mercoledì 26 aprile 2017

ANCORA SUL 25 APRILE. EFFERATEZZE DI ALCUNI PARTIGIANI

SEMPRE DA UN MIO LIBRO
Ricordiamo quanto il Peggiore (Togliatti) fece a danno dell'Italia dopo essere tornato dalla sua vera patria, l'Unione Sovietica. Questo doppiogiochista da una parte aderì al governo Badoglio su direttiva di Stalin, in un momento storico in cui, sulla base degli accordi di Yalta, l'Europa era stata già divisa in due, con l'esclusione dell'Italia dal blocco sovietico, dall'altra nei giorni 12 e 13 settembre 1943 aveva convenuto con il partito comunista croato che l'Istria (compresa Trieste) dovesse far parte della Croazia, facendo presente che sarebbe stato utile per la causa comunista che Tito occupasse anche la Venezia Giulia. A tal fine ritenne opportuno che il movimento partigiano dell'Istria  passasse sotto il controllo del partito comunista croato in cambio del riconoscimento dei comunisti italiani come rappresentanti della minoranza italiana all'interno della Jugoslavia. Per questo osteggiò qualsiasi tentativo di pacificazione con i fascisti voluta dalla maggioranza del CLN e promosse una campagna di attentati terroristici, rifiutando che i comunisti affiancassero le poche unità regolari rimaste dell'esercito regio e gli eserciti alleati. Delle due divisioni italiane che operavano  nella Venezia Giulia (la Osoppo e la Garibaldi Natisone) la seconda (di comunisti) decise di passare agli ordini del IX Korpus sloveno. Nel contesto di queste direttive dei comunisti va posta la trappola in cui caddero alcuni partigiani bianchi sul monte Canizza (al di qua del confine attuale della Venezia Giulia), massacrati da quelli comunisti comandati da Mario Toffanin, detto Giacca. Gli autori della carneficina, identificati nel numero di 37, furono condannati dopo la guerra a 800 anni di carcere. Ma sopraggiunse poi l'amnistia voluta dal ministro della giustizia Togliatti, non tanto per salvare i fascisti, quanto per salvare i comunisti. Ma Giacca e il suo compagno Vanni, che erano già fuggiti in Jugoslavia e poi in Cecoslovacchia, furono condannati a 30 anni. Il secondo fu graziato nel 1959 e il primo, maggiore responsabile, fu graziato nel 1978 da Pertini, mandante di plurimi assassini.[1]         
  Erede degno della antitalianità del comunismo è oggi il capo dello Stato Giorgio Napolitano, che aveva 22 anni nel 1946 e doveva sapere delle foibe istriane. Ma non se ne poteva parlare allora nemmeno da parte di altri partiti, facenti parte dei primi governi di coalizione, né se ne parlò successivamente  per evitare di tenere aperta una ferita cocente, non esasperando il conflitto con i comunisti ed evitando di compromettere i rapporti di vicinato con la Jugoslavia di Tito, scomparso il quale venne fuori la verità. In nome dell'unità nazionale dei partiti non fu contrastata in sede internazionale, subito dopo la guerra, la cessione dell'Istria alla Jugoslavia, già occupata dalle armate comuniste, e i 300.000 profughi istriani vennero accolti come stranieri in Italia, con fastidio e sopportazione. Con lacrime da coccodrillo Napolitano si accorse dopo molti decenni dell'esistenza delle foibe. Ma non si pentì mai di avere plaudito, insieme con tutta la dirigenza del P.C.I., alla repressione della rivolta ungherese che causò 20.000 morti. 
   La mattina stessa della sua elezione a capo dello Stato gli inviai una racc. A. R. in Senato, scrivendogli: “Lei con soli 543 voti mi rappresenta un cazzo! Lei nel 1956, sentendosi più sovietico che italiano, plaudiva con Togliatti ai carri armati sovietici a Budapest. Questo è un marchio di infamia. Il passato non può essere cancellato. Ci si può redimere nella coscienza, ma non – e per ragioni di opportunismo politico – come figura pubblica. Si dovrà, comunque, fare la verifica dei voti nulli per sapere se la Sua nomina sia legittima. Anche per questo, se Lei avesse avuto dignità, non avrebbe dovuto accettare la nomina. Si consideri, al massimo, presidente di metà degli italiani”.            
 
   Analizzo la sconcertante sentenza della Cassazione (Sezione I penale, n.1560/99) che è un vero pasticcio di contraddizioni, scaturenti dal tentativo scoperto di salvare gli assassini, protetti dal clima politico-ideologico  da cui nacque l'identificazione degli attentati dei partigiani come azioni di guerra. La sentenza riprende nel 1999 in esame l'attentato di via Rasella in conseguenza del fatto che i parenti, sia quelli dei civili vittime dell'attentato di via Rasella, sia quelli delle vittime della rappresaglia, avevano aperto un procedimento contro i tre principali e citati manovali dell'attentato. Il P.M aveva presentato richiesta di archiviazione, formulata sulla base della considerazione che l'attentato ricadeva nell'amnistia disposta con D.P.R. del 5 aprile 1944 n. 96. Il G.I.P. aveva accolto la richiesta ma soltanto dopo avere ordinato un supplemento di indagini per cambiare le motivazioni dell'archiviazione. Non si trattava di applicare l'amnistia ma di stabilire se l'attentato fosse da ritenere lecito in quanto da considerarsi come azione di guerra (con la conseguente caduta dell'accusa mossa contro gli attentatori). Il G.I.P. ritenne che l'attentato  non fosse un'azione di guerra, ma, pur essendo esso condannabile, ritenne di dover archiviare il procedimento perché esso non era più punibile in base la Decreto L.vo luogotenenziale n.194 del 1945 che diceva che non erano punibili “gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica”. Gli attentatori si salvarono grazie a provvedimenti successivi agli attentati. Legge ad personas. A questo punto i tre principali manovali dell'assassinio di via Rasella (i citati Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo) - non contenti né della motivazione della richiesta di archiviazione del P.M. (che faceva riferimento all'amnistia) né di quella che accompagnava la decisione di archiviazione del G.I.P., che riconosceva implicitamente che essi non fossero dei legittimi combattenti - per paura di apparire veramente quali essi erano, degli assassini, impugnarono l'ordinanza di archiviazione nel suo contenuto. La sentenza della Cassazione, che ho esaminato interamente, appare un cumulo di affermazioni del tutto illogiche, e perciò disoneste. Partendo dalla premessa che l'archiviazione poteva essere prevista, non per sopravvenuta amnistia o sopravvenuta legge (il citato decreto n.194 del 1945), non potendo questa avere valore retroattivo in sede penale se il reato di strage fosse stato confermato (secondo la tesi del G.I.P.), la Cassazione non aveva altra via di uscita per salvare gli attentatori se non quella di considerare l'attentato come una normale azione di guerra, pur sapendo che nell'attentato erano morti anche dei civili, tra cui un bambino. Pertanto confermò l'archiviazione del G.I.P. ma ne cambiò il contenuto considerando che già le Sezioni Unite Civili della Cassazione  (con sentenza 19 luglio 1957, n. 3053) avevano ritenuto che le organizzazioni partigiane non fossero da considerarsi clandestine e prive dei requisiti previsti dalla Convenzione dell'Aja del 18.8.1907 e che pertanto tali organizzazioni fossero riconducibili allo Stato italiano. Questa cervellotica conclusione partiva dalla premessa che “il tema della liceità dell'attentato...non poteva essere risolto con riferimento al decreto luogotenenziale n.194 del 1945, emanato successivamente alla “rappresaglia” in questione...qualificata con effetto retroattivo 'azione di guerra'...Ma ciò posto in evidenza non ne deriva affatto la non riconducibilità allo Stato italiano, per quanto si riferisce al coinvolgimento nell'attentato anche di vittime civili, dell'azione  dei partigiani”. In sostanza, pur essendosi ritenuta non applicabile con effetto retroattivo il decreto del 1945, tuttavia gli attentatori non erano punibili perché il Governo legittimo (naturalmente quello facente capo al fuggiasco governo regio di Brindisi) sin dal 31 ottobre 1943 “aveva incitato gli italiani a ribellarsi e a contrastare con ogni mezzo l'occupazione tedesca”, e che ciò era stato già rilevato dalla citata sentenza civile delle Sezioni Unite. A corredo di questa conclusione la sentenza del 1999 in esame faceva riferimento alla sentenza (25.10.1952, n.1711) del Tribunale Supremo Militare  che, riconoscendo illegittimo l'esercizio della rappresaglia in quanto l'azione di via Rasella doveva essere qualificata nella sua linearità come “atto di ostilità a danno delle forze militari occupanti, commesso da persone che hanno la qualità di legittimi belligeranti”, rovesciava la sentenza (27.7.1948, n.631) emessa contro Kappler dal Tribunale Militare di Roma che, pur avendo riconosciuto l'illegittimità della rappresaglia – ma solo per violazione del principio di proporzionalità (ne erano stati uccisi 15 in più)[2] - aveva negato la natura di legittimità azione di guerra dell'attentato.
  Con ciò la Cassazione non si avvide, o fece finta di non avvedersi, delle conseguenze aberranti. In primo luogo la Cassazione si faceva complice dell'allora “governo” italiano nel riconoscere come teatro di guerra una strada in cui vi furono delle vittime civili. In secondo luogo si sarebbero dovute addebitare all'inconsistente governo regio anche tutte le rappresaglie attuate dai partigiani, facendo finta che il sedicente CLN prendesse ordini dal “governo” regio e che i vari gruppi di partigiani non operassero anche separatamente tra loro con dei capi che si erano autoinvestiti del titolo di comandanti delle rispettive bande. Dovrebbe addebitarsi al “governo” italiano anche la vigliacca uccisione di Giovanni Gentile, di uno che, pur non avendo mai rinnegato il suo passato di fascista, si batté sino all'ultimo per una riconciliazione nazionale, osteggiata dai partigiani comunisti. Gli assassini, appartenenti ai Gap toscani, tenendo dei libri sottobraccio per essere creduti degli studenti, si avvicinarono all'auto che era appena arrivata di fronte alla villa di Gentile, che ingenuamente aprì il finestrino per parlare con essi. E fu ucciso con spietata freddezza. Anche questa fu un'azione di guerra attuata da legittimi belligeranti? E l'uccisione di Gentile è soltanto il più illustre esempio di ciò che molte bande partigiane intendevano come “lotta di liberazione”. La conseguenza fu che anche con questa sentenza politica fu negato il risarcimento dei danni ai parenti delle vittime dei partigiani per non dover riconoscere che lo Stato repubblicano, erede di quello regio, avrebbe dovuto farsi carico di tale risarcimento. Ma avrebbe dovuto riconoscere di essere nato, non da una guerra di liberazione, ma da una guerra persa.
   La vergognosa sentenza della Cassazione ha voluto ignorare una sentenza del Tribunale Supremo Militare del 26 aprile 1954, che, mentre non riconosceva un potere sovrano al pur legittimo governo di Badoglio, considerando che l'Italia del sud era di fatto sotto il controllo degli alleati anglo-americani, da cui riceveva gli ordini, riconosceva che il governo della R.S.I., nonostante il forte inserimento delle forze armate tedesche, conservava la posizione giuridica di un governo di fatto con le sue indipendenti istituzioni e con le sue leggi, su cui non aveva giuridicamente alcun potere il governo del sud Italia. Conseguentemente lo stesso Tribunale riconosceva la qualità di belligeranti regolari ai combattenti della R.S.I. e a quelli regolari dipendenti dal governo del sud, mentre non riconosceva la stessa qualità ai partigiani.           
  Dice la sentenza del Tribunale Supremo Militare che i partigiani “non potevano essere trattati da belligeranti, ed essendo certi che l'avversario - appunto per difetto di tale loro qualità - li avrebbe spietatamente perseguiti. Infatti, i combattenti delle truppe regolari italiane, se fatti prigionieri, non subivano le repressioni dei plotoni di esecuzione; le subivano, invece, i partigiani che non potevano farsi usbergo della qualifica suddetta...Al riguardo non vale argomentare che i partigiani fiancheggiavano le truppe regolari italiane, e che facevano capo ai comandi italiani e alleati, per poi dedurne che avevano dei capi responsabili; è necessario, invece, per risolvere la questione, riferirsi esclusivamente alle formazioni partigiane, considerate per se stesse, per quello che erano e per il modo con cui si manifestarono, senza risalire ai comandanti superiori delle Forze Armate, ben noti e riconosciuti sotto il loro vero nome".
  La sentenza riconosce come legittimi belligeranti non tutti i partigiani, ma solo quelli che avessero avuto riconosciuta tale qualifica ai sensi del D.Lgs.C.P.S. 6 settembre 1946, n. 93 (Equiparazione, a tutti gli effetti, dei partigiani combattenti ai militari volontari che hanno operato con le unità regolari delle Forze armate nella guerra di liberazione).
  Il 28 giugno 1997, pur non avendo ancora fatto specifiche letture sull'attentato di via Rasella, mi lasciai guidare dall'evidenza dei fatti, anche sulla base del ricordo del racconto fattomi da mio padre, e inviai alla Procura presso il Tribunale penale di Roma una mia denuncia per strage contro Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi. In essa scrivevo: “Non si può nella fattispecie parlare di azione di guerra, anche perché dalle notizie in mio possesso pare che la pattuglia di soldati tedeschi fosse disarmata. Trattasi pertanto di azione proditoria che è all'origine della rappresaglia tedesca prevista nel codice internazionale di guerra. Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Pasquale Balsamo, nonché i loro complici, sono dunque i veri responsabili della morte di coloro che furono uccisi alle fosse ardeatine, e la giustizia attende ancora che i veri responsabili rispondano del loro atto criminale. P.S. La gravità dell'atto criminale descritto è tanto maggiore in quanto i suoi responsabili non si costituirono quando il comando tedesco chiese che si presentassero per evitare la annunciata rappresaglia. A chi indegnamente si fregia di una medaglia d'oro[3] dovendo avere sulla coscienza la vita di centinaia di innocenti contrappongo la luminosa figura di Salvo D'Acquisto che si immolò innocente per evitare una rappresaglia. Non può essere teatro di guerra una strada cittadina dove rimangono uccisi dei civili e persino un bambino”. Mi fu risposto negativamente. Ma, non riuscendo a trovare oggi tra le mie carte la risposta, non posso dire se essa sia stata di archiviazione  per prescrizione o per insussistenza del reato. D'altronde, non sapevo ancora che vi fossero ancora dei procedimenti in corso contro i soprannominati assassini.
  Il quotidiano Il Giornale dovette subire in 10 anni ben quattro condanne per diffamazione per avere contrastato la versione dell'attentato di via Rasella come azione di guerra. L'ultima quella da parte del Tribunale di Monza, sezione di Desio (17 marzo 2009), dopo la terza condanna del 7 agosto 2007 da parte della Cassazione),[4] e il quotidiano Il Tempo, su querela della figlia del Bentivegna, subì anch'esso una condanna (il 22 luglio 2009) da parte della Cassazione per avere definito “massacratori” i responsabili dell'attentato. Eppure nei primi due gradi del giudizio il quotidiano romano era stato assolto, e nel settembre del 2006 un altro tribunale aveva stabilito il non luogo a procedere nei confronti del segretario romano di Fiamma Tricolore Giuliano Castellino per avere anch'egli definito “massacratore” il Bentivegna.
   Questo netto contrasto tra tribunali civili, tra tribunali penali e gli stessi tribunali militari dimostra che giustizia non è stata mai fatta per il prevalere di interessi politici. Sino a quando si continuerà a trattare la storia sul piano di una asserita superiorità etica (della parte vincitrice), invece che su quello strettamente giuridico, si continuerà a sostituire la retorica ideologica della “lotta di liberazione” all'analisi storica dei fatti.  
   Mi sono voluto addentrare nella considerazione di questi tragici fatti perché voglio lasciare della mia vita una testimonianza, se non di verità, almeno di ricerca della verità, perché per tutta una vita sono stato costretto a subire la retorica del 25 aprile, che non può più essere considerata una festa se non da coloro che ancora vogliano partigianamente trovare il male solo da una parte e giustificare la nascita di una Repubblica che non nacque da una guerra di liberazione, ma da una guerra persa, al di là del giudizio che di essa possa essere dato, se sia stato meglio vincerla o perderla.

Si può dire che il nazismo sia stato la rovina del fascismo perché trascinò l'Italia in guerra pur non essendo essa preparata. E questo dimostra come il fascismo non avesse più altre aspirazioni di guerra nel 1939. A sua volta proprio l'impreparazione dell'Italia fu la rovina del nazismo in guerra perché lo costrinse ad intervenire ogni volta per salvare gli impreparati eserciti italiani che, mandati allo sbaraglio da Mussolini, causarono l'intervento tedesco prima in Grecia (dove la Germania dovette intervenire per salvare l'impantanato esercito italiano pur non avendo in Grecia alcun interesse strategico di guerra) e poi in Africa, dove scriteriatamente il governo fascista mosse guerra all'Inghilterra invadendo l'Egitto pur non avendo colà alcun interesse, con la conseguenza di una distrazione in Africa di un esercito di salvataggio tedesco, sottratto alle operazioni di guerra in Europa e con la sconfitta evitabile di El Alamein. Bisogna riconoscere che la Germania non si sottrasse mai ai doveri di alleanza con l'Italia, pur ricavando da essa soltanto conseguenze negative. Se l'Italia fosse rimasta neutrale la Germania dopo l'8 settembre non avrebbe avuto bisogno di aprire un nuovo ed inutile fronte di guerra in Italia, e soltanto per salvare il fascismo, pessimo alleato.
 

    Due mali si allearono fra loro. Ma la cura contro questi due mali fu la vittoria di un altro male, quello di un'altra dittatura, dell'Unione Sovietica di Stalin. Mali che nascono da governi sorretti da ideologie ispirantisi a certezze che generano opposti fanatismi.

[1]  Sulla politica terroristica del P.C.I cfr. Jack Greene, Il principe nero. J.V. Borghese e la X mas, Mondadori 2007;  Carlo Mazzantini, I balilla andarono a Salò, op. cit.; Arrigo Petacco, L'esodo. La tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mondadori 2000. Sulla guerra civile cfr. anche Saul Bellow, La resa dei conti, Mondadori 200; Giorgio Pisanò, La generazione che on si è arresa, C.D.L. ed. 1993; Marco Picone Chiodo, In nome della resa, Mursia 1990.  
[2]  In origine l'ordine partito da Berlino era di ucciderne 320, ma poi arrivò la notizia che era deceduto un ferito, che portò il numero delle vittime del battaglione altoatesino a 33. Dunque con la morte di 335 vittime della rappresaglia  ne erano stati uccisi 5 in più.  
[3]  Allora non sapevo che soltanto la pluriassassina Capponi avesse avuto la medaglia d'oro in relazione ad altre sue imprese da terrorista.
[4]   V. il giusto commento di Massimo Fini su “Quella disparità di giudizio tra via Rasella e la strage di Nassyria” (su Opinione del 17 agosto 2007, riportato in www.ladestra.info. V. inoltre di Pierangelo Maurizio “Via Rasella. Un mistero che dura sessant'anni” (Il Giornale, 12.08.2007).

1 commento:

Anonimo ha detto...

togliatti e nilde iotti andavano fucilati in parlamento.

Oggi vanno fucilati gran parte degli italiani, sia di destra che di sinistra