Che cosa faceva Dio prima di creare l'universo? Si annoiava da solo? La filosofia ha sempre inventato soluzioni fantasiose per i credenti. La creazione del mondo dal nulla fu inventata dal filosofo ebreo Filone alessandrino, che nacque ad Alessandria d'Egitto ma non mise mai piede in Palestina. Dagli ebrei ortodossi è considerato un eretico, ma non per creazione dal nulla (che non è in contrasto con il Genesi) ma per l' influenza che subì dal neoplatonismo. Per Platone (come per tutti i filosofi greci) la creazione dal nulla era inconcepibile, fuori della ragione. Il Demiurgo di Platone (luogo delle idee eterne e principio ordinatore del mondo) è coeterno con il mondo. Da Platone sino ai neoplatonici Plotino e Proclo Dio è trascendente rispetto al mondo, coeterno con Dio, l'Uno di Plotino, da cui emanano l'Intelletto (anch'esso trascendente) e l'Anima del mondo che è trascendente ed immanente rispetto al mondo. Come si vede il cristianesimo è nato dalle radici neoplatoniche nel concepire la trinità, corrispondente alla triade neoplatonica. Il neoplatonismo è caratterizzato dalla dottrina della reincarnazione (prima si muore e prima ci si reincarna, scrisse Plotino. E la reincarnazione non riguardava solo l'uomo, a causa della circolarita tra l'Uno e l'Anima del mondo. Con il cristiansimo purtroppo si perse biblicamente la circolarità tra uomo e natura. Ma di fronte alla coeternità di un Dio trascendente e tuttavia coeterno con il mondo fu logico pensare che Dio non fosse trascentente ma immanente al mondo. Da qui un'altra soluzione fantasiosa, che pecca maggiormente di incoerenza per le difficoltà che ne conseguono. Anche Giordano Bruno, pur martire della libertà di pensiero, non essendosi fermato nemmeno di fronte al rogo, non capì che il suo immanentismo andava incontro a difficoltà logicamente insuperabili. Non lo capì nemmeno il pur grande filosofo ebreo ateo Spinoza. Grande per aver demolito per primo tutti i libri della Bibbia con una spietata analisi storico-filologica. Si superano tutte le difficoltà lasciando perdere Dio e tutte le pseudo soluzioni filosofiche. Si torni a Parmenide: l'essere è e il non essere non è. Infatti il non essere non può essere nemmeno pensato. Gli scienziati non si pongono il falso problema dell'origine dell'universo. Esso è. E basta. Dunque è eterno. Nulla si crea e nulla si distrugge aveva già detto Eraclito. Poi Lavoisier ne fece il principio fondamentale della chimica moderna. Nonostante rimanga irrazionalmente la domanda: perché l'essere invece del nulla?
Traggo quanto segue dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Traggo quanto segue dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Non ci risulta che gli studiosi di Spinoza
abbiano mai riscontrato nel suo pensiero
una grave contraddizione che dà luogo ad uno Spinoza schizofrenico, che, da una
parte, privilegia un’immagine di Dio come Mente – per cui solo l’uomo,
partecipe della mente divina, parteciperebbe della natura divina e della sua
eternità – mentre, dall’altra, identifica Dio anche con la natura. Ma con una
natura che Dio stesso disprezzerebbe, disprezzando dunque se stesso, considerando che il Dio di Spinoza ama
soltanto gli uomini e abbandona gli animali al diritto naturale basato sul
diritto della forza, giustificando, d’altra parte, e contraddittoriamente,
anche tutte le guerre tra gli uomini in quanto nascenti da un “difetto di
conoscenza”, tale da “non conformarsi
alla nostra conoscenza filosofica” (Epistola XXIX, Epistolario, Einaudi 1974). Inoltre, se la mente umana è partecipe
della mente divina, come parte del tutto, allora dove risiederebbe la coscienza
del sé divina se Dio si identifica con la natura? Dio sarebbe inferiore
all’uomo, essendo privo di autocoscienza, e la parte sarebbe migliore del
tutto. Questa osservazione smaschera il maggiore imbroglio della metafisica di
Spinoza, che non è stato rilevato nemmeno dalle pur analitiche e documentate Letture spinoziane (Carocci 2003) di
Nino C. Molinu, che ha voluto salvare Spinoza dalle giustificate accuse degli
animalisti scrivendo che Spinoza
“intende collocare adeguatamente nell’ordo
rerum quanto per deficienza umana tarda ad elevarsi al livello dell’ordo idearum” (p. 168). Ma se i due
ordini debbono corrispondere in Dio, allora deve corrispondere nella sua mente
(ammesso che si sappia dove sia), ed essere razionale, anche il diritto del più
forte che vige in natura, secondo Spinoza, che ha confuso il diritto naturale
alla sopravvivenza con il diritto del più forte. Così Dio è sia la “sana
ragione” utilitaristica dello stato di
natura, in cui vige il diritto del più forte, sia la “vera ragione” che opera
nello Stato con “iI culto della giustizia e della carità” (Tractatus theologico-politicus, cap. XIX). In realtà il Dio di
Spinoza è rimasto un dio dalla doppia faccia, di cui una è la faccia del dio
ebraico che dà all’uomo, in quanto mente, il dominio sulla natura, per cui la
concezione spinoziana è rimasta cartesianamente antropocentrica ed è fuori
luogo proporre una “concezione del Deus
sive natura ecologicamente rivisitata” (Molinu, op. cit., p. 171). Il dio
ebraico rispunta in Spinoza a causa della subordinazione della ragione alla
potenza di Dio, non vincolato, come il Dio cristiano, dalla razionalità del Logos greco. Come è stato evidenzoiato
da Sergio Landucci (I filosofi e Dio,
Laterza 2005, pp. 167 sgg.), tale aspetto del Dio spinoziano derivava, nei
precedenti Cogiata metaphysica (Opera, I, pp. 266) di Spinoza, dal
richiamo al Dio cartesiano, che è superiore,
nella sua onnipotenza, anche alle verità di ragione, che dipendono
dall’esistenza di Dio. Le verità di ragione sono necessarie “respetu decreti
Dei”, cioè per decreto divino,come se fossero sue creature. Ma da ciò, osserva
Landucci, conseguiva cartesianemente, che rispetto a Dio, non vi era differenza
tra verità di ragione e verità di fatto, rientrando entrambi nei possibili,
dipendenti dall’onnipotenza di Dio. Al contrario, nell’Etica, le verità di ragione hanno una necessità logica che non può
dipendere dalla volontà (o decreto) di Dio, che rimane causa delle verità di ragione solo nel senso che esse si
identificano con la natura di Dio, che pertanto è da esse vincolato. Ma da ciò,
osserva Landucci (p. 172) conseguiva nell’Etica
– conservando in senso anticartesiano l’intenzione cartesiana di equiparare
(rispetto a Dio) le verità eterne e il mondo creato (in quanto entrambi
creature di Dio), e perciò contingenti - che anche gli eventi del mondo
diventavano necessari (eterni) e vincolavano anch’essi Dio. Ma nel precedente Trattato teologico-politico, successivo
ai Cogitata, “le leggi univerali
della natura…non sono se non decreti eterni di Dio”, con una confusione
dell’intelletto con la volontà: “chiamiamo volontà e decreto di Dio ciò stesso
che prima chiamavamo suo intelletto” (cap. IV). Spinoza ha certamente voluto evitare l’immagine
antropomorfica del dio ebraico, come scrive Landucci (p. 176), ma il fatto che
egli specifichi che i decreti di Dio sono eterni non ne cancella l’immagine,
con la conseguente subordinazione della ragione all’onnipotenza.
In
effetti, il secondo imbroglio metafisico spinoziano – dopo l’imbroglio di un
Dio senza coscienza, essendo la natura - consiste nell’avere fissato le specie,
e le singolarità in esse esistenti, nel tempo portandole, come Plotino (ma
senza la circolarità plotiniana tra Uno e Anima del mondo), dentro la mente
divina come se fossero idee matematiche e leggi della fisica, prescindendo
dall’evoluzione casuale dell’universo
e della vita. In questo modo, come rilevò Lovejoy (La grande catena dell'essere (Feltrinelli, pp. 160-64), si
attuava il principio di pienezza traducendo l’ordine temporale in un ordine
logico. Da qui il determinismo del tutto antiscientifico di un Dio che giustifica tutto a posteriori, essendo buono
per tutte le stagioni e che rende il pensiero di Spinoza, sotto questo aspetto,
del tutto inutilizzabile. Il preteso rigore geometrico dell’Ethica serve soltanto a nascondere insanabili contraddizioni. La
follia antropocentrica di Hegel fu almeno coerente nell’identificare Dio con
l’autocoscienza a cui lo spirito assoluto perveniva con la sua filosofia. La
follia antropocentrica di Spinoza manca anche di coerenza avendo lasciato Dio (sive Natura) senza coscienza ed
autocoscienza, e per di più odiatore di se stesso in quanto Natura.
Da
Geometria delle passioni (Feltrinelli
1991) di Remo Bodei risulta uno Spinoza filosofo della coerenza, ma perché appiattito
sulla vecchia immagine del saggio che deve governare le passioni e non farsi
dominare da esse, senza che vengano rilevate le tante contraddizioni di
Spinoza, che nell’Etica si richiama
alla libertà del saggio, che ha come fine la securitas, la tranquillitasa
animi (Bodei, p. 164), dall’altra considera la mancanza di saggezza come
parte dell’ordine universale; nel Tractatus, da una parte, assegna allo
Stato come fine la libertà - “ciascuno per sommo diritto è signore dei propri
pensieri” (Tract. Th. Pol., XX) - per
cui il diritto naturale si autolimita in base alla ragione per unire la
Giustizia e la Carità (con la confusione tra morale e diritto) – dall’altra
giustifica uno Stato dispotico a cui si attribuisce il diritto di fare
“eseguire i suoi comandi, anche i più assurdi” (ibid., XVI), salvo il diritto
del popolo di ribellarsi ricorrendo anch’esso alla violenza; da una parte l’ordo amoris o amor Dei intellectualis, dall’altra il diritto naturale inteso
come diritto della forza, in cui rientra, incoerentemente, l’ordine naturale
divino, che giustifica tutto a posteriori. Un ordine in cui rientrano, insomma,
cani e porci (esclusi però dall’ordo
amoris!).
E
tuttavia, proprio uno degli aspetti del pensiero di Spinoza - la
corrispondenza tra mente e corpo,
essendo la mente l’idea del corpo - in contraddizione con l’altro aspetto -
l’avere privilegiato la mente di Dio per fondare su di essa l’amore intellettuadi Dio, che gli uomini,
e soltanto gli uomini, in quanto mente,
possono avere nella contemplazione di Dio quale ordine geometrico del mondo – è
stato motivo di ispirazione per il noto neurofisiologo portoghese Antonio
Damasio (Alla ricerca di Spinoza.
Emozioni, sentimenti e cervello, 2003, Adelphi 2004) che, depurando Spinoza
dell’impianto metafisico e delle sue ambiguità, l’ha ridotto a supporto della
corrispondenza scientifica tra mente e cervello, per “l’influenza del corpo
nell’organizzazione della mente” (p. 245). L’Etica di Spinoza, scrive Damasio, può avere ancora un significato
nel senso che in essa “Spinoza intuì l’esistenza di quella saggezza
neurobiologica innata e racchiuse tale intuizione nelle sue proposizioni sul conatus, cioè nel concetto secondo cui,
necessariamente, tutti gli organismi
viventi compiono uno sforzo di autoconservazione senza averne
consapevolezza…Quando le conseguenze di tale saggezza naturale vengono
registrate nel cervello ne derivano i
sentimenti, componenti fondamentali della nostra mente…(che) possono guidare un
tentativo di autoconservazione deliberata… (con) un ontrollo
volontario sulle emozioni automatiche. L’evoluzione sembra aver assemblato i
meccanismi cerebrali dell’emozione e dei sentimenti procedendo per gradi” (p. 103). Demolendo la
dicotomia cartesiana che veniva conservata da Spinoza nella distinzione tra
mente e corpo (due distinti attributi di Dio) Damasio ha capito che “un
conflitto permea tutta l’Etica. In
fondo, il pari statuto che Spinoza attribuisce a mente e corpo funziona solo
nella descrizione generale” (p. 257). Se Spinoza avesse riconosciuto - come
riconoscerà Leibniz nella sua concezione
evoluzionistica della Terra e della vita, secondo il principio natura non facit saltus - un grado di
pensiero, pur privo di autocoscienza e di amore intellettuale di Dio, anche
negli altri animali, oltre che nell’uomo, il suo sistema di non sarebbe stato
così incoerente, e non sarebbe ricaduto nell’antropocentrica dicotomia
cartesiana tra pensiero e materia. E’ per Damasio L’Errore di Cartesio (Adelphi, 1995).
Damasio
ha mancato di rilevare la confusione in cui incorse Spinoza, nell’avere
precedentemente (Tractatus
theologico-politicus, cap. XVI) definito il diritto naturale come diritto
della forza – scrivendo che “il diritto
di ciascuno fin là si estende dove può giungere la sua particolare potenza”,
cosicché “anche l’ignorante e il violento hanno il supremo diritto su tutto ciò
che il desiderio loro consiglia” -
invece di definirlo collegandolo coerentemente al concetto di conatus, che esprime “lo sforzo col
quale ciascuna cosa si sforza di perseguire nel suo essere” (Ethica, III, prop. VII) , cioè la tendenza naturale di ogni organismo alla
sua autoconservazione, che pone dei limiti naturali alla violenza. Egli,
invece, confuse la violenza interspecifica, funzionale alla conservazione della
specie, oltre che dell’individuo, nella
catena alimentare, con la violenza tout
court, che nell’uomo supera i limiti naturali nella violenza interspecifica diventando
anche, innaturalmente, intraspecifica
per fattori culturali, in quanto
supera il limiti del conatus o sforzo
naturale di ogni organismo teso a conservare il suo essere. E questo è il diritto naturale come sempre l'ho concepito, andando oltre l'antropocentrismo del giusnaturalismo moderno che lo concepì come diritto della ragione, cosicchè gli animali non umani non avrebbero alcun diritto. Le religioni hanno rafforzato questa nefasta concezione.
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