei è convinto di ciò allora lei è complice degli sfruttatori. Ha predicato e sfruttato il precariato da professore ordinario facendosi ricco con vari incarichi anche in campo internazionale. Non le fa tutto ciò schifo, non dico solo moralmente, ma anche giuridicamente? Ha mai sentito parlare di diritto naturale come diritto alla vita, che nel caso dell'uomo non può esistere senza dare priorità al diritto AL (e non del) lavoro? Questo avrebbero dovuto dirgli i suoi studenti, svergognandolo anche dentro l'Università per tutte le stronzate di cui ha riempito i suoi libri fecendosi portavoce degli interessi di un'economia mercificatrice dell'uomo. E invece non hanno reagito. Questo avrebbero dovuto dirgli in pubblico tutti coloro che avevano capito quanto non valesse questo individuo esponendolo al pubblico ludibrio. A che è servito ucciderlo? A nulla. Anzi, l'imbecille che l'ha ucciso lo ha trasformato in un martire ottenendo l'effetto contrario. Bisognava squalificarlo professionalmente togliendogli la boria e neutralizzarlo trasformandolo da falso esperto di economia in una ridicola ed ignorante macchietta nemica del mondo del lavoro. 
    
E a questo punto posso aggiungere anche la mia storia personale, allucinante. Avevo una quota del 66% in una società proprietaria di un cinema di 750 posti vendutomi nel 1997 illegittimamente da un liquidatore la cui nomina fu dichiarata illegittima ("abnorme") dal Tribunale, ma un mese dopo la (s)vendita per un miliardo e mezzo di lire. Ma ho incontrato due giudici pazzi (se non corrotti), Mario Farina e Vincenzo Aquaro, che sono riuscito a far finire di fronte alla Commissione disciplinare del CSM per le loro sentenze pazzesche con cui hanno riconosciuto, l'uno la validità della parcella di 153 milioni di lire a saldo del liquidatore (ridotta ad 1/3 con ordinanza, in attesa di sentenza, dalla Corte d'Appello, che ha riconosciuto che le voci della parcella erano tutte o gonfiate o inesistenti), l'altro la validità della vendita, e tutti e due sulla base di una asserita, quanto inessenziale, e comunque documentatamente inesistente, buonafede del liquidatore e del promissario acquirente, pur da me ampiamente diffidati - con argomenti giuridici e giurisprudenziali inclusi in una racc. A.R. di 4 pagine - dal vendere e dall'acquistare perché vi era un giudizio in corso teso a ottenere, come ottenni, la nullità della nomina del liquidatore. Il liquidatore e l'acquirente (come documentato in causa) anticiparono la data della vendita prevista nel preliminare per anticipare la dichiarazione di nullità della nomina del liquidatore per pormi di fronte al fatto compiuto. Avevo prodotto nel giudizio civile anche una sentenza penale passata in giudicato e a mio favore in cui si riconosce che fui vittima di una estorsione da parte di due soci di minoranza (due pseudofratelli) che volevano costringermi a vendere per sanare i loro debiti personali (e non societari, giacché la società era da sempre in attivo riscuotendo i canoni di affitto). Il liquidatore fu nominato  per sbaglio tremendo di un presidente del Tribunale, Marco Onnis (defunto in pensione nel 2009), che mi diede come consenziente mentre dagli atti del giudizio risultavo nettamente contrario e concludevo con la richiesta di rigetto della domanda avversaria perché giuridicamente infondata. Ma i giudici non pagano mai per i loro errori, neanche quando sono gravi. 
Dopo 15 anni attendo con sfiducia in Corte d'Appello la sentenza di annullamento della (s)vendita. Per ora l'acquirente, un impresario edile pieno di soldi, rifiutando qualsiasi accordo, è rimasto senza quattrini e senza locale (chiuso dal 1998) di cui possiedo io, se pur inutilmente, le chiavi in attesa della sentenza della Corte d'Appello.  Poiché con la dichiarata nullità della nomina del liquidatore fu cancellato lo stato di liquidazione, la società è rimasta titolare di un conto in banca quale residuo del ricavato della vendita, che dunque non può ritenersi un profitto ma capitale sociale (non tassabile). La società ha dovuto pagare nel 1998 più di 200 milioni di tasse perché per lo Stato figura una vendita e non la cancellazione dello stato di liquidazione. NON BASTA. A questo punto anche i soci avrebbero dovuto pagare le tasse. Nonostante io non abbia incassato nemmeno una lira (oggi  euro) dalla vendita perché il ricavato della illegittima vendita si è trasformato in capitale sociale, e dunque non ero tenuto a pagare tasse su un profitto inesistente, l'Equitalia, al momento dell'andata in pensione, fregandosene di tutto ciò, mi ha pignorato 1/5 della liquidazione dopo 42 anni di insegnamento all'Università. Oltre 1/5 per legge (Codice Civile) non poteva andare. NON BASTA. Per evitare che l'Equitalia mi pignorasse la casa a causa delle tasse che non dovevo pagare per i motivi esposti ho dovuto vendere la casa (nella sua nuda proprietà) tenendomi il diritto di abitazione a vita. E per evitare che falsi o ingiusti creditori (come anche l'Equitalia) mi pignorassero 1/5 della pensione ho dovuto chiedere un prestito con l'unica intenzione di non pagarlo per farmi pignorare dal creditore (d'accordo con lui) 1/5 della pensione precedendo l'Equitalia, a cui così l'ho messa in culo, come a tutti i miei falsi creditori. Risulto personalmente nullatenente. Mi sono imboscato legalmente i quattrini. Mi potrei permettere anche di non pagare più debiti. Poi si vedrà come andrà in Corte d'Appello con la lotteria della giustizia dai tempi geologici e ridotta ormai in Italia ad una cloaca. Chi ci finisce muore affogato nella merda perché anche quando ottenesse vittoria dopo tanto tempo dovrebbe dire come Pirro (dopo avere battuto i Romani): un'altra vittoria come questa e siamo rovinati.  
E pensare che tutta questa storia è conseguente ad uno scellerato presidente del Tribunale che mi diede falsamente come consenziente alla nomina del liquidatore, lanciandomi contro una palla di neve che altri"giudici", invece di rimediare a questo errore materiale, nemmeno giuridico, hanno trasformato in valanga, sotto cui ancora mi trovo.                      
Ho raccontato questa mia allucinante vicenda (facendo i nomi di tutti i giudici ed esponendo da competente il farsesco ordinamento giudiziario italiano per proporre anche una reale riforma del Codice di Procedura Civile) in un capitolo del mio libro anche autobiografico intitolato Io non volevo nascere. Un mondo senza certezze e senza giustizia. Filosofi odierni alla berlina.  
         


14 febbraio 2012"Polis" Critica Politica > Rubriche

Giulio Tremonti e l’illusione italiana del capitalismo anni ’90

Dopo il fallimento del Comunismo e la caduta del Muro di Berlino ecco il fallimento del Capitalismo. Quello che resta all'Italia è un'ottima Costituzione e la ragione di ognuno di noi, scevra da ideologie e partiti

Qualcuno deve aver letto a Santoro il mio intervento di qualche settimana fa, perché giovedì la trasmissione “Servizio Pubblico” è andata decisamente incontro alle critiche che avevo sollevato sul programma. A parte la battuta, l’ultima puntata è stata decisamente più interessante delle precedenti. Il tema, le regole della finanza e il rapporto con la politica, è decisamente d’attualità; le analisi e gli approfondimenti, pur nei limiti del dibattito televisivo, non erano privi di una certa pregnanza; in studio erano presenti giornalisti prestigiosi, come Mentana e Mieli, l’ottimo Gianni Dragoni, il solito Travaglio e diversi invitati che, pur da prospettive talvolta opposte, non per questo hanno lesinato spunti interessanti, come il leader dei no global Luca Casarini o il giovane ricercatore di Oxford Emanuele Ferragina.
Era presente, a dire il vero, anche un politico. Eppure Giulio Tremonti, per il ruolo di governo che ha ricoperto fino a ieri e le particolari tesi espresse, è uno di quei politici il cui parere si ascolta sempre con un certo interesse. Intendiamoci: io non sono affatto un fan di Tremonti. Nonostante i giudizi positivi che riscuote un po’ in tutti gli schieramenti politici, da destra a sinistra, io sono del parere che questo tributarista di Sondrio come economista sia decisamente sopravvalutato: lo trovo fastidiosamente supponente, penso che sia direttamente responsabile di diversi obbrobri legislativi (vedi scudo fiscale) e, soprattutto, che si compiaccia di esprimersi attraverso metafore oracolari e profetiche, senza però che dietro a queste si nasconda una particolare profondità di analisi.
Detto questo, si tratta comunque di un personaggio che, inspiegabilmente, emana un discreto fascino intellettuale: sarà per la bellissima imitazione di Corrado Guzzanti; sarà per la folle ebrezza che ci pervade al pensiero che questo simpatico mitomane autoproclamatosi erede di Quintino Sella sia stato per tre diversi mandati l’autorità più alta per l’economia italiana; o forse sarà per lo sguardo inespressivo, gli occhiali anni ’70 e l’irresistibile erre moscia. Come che sia, l’altra sera molte persone, compreso il sottoscritto, sono rimasti ad ascoltarlo mentre ripercorreva cattedratico la storia del mondo dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale fino ai giorni nostri.
Secondo Tremonti nei primi anni ’90, con la fine del comunismo, la caduta dell’Unione Sovietica alla spalle e la nuova organizzazione del commercio mondiale (il WTO), il mondo è cambiato fino a produrre una globalizzazione che ha generato ricchezza da alcune parti, ma anche povertà in molte altre, mentre la finanza usciva fuori da ogni controllo. Il punto di svolta, secondo Tremonti, è la caduta del muro di Berlino. E non ci vuole un ministro dell’economia per dirlo: basta uno studente di liceo. Non c’è dubbio che si tratti dell’evento più importante per la storia contemporanea; il momento che costituisce, anche simbolicamente, lo spartiacque tra un dopoguerra dominato da due potenze e due ideologie e un “dopo”, in cui ci troviamo tuttora, che ancora non abbiamo capito bene cosa debba essere.
Tremonti rileva ciò che è ovvio, ma ha comunque ragione a incentrare l’attenzione sui cambiamenti avvenuti tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Certo è che il mondo prima del 1989 poteva ancora essere declinato secondo due schemi alternativi: da una parte il capitalismo statunitense e i paesi NATO, basati sulla libera iniziativa economica; dall’altra il comunismo russo e i paesi del patto di Varsavia, la cui economia era organizzata e pianificata direttamente dallo Stato, cioè dai funzionari del partito comunista al potere, con lo scopo (teorico) di livellare le ineguaglianze sociali. Il fatto che il comunismo così concepito sia fallito da un giorno all’altro, ha finito per ingenerare la convinzione che il capitalismo fosse la risposta.
Ad esempio, scrive Paul Krugmann (nobel per l’economia nel 2008) che dal 1989-91 in avanti: «il nocciolo del socialismo non rappresenta più un’opposizione al capitalismo. Per la prima volta dopo il 1917 viviamo dunque in un mondo in cui i diritti alla proprietà e al libero mercato sono considerati principi fondamentali, non più cinici espedienti» (Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, Milano, Garzanti, 2009).
Ed in effetti in precedenza, persino nell’Italia alleata degli Stati Uniti, un minimo di richiamo al socialismo, o almeno a misure sociali, era d’obbligo, se non si voleva passare per egoisti che pensano solo all’arricchimento personale. Ma negli anni ’90 questi freni si sono definitivamente sciolti, e il modello dello yuppie anni ’80 dalla commedia di Jerry Calà e Christian De Sica è passato a paradigma della realtà. Ancora oggi è difficile riuscire a valutare l’impatto causato dalla fine del comunismo, cioè di un’opzione considerata seria e realistica per tutto il ’900; ma è chiaro che il cambiamento, soprattutto da un punto di vista culturale e psicologico, è stato enorme.
E’ abbastanza evidente, ad esempio, che la vittoria del capitalismo è stata un’ubriacatura che ha fatto passare in secondo piano i suoi eccessi. Tant’è che oggi, con la crisi del capitalismo globale, tantissimi economisti – persino lo stesso Tremonti – riscoprono Marx. Eppure quello che la crisi avrebbe dovuto insegnarci non è tanto che il comunismo non aveva tutti i torti, quanto piuttosto che si fanno danni a voler operare nella realtà con il paraocchi di un’ideologia considerata vincente. In Italia, in particolar modo, siamo maestri nell’andare dove tira il vento: cosa che non facciamo per cinismo, ma per un naturale istinto di sopravvivenza, forgiato in secoli di dominazioni straniere, da cui discende che l’opzione più igienica è sempre quella di salire sul carro dei vincitori. Fascisti sotto il fascismo, partigiani nel dopoguerra, democristiani nel boom economico, “tangentari” sotto Tangentopoli, “anti-tangentari” e “berlusconiani” sotto Berlusconi, “tecnici” sotto Monti: gli Italiani fiutano l’aria che tira e cambiano in modo repentino, con una capacità di adattamento straordinaria.
Questa ricostruzione, a dire il vero, sarebbe ingenerosa, se non tenesse conto delle vaste minoranze che resistono nelle loro posizioni e non si piegano all’andazzo generale: ma è proprio il generale, la maggioranza, che conta. E negli ultimi vent’anni la maggioranza si è illusa che un capitalismo sfrenato con il minor controllo possibile da parte dello Stato sarebbe stata la soluzione. Solo oggi ci accorgiamo che, insieme al resto del mondo, vivevamo in un sogno e che abbiamo buttato via il bambino (il principio di superiorità dell’autorità politica e delle sue regole) con l’acqua sporca (il comunismo). Eppure non sarebbe stato difficile capirlo.
Dal passato avevamo il precedente di un’ottima costituzione scritta insieme da radicali, democristiani, socialisti e comunisti: funziona da 65 anni proprio perché non ha un’ideologia di riferimento, ma è il risultato sincretico di uno spirito comune (l’antifascismo) e della conseguente necessità di porre principi validi per sé e non dal punto di vista astratto di una utopia politica. Sapevamo benissimo, poi, per una lunga tradizione di pensiero, che l’autorità statale e le buone regole hanno un’utilità sociale preliminare rispetto alla scelte di politica economica. Sono tutte cose che abbiamo acquisito con fatica nel corso delle storia e che, tramite l’esperienza e il buon senso, avevamo imparato a riconoscere come valide. Ma le abbiamo trascurate perché la dottrina imperante, i facili guadagni e l’illusione di una crescita senza fine hanno reso comodo non considerarle. Per questo oggi saremmo più preparati ad affrontare le sfide che abbiamo davanti se ci preparassimo a ponderare le nostre scelte non sulla base di persone, ideologie o partiti, ma ragionando e basta.

Andrea Giannini
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LA MAFIA NON SI COMBATTE CON CORTEI. RISPOSTA AD UN COMMENTO

Un certo Giovanni mi ha scritto. 
Il brano riportato sotto è un estratto di un suo PDF.

L’ecumenismo religioso alle radici della follia politica odierna
del multiculturalismo dell’immigrazione nella confusione tra
morale e diritto con la politica dell’accoglienza
Oggi si vuole imporre - e con l’ingerenza della Chiesa in questioni puramente
politiche, e non morali - la solidarietà economica del nord d’Italia con le regioni
del sud, anche quando queste, che hanno paura che con il federalismo diminuiscano i trasferimenti di danaro dal nord, si meritano solo l’autogoverno della mafia, per cui nessun imprenditore del nord è disposto ad investire nel sud.
Platone considerava che “il frequente mescolarsi dei cittadini di Stati diversi conduce ad un ibridismo nei costumi” che “porta danno enorme agli stati ben organizzati e fondati su buone leggi” (Leggi, XII, 949e). Precedentemente, infatti, capendo il pericolo che poteva derivare dal conflitto sociale che tradizioni culturali e giuridiche diverse potevano generare, aveva scritto sugli immigrati (850c):
“Passati vent’anni” – troppi – “prendano la loro roba e se ne vadano”.

….......

Io non so se tale PDF è un saggio a sé o un capitolo del suo libro:
“Scontro tra culture e metacultura scientifica: l'Occidente e il diritto naturale. Nelle sue radici greco-romano-cristiane. Non giudaiche e antislamiche”,
fatto sta che lei apre il discorso sull'immigrazione islamica facendo riferimento ai trasferimenti di denaro dal Nord al Sud d'Italia. Quindi, prof. Melis, non può venirmi a dire che non c'è contrasto tra il titolo del saggio e il suo contenuto. Io trovo fuori luogo che in un discorso sull'immigrazione dai paesi arabi e africani lei accenni ad una questione che esula completamente dalla tematica che il saggio prende in esame.
Ma non è questo che io volevo mettere in rilievo, quanto piuttosto il fatto che i suoi riferimenti al Sud denunciano tutti un robusto disprezzo per la sua gente (del Sud!), colpevole evidentemente ai suoi occhi di convivere con la mafia! Ma ciò non è forse confondere un disagio sociale con un grave problema di emergenza delinquenziale?
Come si può colpevolizzare un'intera popolazione sol perchè assassini senza scrupolo si trovano a calpestare il suo stesso suolo?
Finiamola di addossare la colpa dell'arretratezza economica del Sud in modo indiscriminato a tutta la sua gente. E dire che anche la sua Sardegna ne fa parte!
I guai del Sud hanno radici antiche, e affondano tutte in quel tragico evento che è stato l'unità d'Italia, vero atto proditorio dei Savoia nei confronti del Regno delle Due Sicilie. La Mafia e la Camorra sono un loro regalo! Sa meglio di me che in Sicilia fino al 1860 c'erano i cosiddetti campieri, che per quanto violenti, si limitavano a fare gli uomini di forza dei baroni. Come non ricordarle poi che a Napoli quel traditore di Liborio Romano nominò capo della Polizia Urbana un camorrista come Salvatore De Crescenzo?
Professore, ma come ha potuto una persona intelligente e preparata come lei, farsi avviluppare dalla becera retorica populista di quegli infami dei leghisti?


 
E così ho risposto. 

Ho riletto il testo e trovo che i due argomenti apparentemente slegati sono uniti insieme dalla critica al concetto MORALE  di solidarietà di cui fa abuso la politica, mentre la solidarietà potrebbe appartenere solo alla carità cristiana. Da qui la confusione tra morale e diritto. Ciò chiarito io rimprovero il Sud di essere in quasi tutte le regioni "governate" dalla delinquenza organizzata che si è espansa verso il nord. Questo è un fatto. Sulle cause storiche vi è tutto da discutere. Io non accetto che le popolazioni del Sud possano ritenersi immuni da colpe. Sono vittime? Può darsi. Ma è possibile che da più di un secolo e mezzo non si ribellino?  A che serve fare manifestazioni e cortei se i commercianti debbono pagare sempre il pizzo e gli industriali onesti debbono sottostare all'industria del crimine? Lei ha qualche soluzione? Il solito discorso sull'educazione nelle scuole, della società cosiddetta civile e bla, bla, bla? Ma lei ci crede? Io no. I giovani possono anche essere in buonafede quando nelle scuole e in piazza manifestano contro la mafia con le immagini di Falcone e Borsellino. Ma quando dovranno entrare nel mercato del lavoro si dovranno arrendere facendo i conti con la realtà, accorgendosi che il lavoro passa attraverso la mafia. Io so soltanto che il resto dell'Italia starebbe economicamente meglio senza il Sud. Quanto alla Sardegna, per carità! Se vi è uno che considera i sardi un popolo di parassiti che nella loro storia hanno dimostrato solo di saper mungere le pecore sono io. Sette milioni di pecore per un milione e 600 mila abitanti.   La storia della Sardegna del sardo Giuseppe Manno (ministro del regno sardo piemontese) ha dipinto i sardi nella loro realtà storica, fatta di lotte intestine, di sardi che al soldo degli aragonesi combattevano contro altri sardi (del Giudicato d'Arborea) con 5000 morti nella battaglia di Sanluri (1409) che vide la fine dell'indipendenza dell'ultimo Giudicato. Però la mafia non ha attecchito in Sardegna sia perché è un'isola distante dalle regioni mafiose sia perché l'individualismo sardo, con invidie distruttive tra sardi e sardi, non consente un tessuto connettivo favorevole ad infiltrazioni mafiose. 
Il Sud rimprovera l'annessione sabauda? E perché poi non si è ribellato? Perché ancor oggi non esiste un movimento indipendentista visto che la colpa  non è della gente del Sud? Io so che l'Assemblea siciliana ha dei poteri che rasentano l'indipendenza, ma non economica, con consiglieri regionali che hanno stipendi superiori a quelli dei parlamentari. E i soldi da dove arrivano? Dal governo centrale, cioè per la maggior parte dal nord. E' inutile presentarsi come vittime di altri . Il latifondo esisteva già nel Regno delle Sicilie, con grandi proprietari terrieri e con contadini sfruttati. Terreno fertile per far sorgere il potentato dei futuri mafiosi. E ad ogni modo, lasciamo perdere il discorso sulle colpe che non finirebbe mai. Vari studiosi, come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, si sono occupati della questione meridionale. Risultato? Niente. Perché? Vi è la delinquenza mafiosa. Come liberarcene? Lo dica lei. Io un mio pensiero l'ho espresso. Ma mi prendono per matto se dico che bisognerebbe sospendere la democrazia nelle regioni mafiose. Oppure il Sud si distacchi dal resto d'Italia e faccia da sé. Sarebbe la cosa migliore. Ma basta con le manifestazioni di piazza contro la mafia, che se la ride. Basta con i discorsi inutili alla Saviano. Non ne posso più.

mercoledì 23 maggio 2012

LA FOLLIA DELLA FECONDAZIONE ETEROLOGA. GIUDICI COMPLICI DELLA FOLLIA


LA SENTENZA SULLA LEGGE 40 E LA PROCREAZIONE ETEROLOGA

Eterologa, in Italia resta la proibizione
Ma la Consulta: «Si può ricorrere»

Eterologa, Consulta ai tribunali: ogni governo può vietare la fecondazione

La Corte costituzionale rinvia gli atti ai tribunali e rimanda alla sentenza di Strasburgo: «Governi liberi di decidere»

SALUTE In Italia resta il divieto. Il legale delle coppie che avevano fatto ricorso: «Consulta ha preso tempo, decisione non negativa»
L'ultima parola arriverà tra
un anno e forse più De Bac
NON CAPIRO' MAI PERCHE' LA GENTACCIA SI ACCANISCA NEL VOLERE FIGLI ANCHE CONTRO NATURA. SOLO PER GLI ANIMALI NON UMANI LA VITA HA UN SENSO PERCHE' NON SI PONGONO LA DOMANDA "CHE SENSO HA LA VITA?". SI TRATTA DI GENTE INCOSCIENTE ED EGOISTA CHE FAREBBE MEGLIO AD OCCUPARSI DI CHI GIA' DISGRAZIATAMENTE ESISTE INVECE DI CHI NON ESISTE E NON HA CHIESTO DI NASCERE PER ESSERE COSTRETTO A FARE L'ESPERIENZA DELLA MORTE. MALEDETTI QUEI DUE CHE MI HANNO FATTO NASCERE. STO MOLTO MEGLIO SENZA FIGLI E RELATIVE COMPLICAZIONI (ANCHE ECONOMICHE) DELLA VITA. 
SEGUE IL MIO COMMENTO TRATTO DAL MIO LIBRO DEL 2006 (SCONTRO TRA CULTURE E METACULTURA SCIENTIFICA).
"La fine dell'umanità non sarebbe una tragedia, ma la fine di una tragedia" (Peter Wessel Zapffe, Sul tragico).

Non è giustificabile l’inseminazione artificiale eterologa perché il nascituro, non potendo avere conoscenza del padre o della madre naturale, verrebbe danneggiato perché privato del suo diritto naturale di conoscere il patrimonio genetico di ambedue i genitori in relazione alla necessità di una anamnesi medica che faccia riferimento ad esso. Si aggiunga il danno psicologico, in alternativa alla menzogna perpetua avallata dalla legge, derivante dalla scoperta da parte del figlio, di non poter conoscere il suo vero padre o la sua vera madre, con le conseguenti possibili turbe psicologiche che durerebbero per tutta la vita. E ciò in conseguenza dell’egoismo di chi vuole un figlio ad ogni costo, accampando un falso diritto alla paternità o alla maternità.
Per questo motivo deve essere vietato alla madre di abbandonare in ospedale sotto la garanzia dell’anonimato il neonato, dovendosi sempre garantire al figlio la possibilità di conoscere la sua vera madre se egli lo richiedesse o fosse necessario sul piano di un anamnesi medica. Per lo stesso motivo la madre deve essere costretta dalla legge ad indicare il padre del neonato da sottoporre alla prova del DNA, anche se ciò non comporterebbe da parte del padre e della madre naturali l’onere di provvedere materialmente al neonato abbandonato, da affidare successivamente ad altra coppia, potendo nell’adozione avere anche una vita migliore.
Se si considerassero tutti questi aspetti non si farebbe tanto baccano sul diritto alla vita degli embrioni, che non chiedono certamente di nascere, come se la vita fosse un bene ancor prima di nascere (o di essere concepiti), e non lo fosse invece soltanto in relazione al fatto che, una volta nati, come dice Hobbes, la morte appare “il massimo dei mali naturali”. Si considera solo il passaggio dal nulla all’essere (cioè alla nascita o al concepimento), per trarre da ciò un bene (la vita) come guadagno, senza considerare il successivo passaggio dall’essere al nulla, con la perdita dell’asserito bene della vita. La somma totale è pari a zero. Anzi, considerando in più l’esperienza negativa della morte, che non nascendo si eviterebbe, la somma è qualitativamente negativa. Ma, una volta nato, ognuno si affanna, già dal momento del piacere della suzione del latte materno, a ricercare dei beni per la tendenza naturale di ogni organismo a conseguire il proprio benessere, come “ciò a cui ogni cosa tende” (Aristotele, Etica nicomachea, I, 1) e a “fuggire quel che per lui è male, specialmente poi il massimo dei mali naturali, cioè la morte” (Hobbes, De cive, I, 7). La vita è la condizione esistenziale che porta a conseguire dei beni. Essa, pertanto, non è di per sé un bene. Appare tale soltanto di riflesso, perché, una volta nati, la morte è certamente un male, perché perdita di tutto. Ma queste considerazioni, pur ovvie, non possono entrare nella testa dei cosiddetti esperti del Comitato nazionale di bioetica di nomina ministeriale. A maggior ragion non possono entrare nella testa della gente comune, plagiata dalla retorica dei mass media fondata sui luoghi comuni dei non sensi linguistici, che impongono di pensare che la vita sia di per sé un bene, e che dunque essa possa essere donata.1 Oltre tutto, se fosse di per sé un bene, non esisterebbero i suicidi. Chi si suicida non riesce più a conseguire dei beni dalla vita. Per lui si forma un corto circuito causato dall’impossibilità di conseguire ulteriormente dei beni, a causa del prevalere di un danno, che può essere anche la consapevolezza della mancanza di senso della vita. Le religioni pongono riparo alla disperazione che può nascere dal prevalere del sentimento oscuro della mancanza di senso della vita sulla naturale tendenza dell’organismo a conservarsi in vita. Infatti gli animali non umani non si suicidano.
Abbiamo con ritardo trovato riscontro a queste nostre indipendenti considerazioni in uno scritto di notevole e perdurante successo dove l’autrice (Oriana Fallaci) aveva raccontato la sua esperienza di madre mancata a causa della morte del feto al terzo mese. Ella all’inizio aveva cercato di giustificare la convenienza di nascere col pensare che “nulla è peggiore del nulla” e che “nascere merita sempre” perché “l’alternativa è il vuoto e il silenzio…Il brutto è dover dire di non esserci stato”.2 Non si capisce se l’autrice fosse conscia della mancanza di senso, anche linguistico, di queste giustificazioni, anche se sembra che nemmeno ella fosse convinta di esse e che se ne servisse come di un alibi per non abortire. Infatti nulla non può essere peggiore del nulla, non potendoci essere alcun confronto nel nulla, e nessuno, tornato al nulla, può dire che “il brutto è dover dire di non esserci stato”. Nulla si può dire nel nulla, e dunque non vi può essere alcun rammarico nel nulla. Ma infine è al feto morto di tre mesi che viene dato il compito di dire alla madre mancata la verità che la madre non aveva il coraggio di dire: “Non appena compresi che tu non credevi alla vita, io mi permisi la prima ed ultima scelta: rifiutare di nascere…Si nasceva perché altri erano nati e perché altri nascessero…Se non accadesse così, mi dicesti, la specie si estinguerebbe. Anzi non esisterebbe. Ma perché dovrebbe esistere, perché deve esistere? Lo scopo qual è? Te lo dico io: un’attesa della morte, del niente. Nell’universo che tu chiamavi uovo lo scopo esisteva: era nascere. Ma nel tuo mondo lo scopo è soltanto morire: la vita è una condanna a morte. Io non vedo perché avrei dovuto uscire dal nulla per tornare al nulla”. E il mancato padre scrive alla mancata madre: “Sai meglio di me che nessuno è indispensabile, che il mondo se la sarebbe cavata ugualmente se Omero e Icaro e Leonardo da Vinci e Gesù Cristo non fossero nati…Ti scrivo per congratularmi, per riconoscere che hai vinto…Se riuscita a non cedere al bisogno degli altri, incluso il bisogno di Dio…Dio è un punto esclamativo con cui si incollano tutti i cocci rotti: se uno ci crede vuol dire che è stanco, che non ce la fa più a cavarsela da sé. Tu non sei stanca perché sei l’apoteosi del dubbio…E solo chi si strazia nelle domande per trovare risposte, va avanti; solo chi non cede alla comodità di credere in Dio per aggrapparsi ad una zattera e riposarsi può incominciare di nuovo: per contraddirsi di nuovo, smentirsi di nuovo, regalarsi di nuovo al dolore”. Poi torna l’illusione della vita: “Ho il compito di battermi contro le comodità dei punti esclamativi, ho da indurre la gente a porsi più perché”. Ma si termina con una banalità: “a (che) cosa serve volare come un gabbiano dentro l’azzurro se non si generano altri gabbiani che ne genereranno altri ancora ed ancora per volare dentro l’azzurro?”.
In realtà solo gli uomini-gabbiani meritano di nascere. Se anche quasi tutti gli umani viventi dichiarassero, da ebeti, di essere contenti di essere nati, cioè di dover morire, non si potrebbe sacrificare il pensiero di una minoranza che avrebbe preferito il contrario, cioè non nascere. In dubio pro nihilo.
Se si tenessero presenti queste considerazioni, da parte di credenti e non credenti, si finirebbe di blaterare sul rispetto della vita degli embrioni, perché chi li difende dovrebbe prima poter domandare ad essi se preferiscano nascere, cioè di fare l’esperienza della morte.
Forse per porre rimedio all’assurdità di una vita vissuta nella continua anticipazione della morte a cui l’uomo, al contrario degli altri animali, è costretto, Platone – e con lui tutta la tradizione neoplatonica - riprese da Pitagora la teoria della reincarnazione e della metempsicosi nel Fedro (247 sgg.), nella Repubblica (libro X) e nel Timeo (90e sgg.).In questo modo i genitori, incolpevoli, diventavano soltanto la causa contingente di una rinascita già segnata nel destino di ognuno nel ciclo eterno delle reincarnazioni dell’anima increata.

Gli uomini nascono sempre o per sbaglio o per egoismo dei genitori. E’ lo sbaglio che differenzia gli uomini dagli altri animali.

Vale inconsciamente anche la tendenza a sopravvivere nella discendenza oltre al cercare di pensare meno a se stessi e alla morte creandosi delle responsabilità per fornirsi di scopi illusori nella vita, in un circolo vizioso. Ma si può dire, con Pascal, che “ciascuno morirà solo” (Pensieri). In terzo luogo, se fosse vero che nell’embrione vi è già l’anima immortale, poca cosa sarebbe una vita pur lunga e beata di fronte alla certezza dell’anima dell’embrione di avere una vita immortale di beatitudine, non essendo sottoposta al rischio di una vita eterna di dannazione diventando individuo adulto. La Chiesa, condannando l’aborto, preferisce che ognuno, nascendo, corra questo rischio, che l’embrione, privo di colpe, non può correre, mentre dovrebbe riconoscere che, dal suo stesso punto di vista, l’aborto sarebbe una fabbrica di anime beate. Lo stesso papa Giovanni Paolo II ha scritto in un documento (Evangelium vitae) rivolto alle donne che hanno abortito che i loro mancati figli sono stati ricevuti “nella gloria di Dio”. E allora? Perché Dio dovrebbe punire le madri che hanno abortito? Ma, a parte questi paradossi, che sono conseguenti ad una concezione morale contraddittoria, vi è da domandarsi se valga maggiormente la salvezza di un individuo già formato, soggetto cosciente del diritto alla vita, garantibile, perché malato, dall’impiego di tessuti od organi ottenuti dalla coltura di embrioni, piuttosto che quella di un embrione che non può nemmeno desiderare di nascere e non può tendere a conseguire un benessere fisico che non conosce, essendo mancante di quegli organi e di quelle facoltà naturali che ne sono la premessa. Si vede come la morale riesca persino, contro il diritto naturale, a farsi sostenitrice di un diritto alla morte, e non alla vita, del soggetto malato a favore di chi non esiste nemmeno come individuo.
1 Forse, proprio a causa della mancanza di senso dell’espressione “donare la vita”, Platone, per ovviare a ciò, recepì dalla tradizione pitagorica ed orfica la dottrina della metempsicosi, che presuppone, non soltanto che l’anima sia coeterna con il mondo e che essa sia soggetta a cicli di reincarnazione, ma che essa possa trasmigrare, per punizione, in forme di vita inferiori, entro uno stesso ciclo del mondo, per cui i genitori sono soltanto lo strumento involontario di un destino già segnato per l’anima. Sia Platone che Aristotele ripresero da Eraclito il concetto di grande anno (10. 800 anni), che rappresenta quel ciclo del mondo dopo il quale le cose e gli eventi si ripresentano e si ripetono come nel ciclo precedente, dovendo rinascere gli stessi individui. Tale pensiero fu conservato nel neoplatonismo di Plotino (III secolo .d. C) e della sua scuola, sino a Proclo (V secolo) .
2 Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, Rizzoli 2005 (1975), pp. 49, 89, 91, 94, 96, 99.

domenica 20 maggio 2012

PER LA PENA DI MORTE. RISPOSTA ALLA CRITICA DI TUTTI GLI IGNORANTI CORROTTI DALLA MORALE DEL BUONISMO E DALL'ODIERNA CONFUSIONE TRA MORALE E DIRITTO

Ho esposto questi argomenti anche nel mio sito www.ordineliberale.org (Per la pena di morte).Argomenti tratti da due miei libri (Scontro tra culture e metacultura scientifica: l'Occidente e il diritto naturale (800 pagine) (2006) e Io non volevo nascere. Un mondo senza certezze e senza giustizia. Filosofi odierni alla berlina (457 pagine) (2010).  Ho tolto le pagine riguardanti Beccaria perché già riportate nel post precedente.
I commenti confermano tre cose: 1) Ci si rifugia come al solito dietro il possibile errore giudiziario (non tenendo conto che oggi le indagini scientifiche hanno quasi annullato l'errore riguardanti le tracce lasciate dall'assassino e che il giudice che non applichi il famoso detto IN DUBIO PRO REO mandando in galera un innocente deve finire anch'egli in galera perché stia bene attento a non condannare in caso di qualche pur leggero dubbio; 2) Si considera lo Stato che applichi la pena di morte allo stesso livello dell'assassino non tenendo conto del morto innocente che chiede anche da morto giustizia. E in base all'equiparazione della pena al delitto non può esservi carcere che possa sostituire la pena di morte. Lo disse esplicitamente il grande filosofo Kant; 3) L'argomento secondo cui la pena di morte non sarebbe un deterrente è stato smentito pienamente da un'indagine americana che riporto nel testo.
Si tenga ben presente l'argomento (anche se posto nella nota 17 ) del giurista Gaetano Filangieri che sviluppa un argomento del filosofo John Locke (riconosciuto come padre del liberalismo moderno) a favore della pena di morte. Ho ingrandito il testo della nota 17 aggiungendo il grassetto.
Uno ha scritto che la mia richiesta della pena di morte è follia. Mi ha fatto un elogio perché vi fu uno (Erasmo da Rotterdam) che scrisse il famoso Elogio della follia. Con la mia follia mi vanto di stare in compagnia di tutti i maggiori pensatori (dall'antichità al '900) che cito e che giustificarono la pena di morte. Oggi purtroppo l'Occidente vive in un clima di decadenza giuridica e morale, in una tremenda confusione nascente dalla confusione antropocentrica tra morale e diritto. La Costituzione, volendo nell'art. 27 far valere il principio della rieducazione del condannato anche quando si tratti di un assassino appartenente alla criminalità mafiosa, non soltanto è utopistica, ma vergognosamente ipocrita perché si sa che il carcere non rieduca, e tale articolo viola il principio secondo cui la pena deve avere un carattere afflittivo e non rieducativo. E ci si ricordi che il tanto lodato (da chi non l'ha mai letto) Beccaria intendeva l'ergastolo in senso afflittivo (tra ceppi e catene e in una schiavitù perpetua perché il disperato non cessi dalle sue afflizioni), a tal punto che l'ergastolano avrebbe preferito la pena di morte per por fine alle afflizioni. Ci si ricordi anche che la mafia continua a comandare anche dal carcere. Anche se non lo si vuole ammettere per non ammettere l'impotenza dello Stato di fronte a questa schifosa genia che dovrebbe essere estirpata dalla faccia della terra. Fosse almeno condannata ai lavori duri e forzati per risarcire la società o usata come cavie nei laboratori. Soltanto così si renderebbe utile da viva, invece di dover mantenere in carcere con le tasse questi subanimali. La mafia continuerà a esistere sempre in questo regime pseudodemocratico che elegge in parlamento i mandanti della mafia.       

Ecco il testo (dal libro del 2006)

Sul diritto naturale si fonda la giustificazione della pena di morte. La condanna della pena di morte discende dalla solita confusione tra morale e diritto, che porta lo Stato a sostituirsi alla vittima innocente che non avrebbe voluto moralmente perdonare, con la conseguenza contraddittoria che l’assassino avrebbe un diritto naturale alla vita maggiore rispetto a quello della vittima. Coloro che, “allignando nella palude dell’emotivo”,1 gonfi di sentimento, ma privi di ragione, attribuiscono ipocritamente alla pena una funzione rieducativa (come si desume dall’art. 27 della Costituzione italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i sostenitori della pena di morte. 
Tra questi barbari dovrebbero essere inclusi allora anche il fondatore del cristianesimo, S. Paolo (che nell’Episola ai Romani riconobbe al governo, anche pagano, l’jus gladii, cioè il diritto di spada), nonché il maggiore Padre della Chiesa, S. Agostino, il maggiore dottore di essa, S. Tomaso, il padre del liberalismo moderno, Locke, il maggiore filosofo dell’Illuminismo, Kant, sino a giungere a Pio XII, che, proposto per la beatificazione da Giovanni Paolo II, difese una concezione vendicativa della pena e giustificò la pena di morte vedendo nel disprezzo dell’ordine pubblico un’opposizione a Dio (Acta Apostolicae Sedis 47, 1955). Pio XII. l’ultimo grande papa. Dopo di lui il caos nella Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, facendo visita ad un carcere, invitò i carcerati a sopportare la loro croce, come se i delinquenti di ogni specie potessero essere considerati vittime e non carnefici. Il buonismo che uccide la giustizia.
Platone nel Protagora afferma che è comando divino l’uccidere gli individui incapaci di giustizia, in quanto sono una piaga sociale. E nelle Leggi (L. IX) è prevista la pena di morte per gli omicidi volontari e l’esilio per due o tre anni per quelli involontari, essendo ritenuti tali quelli causati da uno stato d’ira motivato, che, tuttavia, non non vale come attenuante nel caso di patricidio o matricidio. Aristotele (Etica nicomachea, V, 5), pur sfiorando soltanto l’argomento, scrive che “alcuni ritengono che la legge del taglione sia assolutamente il giusto; e così affermarno i Pitagorici: essi infatti definirono in senso assoluto il giusto come il rendere agli altri il contraccambio. Ma la legge del taglione non si accorda con la giustizia distributiva né con quella regolatrice”, cioè compensativa del danno subito. Infatti subito dopo Aristotele spiega che è più grave colpire un magistrato perché in tal caso chi lo colpisce dovrà non soltanto essere colpito, ma anche punito. Dunque Aristotele, benché non accenni espressamente alla pena di morte, chiarisce che la legge del taglione è la base della giustizia. Rimane sottinteso che l’assassino merita la morte che egli ha inflitto ad altri.
Seneca, autore delle Lettere a Lucilio, che possono essere considerate il capolavoro della filosofia morale di ogni tempo, scrive nel De clementia che la legge nel punire i delitti può applicare anche la pena di morte, “estirpando i malfattori dal corpo sociale per assicurare la tranquilla convivenza degli altri”.
Il diritto romano consolidò la teoria che la giustizia dovesse ritenersi pubblica vendetta nei confronti di chi attentasse al bene comune, identificato con l’utilità sociale. Nell’età moderna il diritto romano fu elaborato da filosofi e giuristi secondo l’indirizzo del diritto naturale, per trovare in esso la giustificazione della libertà di pensiero, ma anche quella della pena di morte in difesa dell’ordine pubblico2
Nelle Lettere3Agostino evidenzia come il perdono possa avere conseguenze negative su chi, invece di correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua arroganza, oppure, correttosi nella sua condotta, induca tuttavia altri ad approfittare sperando in eguale impunità. Riprendendo il pensiero di S. Paolo, Agostino scrive: “Se fai il male, abbi paura, poiché l’autorità non senza ragione porta la spada; essa infatti è strumento per infliggere punizione ai malfattori in nome di Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De libero arbitrio che “se l’omicidio consiste nel distruggere o uccidere un uomo, talvolta si può si può uccidere senza commettere peccato; questo vale per il soldato col nemico, per il giudice o il ministro con coloro che fanno del male”.
In Agostino prevale la teoria della prevenzione come giustificazione della pena di morte. Una funzione prevalentemente retributiva, oltre che emendativa e di prevenzione, ha, invece, la pena di morte per S. Tomaso, che nella Summa theologica (II, II, q. 68, a.1) giustifica la pena come vendetta che si esercita sui malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio e nella Summa contra Gentiles (III, cap. 146), dopo aver scritto che la vita del delinquente deve essere sacrificata, allo stesso modo in cui “il medico taglia a buon diritto e utilmente la parte malata, aggiunge che “uccidere un uomo che pecca può essere un bene come uccidere un’animale nocivo. Infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo di un animale nocivo”. Vi è dunque da domandarsi quale credibilità possa avere oggi la Chiesa, che, rinnegando circa 2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha abolito nel 1999 dal Catechismo la pena di morte. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale (dettata dal sentimento), ma è di fatto espressione di inferiorità giuridica, causata dalla corruzione del diritto da parte della morale.
Montaigne nei Saggi (1580) scrive, giustificando la pena di morte, che “non si corregge colui che è impiccato; si correggono gli altri per mezzo suo”. Tale giustificazione prescindeva da una concezione retributiva, e perciò da diritto naturale, perché Montaigne, esprimendo un relativismo culturale, faceva discendere le leggi dal costume di un popolo, scrivendo che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono invece dal costume…Per cui accade che quello che è fuori dai cardini del costume lo si giudica fuori dei cardini della ragione”.4 Non si capisce pertanto come egli potesse pretendere di impiegare la ragione per giudicare i costumi. 
Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (1749), dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei poteri, scrive che “la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è come il rimedio della società malata”.
Rousseau nel Contratto sociale (1762) considera la pena di morte entro una concezione retributiva sul presupposto che il cittadino è obbligato ad obbedire alla volontà generale (della maggioranza) quale condizione della conservazione del patto sociale, che implica la conservazione della vita dei contraenti. Ma chi vuole conservare la vita con il contributo degli altri deve essere anche disposto a morire dal momento in cui cessa di essere membro della società perché ne è divenuto nemico con il suo delitto. La conservazione della società in tal caso è incompatibile con quella del criminale.
Scrive Rousseau nel Contratto sociale che “è appunto per non essere vittime di un assassino che noi consentiamo a morire se diventiamo tali…Ogni malfattore diviene a causa dei suoi delitti nemico della patria; cessa di esserne membro; a questo punto la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca”.
Ha scritto Kant: “Se poi egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro surrogato che possa soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una vita per quanto penosa e la morte; e di conseguenza non esiste altra eguaglianza tra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale” (Metafisica dei costumi, parte II, sez. I, nota). 5
E Schopenhauer, utilizzando contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello stesso Kant (“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto come mezzo”, osservava, rincarando la dose, che essa era infondata alla luce della giustificazione della pena di morte: “A quella formula ci sarebbe da obiettare che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente, soltanto come mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile per confermare alla legge, se attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il suo fine”.6 In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte dell’umanità, e dunque la sua vita cessa di essere un fine per diventare solo un mezzo della forza deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da qualsiasi concezione utilitaristica della pena, come quella di Schopenhauer, che vedeva nella pena un mero mezzo per ottenere un bene per la società. Per Kant è lo stesso delitto che richiede una proporzionata pena come imperativo categorico non potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio che serva da deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte si giustifica sulla base della considerazione che l’uomo, anche quando è un criminale, non può mai essere considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe richiedere per sé la pena di morte per riscattarsi come uomo.
Verso la fine del ‘700 Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi del diritto penale (1791), considerando che il diritto penale trova la sua giustificazione nella difesa della società e nella salvaguardia dei cittadini, ritenne che la pena giusta fosse quella che meglio garantisse la conservazione dei cittadini. Pertanto qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria sulle pene capitali (1830) scrisse che “non si tratta più di vedere se esista il diritto di punire sino alla morte: ma bensì se esiste il bisogno di esercitare questo diritto…Chi commette un delitto commette un’azione senza diritto…Dunque il male irrogato per difesa necessaria al facinoroso è un fatto di diritto. Dunque se questo male dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso, questa morte sarebbe data con diritto…Voler poi negare indefinitivamente questo bisogno sarebbe lo stesso come dire in chirurgia non potersi dar il caso di dover fare l’amputazione di un membro”. Romagnosi riteneva che la galera, pur senza lavoro, fosse per molti non un castigo ma un premio.
Hegel vide nel delitto il prevalere della volontà del singolo sulla volontà universale, per cui la pena consiste nel rovesciare la volontà del reo restaurando la volontà universale, che non significa recuperare il delinquente.7
In Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Hegel espose, come Kant, una concezione retributiva della pena, che ha la funzione di restaurare l’ordinamento violato. Criticando anch’egli, come Kant, Beccaria, ricononobbe allo Stato il diritto di applicare la pena di morte, giacché “l’annientamento del diritto è taglione, senza per questo essere vendetta”.8
L’abolizionista si trova in compagnia di Robespierre, che, prima di cambiare idea pochi anni dopo, scriveva nei Discorsi sulla pena di morte, avvalendosi dell’argomento del possibile errore giudiziario, che la pena di morte era un eccesso di severità, e precisava: “un vincitore che tagli la gola ai suoi prigionieri è definito un barbaro”. Egli si poneva contro il Codice penale approvato dall’Assemblea costituente nel 1791, che riconfermava la pena di morte prevista dalle leggi dell’ancien regime. L’abolizionista si trova in compagnia anche dell’anarchico Max Stirner, che nell’opera L’unico e la sua proprietà 9 concepiva il diritto come legato all’arbitrio del singolo, sì da poter scrivere: “Se tu riconduci il diritto alla sua origine, in te, esso diventerà il tuo diritto, e sarà giusto ciò che per te è giusto”. La conseguenza è che per Stirner il crimine esiste soltanto perché esiste il dominio della legge che si ammanta di sacralità, e non viceversa, e la punizione si giustifica soltanto perché lo Stato si arroga il diritto di esercitare una vendetta chiamata punizione. Si può vedere come il ragionamento degli abolizionisti nasconda le stesse premesse di una concezione anarchica dello Stato, il cui diritto di punire si fonderebbe unicamente su una pretesa sacralità della legge. Stirner non si avvide che, partendo dalla sua concezione anarchica dell’individuo, a difesa dell’unicità della vita, intesa come espressione di solo egoismo, avrebbe dovuto ritenere normale l’omicidio, e innaturale l’intervento della legge a difesa della vita dello stesso egoista. L’assolutizzazione dell’individuo porta a giustificare, contraddittoriamente, il suo annullamento sulla base di una concezione della legge intesa come espressione della forza, e non come difesa del diritto naturale all’autoconservazione. 

Salto a questo punto le pagine su Beccaria già riportate nel post precedente.   
 
Oggi nella dottrina penale americana prevale una concezione retributiva della pena che giustifica la posizione di Kant basata sul principio di eguaglianza. La legge del taglione (lex talionis) raccomanda di “fare agli altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della regola aurea secondo cui bisogna “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In base alla lex talionis si ripristina l’eguaglianza che è stata turbata dal crimine E’ questa la tesi di J. H. Reiman.12 In base a tale principio il crimine è un attacco alla sovranità dell’individuo che pone il criminale in una posizione di illegittima sovranità su un altro. La vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare la posizione del criminale riducendone la sovranità nello stesso grado. La vittima avrebbe avuto il diritto, ma non il dovere, di perdonare a chi ha attentato al suo diritto naturale, ma rispettando il principio che la vita della vittima non possa essere valutata come inferiore rispetto a quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo (che in Italia non esiste più) non sarebbe in accordo con il principio di umanità della pena e dell’ipocrita funzione rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un processo nel quale la vittima non può più udire la propria voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il suo delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno un po’ di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo priva di una parte della sua vitalità…L’esclusione della pena di morte per omicidio è un portato di maggiore civiltà o non è invece il segno di una minore sensibilità morale e di una meno chiara percezione del vero?…Chi con deliberato proposito uccide un uomo deve essere a sua volta ucciso dalla società costituita, che non può sottrarsi al suo obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che chi uccida non venga a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena di carcere che sarà mite in ragione di come saprà difendersi contro un morto”,13 grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo di turno pronto a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole spesso dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse incapace di intendere e volere. Ma poi riacquista sempre la lucidità! Si pretende assurdamente che il criminale si riconcili con la società senza tenere in alcun conto la vita dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che ipocritamente o disonestamente tengono in minor valore la vita umana, stando a difesa degli assassini. Questo discorso vale anche per Amnesty International, che, come direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del cuore” (Lineamenti di filosofia del diritto, pref. ): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono di avere un cervello migliore di quello di tutti i pensatori che abbiamo citato. E, a parte la giustizia che bisogna rendere alla vittima innocente, anche se morta, vi è un superiore interesse della società a liberarsi degli assassini che a ritenere “sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita di un criminale.
T. Sellin14volle dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli Stati Uniti non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte per omicidio. Gli rispose Isaac Ehrlich,15 che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre, avvalendosi di diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il periodo 1935-69 ciascuna esecuzione capitale aveva prevenuto il verificarsi di sette o otto omicidi in più. Infatti il criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua condotta al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte diminuisce il desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono argomenti utilitaristici che non scalfiscono minimamente il principio secondo cui la vita dell’assassino non deve valere più di quella della sua vittima.
Chi è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i mass media, operando una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità giuridica. Da notare come gli stessi mass media, essendo totalmente privi di alcuna capacità o volontà di discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale nasce soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la telecamera per far vedere il condannato che soffre o l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto che non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta che non esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha seri argomenti contro di essi. 
 
Sia almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia disposto a perdonare il suo eventuale assassino, perché lo Stato non si sostituisca alla volontà della vittima innocente.16 

E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino soltanto perché questo è riuscito ad anticipare la vittima.17 
 Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una sentenza.
Se si prendesse spunto dal pensiero dei filosofi esistenzialisti – che hanno mancato di trattare la questione della pena di morte – si dovrebbe riconoscere che, essendo l’uomo, come essi dicono, una possibilità autocostitutiva, come esistenza e non come essenza (o specie), il valore dell’esistenza umana non è dato dal fatto di essere umana, ma dal fatto di esprimere una possibile esistenza, da valutare in relazione ad un progetto che è la stessa singolarità dell’esistenza. Pertanto il criminale non può essere sottratto alla pena di morte dalla sua essenza umana, che esiste soltanto biologicamente. Già Pico della Mirandola nell’Oratio de dignitate hominis immaginava che Dio dicesse all’uomo: “Tu dominerai la tua natura secondo il tuo arbitrio…non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”. Sta all’uomo, secondo Pico, scegliere se essere soltanto un animale o di natura divina. Egli è responsabile del suo progetto di vita.

La morale ha persino corrotto il significato del termine “vendetta” dandole un significato negativo, se non dispregiativo, mentre in realtà essa dovrebbe continuare ad essere espressione, come lo fu nell’antichità greca, di giustizia, in relazione ad una responsabilità oggettiva, come la intese Platone nelle Leggi. Che fa lo Stato, con l’infliggere una pena, se non vendicare la vittima e la stessa società di cui è stato violato l’ordine? Da notare come si tratti soltanto di una questione di attribuzione, perché la vendetta, se è attuata dallo Stato, è giustizia, mentre non lo è se è attuata dalla vittima o da chi per lui.
La concezione antropocentrica del diritto si palesa anche laddove, in contrasto con il diritto naturale, si pretenda di giudicare in nome del popolo. Così in Italia il giudice emana, assurdamente, le sentenze, sia civili che penali, in nome del popolo italiano. Come se un popolo potesse essere il fondamento della giustizia e non meritasse, invece, di essere, a sua volta, giudicato alla luce di una giustizia universale (o naturale, secondo la concezione di Platone e di Aristotele) che sovrasta le particolarità storiche da cui nasce il diritto positivo.18 Per di più i giudici in Italia, chiusi in un sistema corporativo, pretendono di essere padroni, invece che servitori, della giustizia, e rifiutano con arroganza e con protervia un controllo di merito sul loro operato, mentre, continuando a sostenere un avanzamento di carriera per sola anzianità, timorosi di subire un esame, che li priverebbe della loro vuota arroganza, hanno rivendicato di fatto il loro diritto all’ignoranza, giustificata una volta alla TV19 dal presidente nazionale della loro associazione con la stupefecente considerazione che essi “non hanno tempo per studiare”. Ad essi basta ormai soltanto il computer per conoscere la casistica della giurisprudenza civile, mentre hanno in odio la dottrina dei “professori”, perché per essi l’aggiornamento nella dottrina è solo un’indebita invasione nella giurisprudenza, che si costruiscono da sé con sentenze prive di dottrina e di cui sono gelosi come di una cosa propria. In nome del diritto all’ignoranza ad essi è permesso scandalosamente dalla legge di passare dalla magistratura penale a quella civile, e viceversa, senza che abbiano maturato precedentemente una preparazione nel diritto civile, così ampio e complesso da richiedere una specializzazione disciplinare all’interno di esso, mentre si permette alla magistratura penale il passaggio, senza previo esame, dal ruolo di pubblico ministero a quello di giudice e si affidano indagini a pubblici ministeri che hanno da pochi anni superato il concorso di uditore giudiziario, che rimane l’unico esame della loro vita. Per di più le nuove leve dei magistrati provengono oggi dalle sgangherate università italiane, dove la preparazione, anche nelle facoltà di giurisprudenza, è proporzionale alla demagogica e buffonesca riforma universiaria che, dopo avere liberalizzato i piani di studi e l’ingresso a tutti i diplomati – cosicché è possibile diventare magistrati anche senza avere studiato il latino - ha aggravato la situazione per il futuro con l’introduzione della inutile laurea breve di tre anni, che dovrebbe chiamarsi laurea flebile, non essendo compensata dai due anni successivi di cosiddetta specializzazione, giacché gli esami del triennio, avendo il vincolo delle ore da dedicare alla preparazione di ciascun esame, trasformato così in un esamuncolo, sono ridotti ormai ad una farsa.I palazzi di giustizia, se oggi sono ricevitorie del lotto, con magistrati laureati dopo il 1968, domani saranno dei manicomi.D’altra parte, questa gente, corrotta dal buonismo imperante, che uccide la giustizia, forte con i deboli, e debole con la mafia, che, sostituendosi allo Stato, continua a comandare da sempre sia dal carcere che in libertà, pur conoscendosi i capi della mafia e le rispettive “famiglie”, pretende di giudicare in nome del popolo italiano. Deve cessare di esistere l’intoccabilità dei giudici, che, credendo di essere padroni della giustizia, pretendono, come categoria privilegiata, di sottrarsi ad essa, ritenendosi al di sopra di essa e non pagando mai per i danni che causano a terzi per responsabilità oggettiva, che, se vale per tutti i cittadini, come principio universale di giustizia, anche in caso di buona fede, deve valere anche per essi. Se un medico può essere condannato per avere male operato, non si capisce perché non debba pagare anche un giudice. L’ultimo grado del giudizio soltanto in parte può porre rimedio a precedenti sentenze, giacché il danno causato dall’ulteriore tempo trascorso – a parte le ulteriori spese del giudizio – non può essere compensato.Ma chi giudicherà i giudici dopo il terzo ed ultimo grado della Cassazione? Di fronte a sentenze della Cassazione che possano essere ritenute fondatamente ingiuste alla luce di una giustizia sostanziale, e non formale, deve esistere una magistratura dell’equità, con collegi formati da giudici della Cassazione – nominati dal Consiglio Superiore della Magistratura, e da professori di chiara fama, riconosciuti come maestri di diritto, nominati dal Ministero,anche perché la dottrina, cioè la scienza del diritto, controlli in ultima istanza la giurisprudenza, se questa è in chiaro contrasto con la dottrina e la giurisprudenza cessi di costituire da sola la fonte dell’interpretazione della legge, ponendo anche rimedio alle carenze della legge stessa.
Una sentenza non può essere mai emessa in nome di un popolo, ma in nome della giustizia, in quanto volta verso l’universale, in rispetto del diritto naturale, giacché ogni norma particolare, se pure convenzionale, può giustificarsi soltanto se non è in contrasto con il diritto naturale, da cui discende la norma fondamentale neminem laedere. Ogni altra norma è convenzionale, giustificabile nei limiti in cui non sia in contrasto con la norma fondamentale. Ma il mancato rispetto di una convenzione liberamente sottoscritta dalle parti è una violazione della norma fondamentale. Ogni Costituzione che pretenda di essere fondamento di uno Stato liberale dovrebbe avere nel suo primo articolo il riferimento al diritto naturale come fondamento della Costituzione stessa.20
Ma il diritto naturale non può essere antropocentricamente il diritto della sola natura umana, cioè il diritto della ragione, come fu inteso nell’età moderna, ma il diritto all’autoconservazione, come fu prevalentemente inteso nel Medioevo cristiano sulla base della legge naturale, a cui fecero riferimento sia Platone che Aristotele. Oggi bisogna andare oltre i limiti di una concezione antropocentrica, come quella cristiana, sulla base del riconoscimento dell’origine comune di tutte le forme di vita.

Non vi sarà mai progresso umano sino a quando, sulla base di una concezione antropocentrica della natura, e perciò del diritto, si riterrà che la vita del peggiore criminale valga comunque più di quella di qualsiasi animale non umano.
1 Carlo Nicoletti, Sì, alla pena di morte?, Cedam 1997, p. 60. L’autore soltanto per ragioni di cautela ha preferito aggiungere il punto interrogativo al titolo del suo testo. Egli ritiene che la concezione emendativa, cioè quella che pone come scopo della pena il recupero del colpevole, sia profondamente utopica e ipocrita perché non tiene conto delle condizioni e dei luoghi di pena, per cui “una carceraria città del sole costituisce niente di più che una contraddizione in termini” (p.9). Tale concezione è soltanto una dichiarazione di intenti, in quanto “il ravvedimento è sempre e comunque un fatto individuale” (p.11). Quanto alla concezione della pena come prevenzione, essa è cinica, perché, prescindendo da ogni implicazione morale, ha come fine quello di isolare chi costituisce un attentato all’ordine sociale. Tuttavia l’autore, professore di diritto processuale civile a Cagliari, ritiene che quest’ultima concezione “è quella che perfettamente si attaglia alla pena di morte” (p. 16), quando pare, invece, evidente che sia la concezione retributiva, per la corrispondenza che essa richiede tra il delitto e la sua punizione. L’autore precisa che la pena non può essere assimilata alla vendetta perché quest’ultima può essere accompagnata dal piacere di restituire il male. Ma allora dovrebbe escludersi anche il piacere della giustizia.

2 Sulla pena di morte nella storia occidentale cfr. di Alberto Bandolfi Pena e pena di morte. Temi etici nella storia, Edizioni Dehoniane 1985; di Italo Mereu La morte come pena. Saggio sulla violenza legale, Donzelli 1982. L’esame che quest’ultimo testo fa di tutti gli eccessi, non escluse diverse forme di tortura, nell’applicazione della pena di morte come uso politico per sbarazzarsi degli avversari non deve essere confuso con il discorso sui principi.
3 Agostino, Lettere, II, Città Nuova, 1971, pp. 541-47.
4 Saggi, Adelphi, 1982, p. 150.
5 Kant (ibid.) accusò Beccaria di “affettato sentimentalismo”.
6 Il fondamento della morale, op. cit., p. 164.
7 Filosofia dello spirito jenese, Laterza 1984, p. 139
8 E’ evidente che Hegel, distinguendo la legge del taglione dalla vendetta, considera quest’ultima soltanto come espressione di una punizione privata, che può non rispettare la proporzionalità tra delitto e pena. Ma in sostanza anche la pena comminata dallo Stato non può non essere considerata anch’essa una vendetta, se la pena rientra in una concezione retributiva come quella di Hegel.
9 In Gli anarchici, a cura di G.M Bravo, Adelphi 1970, pp. 510 sgg.
10 Il contrattualismo non implica necessariamente l’utilitarismo come negazione di un diritto naturale. In Hobbes, per esempio, la concezione contrattualistica si accorda con quella utilitaristica, ma anche con una concezione giusnaturalistica che vede la legge naturale non dipendere dal contratto ma precederlo. Così in Locke la concezione contrattualistica si accorda con il diritto naturale alla libertà e alla proprietà (Secondo Trattato del governo (a cura di Luigi Pareyson) , Utet 1982, pp. 229-63.
11 Oggi il riferimento va all’impiego, da parte dello Stato, dei cosiddetti “pentiti”, premiati per le loro “confessioni”. E’ il risultato, direbbe Beccaria, di uno Stato che, non avendo la forza di difendersi, a causa del suo garantismo nei riguardi delle organizzazioni criminali, cerca di comprarla, mandando in rovina l’edificio dell’ordinamento giuridico, fondato sulla proporzionalità della pena al delitto.
12 Justice, Civilation and the Death Penalty, Justice 1991.
13 Carlo Cetti, Della pena di morte. Confutazione a Beccaria, Como 1960, pp. 12-13.
14 The Death Penalty, The American Law Insitute, Philadelphia 1959.
15 The deterrent effect of punishment: a question of life and death, American Economics Reviw, 65, 1975.
16 In questo senso si può ritenere ampliata la considerazione svolta da Platone nelle Leggi (IX, 869), dove è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) – il delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la madre) possa avere il tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso il patricidio (o matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto purificarsi.
17 Il nostro ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti (II Trattato del governo, II, 11), osserva, contro Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde il diritto alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo diritto si trasferisce da lui alla società. D’altra parte, non si aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la pena di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale. Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro cui si devono usare leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito equipaggiato al massimo con fucili da caccia. Poiché è impossibile estirpare la mafia con metodi democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte di altre regioni. Ha scritto Aristotele (Politica) che ogni popolo ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a comandare dal carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto significa corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà. 
18 Diversamente si giustificherebbero tutte le sentenze emesse, per esempio, dai tribunali nazisti in nome del popolo tedesco. Né vale osservare che lo Stato nazista era uno Stato antiliberale. Qui vale il principio, fatto valere da Kant, (Metafisica dei costumi, Parte, II, Sez. I, Nota) secondo cui nel sancire una legge si deve considerare idealmente “la ragione pura giuridicamente legislatrice”, a cui tutto il popolo, compreso il legislatore, è sottomesso, non essendo il popolo fonte della ragione pura legislatrice.
19 Si tratta di una trasmissione di Porta a Porta del 2004.
20 Si consideri che la magistratura italiana, sia nell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) che nel Consiglio Superiore della Magistratura, è divisa in tre correnti. L’una si chiama “magistratura indipendente”: come se potesse essere concepita una magistratura dipendente da altro, oltre che dalla legge. Una seconda si chiama “magistratura democratica”: come se la giustizia potesse identificarsi con una maggioranza politica e non la dovesse, al contrario, sovrastare. Una terza si chiama “unità per la costituzione”: come se vi potessero essere dei magistrati contrari ai principi di una carta costituzionale. E’ incredibile come non sia stato percepito il senso del ridicolo.


Dal libro del 2010 (che riprende in parte pagine del libro precedente)

Chi è favorevole alla pena di morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o non trova spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i mass media, operando una dispotica censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di morte sono dei barbari, che non debbono corrompere i civili. La condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale, ma è di fatto soltanto espressione di inferiorità giuridica. Da notare come gli stessi mass media, essendo totalmente privi di alcuna capacità o volontà di discutere sul piano razionale, essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed emotive contro la pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale nasce soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non trovano altro mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la telecamera per far vedere il condannato che soffre o l’ambiente della camera della morte, approfittando del fatto che non vi è mai una telecamera pronta a riprendere l’assassino quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non verrebbero fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono misurarsi con il gran numero di sostenitori della morte facendo finta che non esistano o impediscono un pubblico confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei disonesti arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha seri argomenti contro di essi.
Sia almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia disposto a perdonare il suo eventuale assassino

perché lo Stato non si sostituisca alla volontà della vittima innocente.1 E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque perché lo Stato restituisca la tutela della alla vita all' assassino soltanto perché questo è riuscito ad anticipare la vittima.2 
Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una sentenza.
Già Pico della Mirandola nell’Oratio de dignitate hominis immaginava che Dio dicesse all’uomo: “Tu dominerai la tua natura secondo il tuo arbitrio…non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”. Sta all’uomo, secondo Pico, scegliere se essere soltanto un animale o di natura divina. Egli è responsabile del suo progetto di vita.
I filosofi esistenzialisti (come Heidegger, Jaspers e Sartre) hanno ritenuto che l'uomo si differenziasse dagli altri animali per il suo esistere inteso come ex-sistere, uno stare fuori del mondo, in quanto capace di porsi il mondo di fronte a sé (e perciò standone fuori) nel pro-gettarlo, cioè nel porlo di fronte a sé anche nello studiarlo scientificamente. L'uomo è dunque libero perché sta fuori del mondo nello stesso farne parte. Esso è una possibilità, intesa come libertà, anche di pensiero, nel progettare il mondo. In sostanza, l'uomo è la sua capacità di costruire da se stesso la sua esistenza: è la sua capacità auto-costitutiva. E' responsabile della sua esistenza. In questo senso va oltre la sua appartenenza alla specie biologica "homo".L'uomo è quell'unico animale in cui l'esistenza di ciascuno precede la sua essenza biologica "homo".Ma gli esistenzialisti non si accorsero delle conseguenze logiche delle loro premesse. Se l'esistenza (ex-sistere) precede l'essenza "homo" come possibilità auto-costitutiva, ciascun uomo deve essere giudicato come esistenza, per ciò che vale nella sua singolarità, e non per la sua appartenenza alla specie "homo". Ne consegue che un uomo, se ha un'esistenza da criminale, deve essere giudicato nella sua singolarità di criminale, senza poter essere salvato dalla sua appartenenza alla specie "homo". Egli, in quanto criminale (in generale responsabile di comportamenti crudeli che hanno in disprezzo la vita altrui, anche non umana) vale meno della sua appartenenza all'animalità della specie "homo". Egli vale meno di un animale non umano (che non uccide per crudeltà ma in base al diritto naturale inteso come diritto all'autoconservazione, come fa il predatore).
La morale ha persino corrotto il significato del termine “vendetta” dandole un significato negativo, se non dispregiativo, mentre in realtà essa dovrebbe continuare ad essere espressione, come lo fu nell’antichità greca, di giustizia, in relazione ad una responsabilità oggettiva, come la intese Platone nelle Leggi. Che fa lo Stato, con l’infliggere una pena, se non vendicare la vittima e la stessa società di cui è stato violato l’ordine? Da notare come si tratti soltanto di una questione di attribuzione, perché la vendetta, se è attuata dallo Stato, è giustizia, mentre non lo è se è attuata dalla vittima o da chi per lui.
 La concezione antropocentrica del diritto si palesa anche laddove, in contrasto con il diritto naturale, si pretenda di giudicare in nome del popolo. Così in Italia il giudice emana, assurdamente, le sentenze, sia civili che penali, in nome del popolo italiano. Come se un popolo potesse essere il fondamento della giustizia e non meritasse, invece, di essere, a sua volta, giudicato alla luce di una giustizia universale (o naturale, secondo la concezione di Platone e di Aristotele) che sovrasta le particolarità storiche da cui nasce il diritto positivo.3
La condanna della pena di morte è oggi la maggiore espressione della decadenza morale e della corruzione giuridica dell'Occidente, autodisarmatosi in base ad una concezione di fondo antropocentrica della natura e ad una vuota formula della dignità della persona umana, attribuita in tal modo anche ai peggiori criminali.
1 In questo senso si può ritenere ampliata la considerazione svolta da Platone nelle Leggi (IX, 869), dove è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) – il delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la madre) possa avere il tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso il patricidio (o matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto purificarsi.
2 Il mio ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che, riprendendo il pensiero di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti (II Trattato del governo, II, 11), osserva, contro Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde il diritto alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di uccidere il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo diritto si trasferisce da lui alla società. D’altra parte, non si aggiunge mai che Beccaria continuò a giustificare la pena di morte per quei delitti che minano l’ordine sociale. Riferimento odierno potrebbero essere le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro cui si devono usare leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo delle leggi di pace, e senza applicare la pena di morte, significa cercare di contrastare un esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito equipaggiato al massimo con fucili da caccia. Poiché è impossibile estirpare la mafia con metodi democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto l’autogoverno della mafia, senza aiuti economici da parte di altre regioni. Ha scritto Aristotele (Politica, VIII) che ogni popolo ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a comandare dal carcere ricattando guardie, direttori del carcere e giudici. La pena di morte impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’ altrettanto inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei confronti dei trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro vita sia degna di rispetto significa corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di Beccaria, dovrebbero essere eliminati senza pietà.
3 Diversamente si giustificherebbero tutte le sentenze emesse, per esempio, dai tribunali nazisti in nome del popolo tedesco. Né vale osservare che lo Stato nazista era uno Stato antiliberale. Qui vale il principio, fatto valere da Kant, (Metafisica dei costumi, Parte, II, Sez. I, Nota) secondo cui nel sancire una legge si deve considerare idealmente “la ragione pura giuridicamente legislatrice”, a cui tutto il popolo, compreso il legislatore, è sottomesso, non essendo il popolo fonte della ragione pura legislatrice.