Ho scritto apposta un titolo fuorviante. Se è malato, non vale l'obiezione che sia un supercriminale. Si è obiettato che egli non si sia mai pentito. Ma il pentimento riguarda l'etica e non il diritto. Al criminale Riina deve essere riconosciuto, al contrario, una coerenza con tutto il suo passato. Ha dimostrato di non essere un finto pentito di Stato per avere agevolazioni previste dalla legge. Ha dimostrato una coerenza nel male e di non essere stato un opportunista pronto a chiedere perdono. Ha dimostrato nella sua criminalità senza pentimenti di meritare il riconoscimento della dignità del male, che non invoca alcun perdono per la sua criminalità. Ma se è malato la questione si pone sul piano del diritto e non dell'etica. Anche alla luce della Costituzione che all'art. 3 dice che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge. Non distingue tra onesti e criminali. E l'art. 32 della Costituzione dice: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individio...". Non distingue tra liberi e carcerati.
Dunque anche Riina ha diritto alla tutela della sua salute. E si sa che in carcere non può essere tutelata la salute. La questione è un'altra. Totò Riina non doveva essere condannato all'ergastolo. Doveva essere condannato a morte. In questo modo non avrebbe avuto bisogno oggi di essere curato. In questo modo gli si sarebbe impedito di continuare a comandare anche dal carcere. Perché questi criminali debbono essere eliminati senza pietà. Anzi, la pena di morte è una condanna più lieve rispetto all'ergastolo a vita. Traggo ciò che segue dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Dunque anche Riina ha diritto alla tutela della sua salute. E si sa che in carcere non può essere tutelata la salute. La questione è un'altra. Totò Riina non doveva essere condannato all'ergastolo. Doveva essere condannato a morte. In questo modo non avrebbe avuto bisogno oggi di essere curato. In questo modo gli si sarebbe impedito di continuare a comandare anche dal carcere. Perché questi criminali debbono essere eliminati senza pietà. Anzi, la pena di morte è una condanna più lieve rispetto all'ergastolo a vita. Traggo ciò che segue dal mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Rousseau nel Contratto sociale (1762) considera
la pena di morte entro una concezione retributiva sul presupposto che il
cittadino è obbligato ad obbedire alla volontà generale (della maggioranza)
quale condizione della conservazione del patto sociale, che implica la
conservazione della vita dei contraenti. Ma chi vuole conservare la vita con il
contributo degli altri deve essere anche disposto a morire dal momento in cui
cessa di essere membro della società perché ne è divenuto nemico con il suo
delitto. La conservazione della società in tal caso è incompatibile con quella
del criminale.
Scrive Rousseau nel Contratto sociale che “è appunto per non
essere vittime di un assassino che noi consentiamo a morire se diventiamo
tali…Ogni malfattore diviene a causa dei suoi delitti nemico della patria;
cessa di esserne membro; a questo punto la conservazione dello Stato è
incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca”.
Ha scritto Kant: “Se poi
egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro surrogato che possa
soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una vita per quanto
penosa e la morte; e di conseguenza non esiste altra eguaglianza tra il delitto
e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale” (Metafisica dei costumi, parte II, sez.
I, nota). [1]
E Schopenhauer, utilizzando
contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello stesso Kant
(“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto nella tua persona quanto
nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto come mezzo”,
osservava, rincarando la dose, che essa era infondata alla luce della
giustificazione della pena di morte: “A quella formula ci sarebbe da obiettare
che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente, soltanto come
mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile per confermare alla legge, se
attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il suo fine”.[2] In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte dell’umanità, e
dunque la sua vita cessa di essere un fine per diventare solo un mezzo della
forza deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da qualsiasi
concezione utilitaristica della pena, come quella di Schopenhauer, che vedeva
nella pena un mero mezzo per ottenere un bene per la società. Per Kant è lo
stesso delitto che richiede una proporzionata pena come imperativo categorico
non potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio che serva da
deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte si giustifica sulla base
della considerazione che l’uomo, anche quando è un criminale, non può mai essere
considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe richiedere per sé la
pena di morte per riscattarsi come uomo.
Verso la fine del ‘700
Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi
del diritto penale (1791), considerando che il diritto penale trova la sua
giustificazione nella difesa della società e nella salvaguardia dei cittadini,
ritenne che la pena giusta fosse quella che meglio garantisse la conservazione
dei cittadini. Pertanto qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria sulle pene capitali (1830)
scrisse che “non si tratta più di vedere se esista il diritto di punire sino
alla morte: ma bensì se esiste il bisogno di esercitare questodiritto…Chi
commette un delitto commette un’azione senza diritto…Dunque il male irrogato
per difesa necessaria al facinoroso è un fatto di diritto. Dunque se questo
male dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso, questa morte sarebbe
data con diritto…Voler poi negare indefinitivamente questo bisogno sarebbe lo
stesso come dire in chirurgia non potersi dar il caso di dover fare
l’amputazione di un membro”. Romagnosi riteneva
che la galera, pur senza lavoro, fosse per molti non un castigo ma un
premio.
Hegel vide nel delitto il
prevalere della volontà del singolo sulla volontà universale, per cui la pena
consiste nel rovesciare la volontà del reo restaurando la volontà universale,
che non significa recuperare il delinquente.[3]
In Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Hegel espose, come Kant,
una concezione retributiva della pena, che ha la funzione di restaurare
l’ordinamento violato. Criticando anch’egli, come Kant, Beccaria, ricononobbe
allo Stato il diritto di applicare la pena di morte, giacché “l’annientamento
del diritto è taglione, senza per questo essere vendetta”.[4]
L’abolizionista si trova in
compagnia di Robespierre, che, prima di cambiare idea pochi anni dopo, scriveva
nei Discorsi sulla pena di morte, avvalendosi
dell’argomento del possibile errore giudiziario, che la pena di morte era un
eccesso di severità, e precisava: “un vincitore che tagli la gola ai suoi
prigionieri è definito un barbaro”. Egli
si poneva contro il Codice penale approvato dall’Assemblea costituente nel
1791, che riconfermava la pena di morte prevista dalle leggi dell’ancien regime. L’abolizionista si trova
in compagnia anche dell’anarchico Max Stirner, che nell’opera L’unico e la sua proprietà [5]
concepiva il diritto come come legato all’arbitrio del singolo, sì da poter
scrivere: “Se tu riconduci il diritto alla sua origine, in te, esso diventerà
il tuo diritto, e sarà giusto ciò che per te è giusto”. La conseguenza è che
per Stirner il crimine esiste soltanto perché esiste il dominio della legge che
si ammanta di sacralità, e non viceversa, e la punizione si giustifica soltanto
perché lo Stato si arroga il diritto di esercitare una vendetta chiamata punizione.
Si può vedere come il ragionamento degli abolizionisti nasconda le stesse
premesse di una concezione anarchica dello Stato, il cui diritto di punire si
fonderebbe unicamente su una pretesa sacralità della legge. Stirner non si
avvide che, partendo dalla sua concezione anarchica dell’individuo, a difesa
dell’unicità della vita, intesa come espressione di solo egoismo, avrebbe
dovuto ritenere normale l’omicidio, e innaturale l’intervento della legge a
difesa della vita dello stesso egoista. L’assolutizzazione dell’individuo porta
a giustificare, contraddittoriamente, il suo annullamento sulla base di una
concezione della legge intesa come espressione della forza, e non come difesa
del diritto naturale all’autoconservazione.
Il famoso Dei delitti e delle pene (1764) di
Beccaria nell’escludere la pena di morte esprime una concezione
contrattualistica e utilitaristica della legge,[6]
e pertanto non può che escludere una concezione retributiva della pena. Secondo
Beccaria dal contratto sociale non deriva il diritto dello Stato di applicare
la pena di morte perché gli uomini non possono avere contrattato ciò, dando
agli altri il potere di ucciderli. Ma si noti come l’affermazione di Beccaria
sia, oltre che illogica, soltanto una petizione di principio. Infatti gli
uomini che avessero escluso la pena di morte sin dalla fase del contratto
sociale per timore di essere uccisi avrebbero ammesso di aderire contraddittoriamente
(perché in malafede) al contratto, avendo già d’allora intenzione di uccidere, mentre il contratto
nasceva perché nessuno potesse più rimanere vittima degli altri. Chi non avesse
avuto intenzione di uccidere non avrebbe avuto paura di richiedere allo Stato
la pena di morte, per maggiore tutela della propria vita, ma, al contrario,
l’avrebbe impedita chi avesse avuto in animo di uccidere, pur aderendo al
contratto. Perciò l’esempio di Beccaria giustifica solo la malafede.
Per Beccaria la pena ha la
funzione di distogliere gli altri dal commettere eguale reato, mentre gli è
estranea una concezione emendativa della pena, che serva al reo per redimersi.
Ma si tratta di una giustificazione logicamente insostenibile, giacché 1) o
tutti si dovrebbero sentire distolti; 2) o la pena non serve a tutti quelli che
non si siano sentiti distolti, mentre per tutti gli altri sarebbe inutile.
La pena serve soltanto a
quelli che non si sentano distolti. Ma questa è una tautologia che non spiega
alcunché.
Le argomentazioni di
Beccaria contro la pena di morte sono dunque risibili. Egli scrive: “Qual può
essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili?
Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi…Non è dunque la
pena di morte un diritto…ma è una guerra della nazione con un cittadino, che
giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere”. Quale enorme
confusione di idee! Da una parte un assassino viene considerato
moralisticamente simile alla vittima innocente, dall’altra si presenta come
negativo ciò che è positivo, che lo Stato, come in una guerra, ritenga
necessario o utile usare le armi da guerra contro il nemico. L’argomentazione
di Beccaria si rivolge contro di lui. Ma lungi da qualsiasi considerazione
filosofico-umanitaria l’illuminista Beccaria è indotto a chiedere per il
carcere perpetuo “una schiavitù perpetua! “fra ceppi o le catene”, in cui “il
disperato non finisce i suoi mali”, come, invece, con la pena di morte.
Beccaria condanna lo Stato che compra le delazioni e impone taglie: “Chi ha la
forza di difendersi non cerca di comprarla. Di più, un tal editto sconvolge
tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo vento svaniscono
nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono…Invece
di prevenire un delitto, ne fa nascere cento. Questi sono gli espedienti delle
nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un
edificio rovinoso che crolla da ogni parte”.[7] D’altra parte, Beccaria (Dei delitti e delle pene, cap. XXVII) continuò a giustificare la pena
di morte se “la morte di qualche cittadino diviene necessaria quando la nazione
ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini
tengon luogo di leggi”.
Bisognerebbe dunque
concludere che Beccaria non sarebbe oggi contrario alla pena di morte almeno
per i delitti di mafia, in cui “i disordini tengon luogo di leggi”, o
contro i trafficanti di droga, cioè di morte, siano collegati o non con la
mafia. La mafia non può essere combattuta democraticamente, ma sospendendo
nelle regioni mafiose ogni forma di rappresentanza politica, esposta localmente
ai ricatti mafiosi, e ogni forma di garanzia costituzionale nei confroni delle
famiglie mafiose, a cui soggiace anche tutto l’apparato giudiziario, dalle
guardie carcerarie ai direttori delle carceri sino ai magistrati che dovrebbero
giudicare i criminali mafiosi, i quali smetterebbero di comandare e ricattare
anche dal carcere soltanto se venissero giustiziati con la pena di morte.
Soltanto da morti non potrebbero più comandere e ordinare altre uccisioni. Si
sa quali sono le famiglie mafiose, e quando si peschi dentro di esse si pesca
sempre bene, senza andare per il sottile. Uno Stato che non voglia intendere
ciò è o buffone o connivente con questa feccia di specie soltanto
biologicamente umana. Merito principale di Beccaria è l’avere evidenziato la
necessità di “una proporzione tra i delitti e le pene”. Ma proprio tale
proporzione sarà rivendicata da Kant contro Beccaria per giustificare la pena
di morte.
Oggi nella dottrina penale
americana prevale una concezione retributiva della pena che giustifica la
posizione di Kant basata sul principio di eguaglianza. La legge del taglione (lex talionis) raccomanda di “fare agli
altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della regola aurea secondo cui bisogna “fare agli altri ciò che
vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In base alla lex talionis si ripristina l’eguaglianza
che è stata turbata dal crimine E’ questa la tesi di J. H. Reiman.[8]
In base a tale principio il crimine è un attacco alla sovranità dell’individuo
che pone il criminale in una posizione di illegittima sovranità su un altro. La
vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare la posizione del
criminale riducendone la sovranità nello
stesso grado. La vittima avrebbe avuto il diritto, ma non il dovere, di
perdonare a chi ha attentato al suo diritto naturale, ma rispettando il principio
che la vita della vittima non possa essere valutata come inferiore rispetto a
quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo (che in Italia
non esiste più) non sarebbe in accordo con il principio di umanità della pena e
dell’ipocrita funzione rieducativa di essa. E’ stato anche scritto: “Chi non
avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un processo nel quale la
vittima non può più udire la propria voce?…Ma vi è di più, chi uccide con il
suo delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo a ognuno un po’
di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo priva di una parte della sua
vitalità…L’esclusione della pena di morte per omicidio è un portato di maggiore
civiltà o non è invece il segno di una minore sensibilità morale e di una meno
chiara percezione del vero?…Chi con deliberato proposito uccide un uomo deve
essere a sua volta ucciso dalla società costituita, che non può sottrarsi al
suo obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che chi uccida non
venga a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena di carcere che
sarà mite in ragione di come saprà difendersi contro un morto”,[9]
grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo di turno pronto
a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole spesso
dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse incapace di intendere
e volere. Ma poi riacquista sempre la lucidità! Si pretende assurdamente che il
criminale si riconcili con la società senza tenere in alcun conto la vita
dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che ipocritamente o disonestamente
tengono in minor valore la vita umana, stando a difesa degli assassini. Questo
discorso vale anche per Amnesty International, che, come
direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del cuore” (Lineamenti di filosofia del diritto, pref.
): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono di avere un
cervello migliore di quello di tutti i pensatori che abbiamo citato. E, a parte
la giustizia che bisogna rendere alla vittima, anche se morta, vi è un
superiore interesse della società a liberarsi degli assassini che a ritenere
“sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita di un criminale.
T. Sellin[10]volle
dimostrare con un’indagine statistica che la pena di morte negli Stati Uniti
non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte per omicidio. Gli rispose
Isaac Ehrlich,[11]
che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre, avvalendosi di
diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il periodo 1935-69 ciascuna
esecuzione capitale aveva prevenuto il verificarsi di sette o otto omicidi in
più. Infatti il criminale, in base alle offerte di mercato, conforma la sua
condotta al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di minimizzare i costi
personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte diminuisce il
desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono argomenti utilitaristici
che non scalfiscono minimamente il principio secondo cui la vita dell’assassino
non deve valere più di quella della sua vittima. .
Chi è favorevole alla pena
di morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o non trova
spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne la giustezza perché i mass media, operando una dispotica
censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di morte sono dei barbari, che
non debbono corrompere i civili. La
condanna della pena di morte vuole essere espressione di superiorità morale, ma
è di fatto soltanto espressione di inferiorità giuridica. Da notare come
gli stessi mass media, essendo
totalmente privi di alcuna capacità o volontà di discutere sul piano razionale,
essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed emotive contro la
pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di ragione, confermino che la morale
nasce soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non trovano altro
mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la telecamera per
far vedere il condannato che soffre o l’ambiente della camera della morte,
approfittando del fatto che non vi è mai una telecamera pronta a riprendere
l’assassino quando infierisce impietosamente sulla vittima innocente. E se le
immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non verrebbero
fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità dello spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono misurarsi con il gran numero di
sostenitori della pena di morte facendo finta che non esistano o impediscono un pubblico
confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi sono anche dei
disonesti arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del progresso
civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi ha seri
argomenti contro di essi.
Sia almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di dichiarare se sia
disposto a perdonare il suo eventuale assassino, perché lo Stato non si
sostituisca alla volontà della vittima innocente.[12]
E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa anticipare il suo
aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso aggressore che
abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere. La legittima
difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita dell’aggressore non
disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno stato di
natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si capisce dunque
perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino soltanto perché
questo è riuscito ad anticipare la vittima.[13]
Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci ormai di
incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un rapinatore
uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima rischiare di farsi
uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con la loro cultura
del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare soltanto contro
qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la giustizia abbia
tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire prima di una
sentenza.
Se si prendesse spunto dal
pensiero dei filosofi esistenzialisti – che hanno mancato di trattare la
questione della pena di morte – si dovrebbe riconoscere che, essendo l’uomo,
come essi dicono, una possibilità autocostitutiva, come esistenza e non come
essenza (o specie), il valore dell’esistenza umana non è dato dal fatto di
essere umana, ma dal fatto di esprimere una possibile esistenza, da valutare in
relazione ad un progetto che è la stessa singolarità dell’esistenza. Pertanto
il criminale non può essere sottratto alla pena di morte dalla sua essenza
umana, che esiste soltanto biologicamente. Già Pico della Mirandola nell’Oratio de dignitate hominis immaginava
che Dio dicesse all’uomo: “Tu dominerai la tua natura secondo il tuo
arbitrio…non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché
di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella
forma che avresti prescelto”. Sta all’uomo, secondo Pico, scegliere se essere
soltanto un animale o di natura divina. Egli è responsabile del suo progetto di
vita.
[2]Il fondamento della morale, op. cit., p.
164.
[3]Filosofia dello spirito jenese, Laterza
1984, p. 139
[4]E’ evidente che Hegel, distinguendo la legge del
taglione dalla vendetta, considera quest’ultima soltanto come espressione di una
punizione privata, che può non rispettare la proporzionalità tra delitto e
pena. Ma in sostanza anche la pena comminata dallo Stato non può non essere
considerata anch’essa una vendetta, se la pena
rientra in una concezione retributiva come quella di Hegel.
[5]In Gli anarchici, a cura di G.M Bravo,
Adelphi 1970, pp. 510 sgg.
[6]Il contrattualismo non implica necessariamente
l’utilitarismo come negazione di un diritto naturale. In Hobbes,
per esempio, la concezione contrattualistica si accorda con quella
utilitaristica, ma anche con una concezione giusnaturalistica che vede la legge
naturale non dipendere dal contratto ma precederlo. Così in Locke la concezione
contrattualistica si accorda con il diritto naturale alla libertà e alla
proprietà (Secondo Trattato del governo (a cura di Luigi Pareyson) , Utet 1982, pp. 229-63.
[7]Oggi il
riferimento fa all’impiego, da parte dello Stato, dei cosiddetti “pentiti”,
premiati per le loro “confessioni”. E’ il risultato, direbbe Beccaria, di uno
Stato che, non avendo la forza di difendersi, a causa del suo garantismo nei
riguardi delle organizzazioni criminali, cerca di comprarla, mandando in rovina
l’edificio dell’ordinamento giuridico, fondato sulla proporzionalità della pena
al delitto.
[8]Justice, Civilation and the Death Penalty,
Justice 1991.
[9]Carlo
Cetti, Della pena di morte. Confutazione a Beccaria, Como 1960, pp. 12-13.
[10The Death Penalty, The American Law
Insitute, Philadelphia 1959.
[11The deterrent
effect of punishment: a question of life and death, American Economics Reviw,
65, 1975.
[12In questo senso si può ritenere ampliata la
considerazione svolta da Platone nelle
Leggi (IX, 869), dove è previsto che in caso di patricidio (o matricidio) –
il delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la madre) possa avere il
tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso il patricidio (o
matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole dovrà soltanto
purificarsi.
[13Il nostro
ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che, riprendendo il pensiero
di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto di punire i delitti
(II Trattato del governo civile, II,
11), osserva, contro Beccaria (Dei
delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura si perde il diritto
alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il diritto di uccidere
il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo diritto si trasferisce
da lui alla società. D’altra parte, non si aggiunge mai che Beccaria continuò a
giustificare la pena di morte per quei delitti che minano l’ordine
sociale. Riferimento odierno potrebbero
essere le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro cui si devono usare
leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie costituzionali, conservando
le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non colluso. Combattere
la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo delle leggi di pace,
e senza applicare la pena di morte, significa cercare di contrastare un
esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito equipaggiato al massimo
con fucili da caccia. Poiché è impossibile estirpare la mafia con metodi
democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si merita soltanto l’autogoverno
della mafia, senza aiuti economici da parte di altre regioni. Ha scritto
Aristotele (Politica) che ogni popolo
ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a comandare dal
carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La pena di morte
impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’ altrettanto
inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei confronti dei
trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro vita sia degna di
rispetto significa corrompere lo stesso concetto di giustizia. Essi minano
anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista di Beccaria,
dovrebbero essere eliminati senza pietà.
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