LA SENTENZA SULLA LEGGE 40 E LA PROCREAZIONE ETEROLOGA
Eterologa, in Italia resta la proibizione
Ma la Consulta: «Si può ricorrere»
La Corte costituzionale rinvia gli atti ai tribunali e rimanda alla sentenza di Strasburgo: «Governi liberi di decidere»
SALUTE In Italia resta il divieto. Il legale delle coppie che avevano fatto ricorso: «Consulta ha preso tempo, decisione non negativa»L'ultima parola arriverà tra
un anno e forse più De Bac
SEGUE IL MIO COMMENTO TRATTO DAL MIO LIBRO DEL 2006 (SCONTRO TRA CULTURE E METACULTURA SCIENTIFICA).
"La fine dell'umanità non sarebbe una tragedia, ma la fine di una tragedia" (Peter Wessel Zapffe, Sul tragico).
Non è giustificabile l’inseminazione artificiale eterologa perché il nascituro, non potendo avere conoscenza del padre o della madre naturale, verrebbe danneggiato perché privato del suo diritto naturale di conoscere il patrimonio genetico di ambedue i genitori in relazione alla necessità di una anamnesi medica che faccia riferimento ad esso. Si aggiunga il danno psicologico, in alternativa alla menzogna perpetua avallata dalla legge, derivante dalla scoperta da parte del figlio, di non poter conoscere il suo vero padre o la sua vera madre, con le conseguenti possibili turbe psicologiche che durerebbero per tutta la vita. E ciò in conseguenza dell’egoismo di chi vuole un figlio ad ogni costo, accampando un falso diritto alla paternità o alla maternità.
Per
questo motivo deve essere vietato alla madre di abbandonare in
ospedale sotto la garanzia dell’anonimato il neonato, dovendosi
sempre garantire al figlio la possibilità di conoscere la sua
vera madre se egli lo richiedesse o fosse necessario sul piano di un
anamnesi medica. Per lo stesso motivo la madre deve essere costretta
dalla legge ad indicare il padre del neonato da sottoporre alla prova
del DNA, anche se ciò non comporterebbe da parte del padre e
della madre naturali l’onere di provvedere materialmente al neonato
abbandonato, da affidare successivamente ad altra coppia, potendo
nell’adozione avere anche una vita migliore.
Se
si considerassero tutti questi aspetti non si farebbe tanto baccano
sul diritto alla vita degli embrioni, che non chiedono certamente di
nascere, come se la vita fosse un bene ancor prima di nascere (o di
essere concepiti), e non lo fosse invece soltanto in relazione al
fatto che, una volta nati, come dice Hobbes, la morte appare “il
massimo dei mali naturali”. Si considera solo il passaggio dal
nulla all’essere (cioè alla nascita o al concepimento), per
trarre da ciò un bene (la vita) come guadagno, senza
considerare il successivo passaggio dall’essere al nulla, con la
perdita dell’asserito bene della vita. La somma totale è
pari a zero. Anzi, considerando in più l’esperienza negativa
della morte, che non nascendo si eviterebbe, la
somma è qualitativamente negativa.
Ma, una volta nato, ognuno si affanna, già dal momento del
piacere della suzione del latte materno, a ricercare dei beni per la
tendenza naturale di ogni organismo a conseguire il proprio
benessere, come “ciò a cui ogni cosa tende” (Aristotele,
Etica nicomachea,
I, 1) e a “fuggire quel che per lui è male, specialmente poi
il massimo dei mali naturali, cioè la morte” (Hobbes, De
cive, I, 7). La vita
è la condizione esistenziale che porta a conseguire dei beni.
Essa, pertanto, non è di
per sé un
bene. Appare tale soltanto di riflesso, perché, una volta
nati, la morte è certamente un male, perché perdita di
tutto. Ma queste considerazioni, pur ovvie, non possono entrare nella
testa dei cosiddetti esperti del Comitato nazionale di bioetica di
nomina ministeriale. A maggior ragion non possono entrare nella testa
della gente comune, plagiata dalla retorica dei mass
media fondata sui
luoghi comuni dei non sensi linguistici, che impongono di pensare che
la vita sia di per sé un bene, e che dunque essa possa essere
donata.1
Oltre tutto, se fosse di per sé un bene, non esisterebbero i
suicidi. Chi si suicida non riesce più a conseguire dei beni
dalla vita. Per lui si forma un corto circuito causato
dall’impossibilità di conseguire ulteriormente dei beni, a
causa del prevalere di un danno, che può essere anche la
consapevolezza della mancanza di senso della vita. Le religioni
pongono riparo alla disperazione che può nascere dal prevalere
del sentimento oscuro della mancanza di senso della vita sulla
naturale tendenza dell’organismo a conservarsi in vita. Infatti gli
animali non umani non si suicidano.
Abbiamo
con ritardo trovato riscontro a queste nostre indipendenti
considerazioni in uno scritto di notevole e perdurante successo dove
l’autrice (Oriana Fallaci) aveva raccontato la sua esperienza di madre mancata a
causa della morte del feto al terzo mese. Ella all’inizio aveva
cercato di giustificare la convenienza di nascere col pensare che
“nulla è peggiore del nulla” e che “nascere merita
sempre” perché “l’alternativa è il vuoto e il
silenzio…Il brutto è dover dire di non esserci stato”.2
Non si capisce se l’autrice fosse conscia della mancanza di senso,
anche linguistico, di queste giustificazioni, anche se sembra che
nemmeno ella fosse convinta di esse e che se ne servisse come di un
alibi per non abortire. Infatti nulla non
può essere peggiore del nulla, non potendoci essere alcun
confronto nel nulla, e nessuno, tornato al nulla, può dire che
“il brutto è dover dire
di non esserci stato”. Nulla si può dire nel nulla, e dunque
non vi può essere alcun rammarico nel nulla. Ma infine è
al feto morto di tre mesi che viene dato il compito di dire alla
madre mancata la verità che la madre non aveva il coraggio di
dire: “Non appena compresi che tu non credevi alla vita, io mi
permisi la prima ed ultima scelta: rifiutare di nascere…Si nasceva
perché altri erano nati e perché altri nascessero…Se
non accadesse così, mi dicesti, la specie si estinguerebbe.
Anzi non esisterebbe. Ma perché dovrebbe esistere, perché
deve esistere? Lo scopo qual è? Te lo dico io: un’attesa
della morte, del niente. Nell’universo che tu chiamavi uovo lo
scopo esisteva: era nascere. Ma nel tuo mondo lo scopo è
soltanto morire: la vita è una condanna a morte. Io
non vedo perché avrei dovuto uscire dal nulla per tornare al
nulla”. E il
mancato padre scrive alla mancata madre: “Sai meglio di me che
nessuno è indispensabile, che il mondo se la sarebbe cavata
ugualmente se Omero e Icaro e Leonardo da Vinci e Gesù Cristo
non fossero nati…Ti scrivo per congratularmi, per riconoscere che
hai vinto…Se riuscita a non cedere al bisogno degli altri, incluso
il bisogno di Dio…Dio è un punto esclamativo con cui si
incollano tutti i cocci rotti: se uno ci crede vuol dire che è
stanco, che non ce la fa più a cavarsela da sé. Tu non
sei stanca perché sei l’apoteosi del dubbio…E solo chi si
strazia nelle domande per trovare risposte, va avanti; solo chi non
cede alla comodità di credere in Dio per aggrapparsi ad una
zattera e riposarsi può incominciare di nuovo: per
contraddirsi di nuovo, smentirsi di nuovo, regalarsi di nuovo al
dolore”. Poi torna l’illusione della vita: “Ho il compito di
battermi contro le comodità dei punti esclamativi, ho da
indurre la gente a porsi più perché”. Ma si termina
con una banalità: “a (che) cosa serve volare come un
gabbiano dentro l’azzurro se non si generano altri gabbiani che ne
genereranno altri ancora ed ancora per volare dentro l’azzurro?”.
In
realtà solo gli uomini-gabbiani meritano di nascere. Se anche
quasi tutti gli umani viventi dichiarassero, da ebeti, di essere
contenti di essere nati, cioè di dover morire, non si potrebbe
sacrificare il pensiero di una minoranza che avrebbe preferito il
contrario, cioè non nascere. In
dubio pro nihilo.
Se
si tenessero presenti queste considerazioni, da parte di credenti e
non credenti, si finirebbe di blaterare sul rispetto della vita degli
embrioni, perché chi li difende dovrebbe prima poter domandare
ad essi se preferiscano nascere, cioè di fare l’esperienza
della morte.
Forse
per porre rimedio all’assurdità di una vita vissuta nella
continua anticipazione della morte a cui l’uomo, al contrario degli
altri animali, è costretto, Platone – e con lui tutta la
tradizione neoplatonica - riprese da Pitagora la teoria della
reincarnazione e della metempsicosi nel Fedro
(247 sgg.), nella Repubblica
(libro X) e nel Timeo
(90e sgg.).In questo modo i genitori, incolpevoli, diventavano
soltanto la causa contingente di una rinascita già segnata nel
destino di ognuno nel ciclo eterno delle reincarnazioni dell’anima
increata.
Gli
uomini nascono sempre o per sbaglio o per egoismo dei genitori.
E’ lo sbaglio che
differenzia gli uomini dagli altri animali.
Vale
inconsciamente anche la tendenza a sopravvivere nella discendenza
oltre al cercare di pensare meno a se stessi e alla morte creandosi
delle responsabilità per fornirsi di scopi illusori nella
vita, in un circolo vizioso. Ma si può dire, con Pascal, che
“ciascuno morirà solo” (Pensieri).
In terzo luogo, se fosse vero che nell’embrione vi è già
l’anima immortale, poca cosa sarebbe una vita pur lunga e beata di
fronte alla certezza dell’anima dell’embrione di avere una vita
immortale di beatitudine, non essendo sottoposta al rischio di una
vita eterna di dannazione diventando individuo adulto. La Chiesa,
condannando l’aborto, preferisce che ognuno, nascendo, corra questo
rischio, che l’embrione, privo di colpe, non può correre,
mentre dovrebbe riconoscere che, dal suo stesso punto di vista,
l’aborto sarebbe una fabbrica di anime beate. Lo stesso papa
Giovanni Paolo II ha scritto in un documento (Evangelium vitae)
rivolto alle donne che hanno abortito che i loro mancati figli sono
stati ricevuti “nella gloria di Dio”. E allora? Perché Dio
dovrebbe punire le madri che hanno abortito? Ma, a parte questi
paradossi, che sono conseguenti ad una concezione morale
contraddittoria, vi è da domandarsi se valga maggiormente la
salvezza di un individuo già formato, soggetto cosciente del
diritto alla vita, garantibile, perché malato, dall’impiego
di tessuti od organi ottenuti dalla coltura di embrioni, piuttosto
che quella di un embrione che non può nemmeno desiderare di
nascere e non può tendere a conseguire un benessere fisico che
non conosce, essendo mancante di quegli organi e di quelle facoltà
naturali che ne sono la premessa. Si vede come la morale riesca
persino, contro il diritto naturale, a farsi sostenitrice di un
diritto alla morte, e non alla vita, del soggetto malato a favore di
chi non esiste nemmeno come individuo.
1
Forse, proprio a causa della mancanza di senso dell’espressione
“donare la vita”, Platone, per ovviare a ciò, recepì
dalla tradizione pitagorica ed orfica la dottrina della
metempsicosi, che presuppone, non soltanto che l’anima sia
coeterna con il mondo e che essa sia soggetta a cicli di
reincarnazione, ma che essa possa trasmigrare, per punizione, in
forme di vita inferiori, entro uno stesso ciclo del mondo, per cui i
genitori sono soltanto lo strumento involontario di un destino già
segnato per l’anima. Sia Platone che Aristotele ripresero da
Eraclito il concetto di grande anno (10. 800 anni), che rappresenta
quel ciclo del mondo dopo il quale le cose e gli eventi si
ripresentano e si ripetono come nel ciclo precedente, dovendo
rinascere gli stessi individui. Tale pensiero fu conservato nel
neoplatonismo di Plotino (III secolo .d. C) e della sua scuola, sino
a Proclo (V secolo) .
Nessun commento:
Posta un commento