mercoledì 13 dicembre 2023

GIUDICI CHE DOVREBBERO PAGARE NEL CASO DI SENTENZE ABERRANTI

«In tema di risarcimento del danno per responsabilità civile del magistrato, l'ipotesi di colpa grave di cui all'art. 2, comma 3, l.n. 117/88 sussiste quando il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo e lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (Cass. Sez. III, sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008).

Per di più con il sospetto fondato che fossero colpevoli di reato. Si è concluso in Cassazione civile una vicenda assurda e paradossale con una sentenza di cui è stato relatore con colpa grave Luca Varrone. La racconterò perché si tratta di una vicenda che mi ha dissanguato per 25 anni. I lettori non daranno importanza a ciò che scriverò trattandosi di una vertenza giudiziaria personale e per di più civile e non penale, ma debbo nonostante ciò renderla pubblica inviando quanto scritto ad una serie di giudici contro cui sto preparando un esposto a termini di legge al ministro della giustizia (ora Nordio), al P.G. della Cassazione e p.c. al CSM. Ricorrerò alla Corte Europea tanto scandalosa è questa vicenda.  Ero proprietario al 66% di una grande sala cinematografica in Cagliari, con platea e galleria. Avevo il 66% perché mi ero costituito in giudizio solo io contro i soci che avevano truffato mio padre. I soci di minoranza (due disonesti fratelli che non chiamerò più fratelli) avevano fatto rinuncia all'eredità di mio padre e l'avevano fatta fare anche a mia madre credendo che la causa fosse ormai persa dopo che mio padre aveva perso sulla prima domanda (annullamento della vendita del terreno e dei magazzini conferiti alla Cinecorallo in cambio della partecipazione nella misura di 1/3 al capitale sociale). La Cinecorallo risultò falsamente adempiente all'obbligo di riconoscere 25 milioni di lire quali valore concordato da tradurre in quote della società perché il Tribunale e la Corte d'Appello non controllarono i bilanci, da cui risultava invece che i 25 milioni erano stati ridotti a 13 milioni per lavori fatti a carico di una proprietà confinante di mia madre mentre erano stati fatti a vantaggio della Cinecorallo. Dopo che mio padre non vide la fine della vertenza giudiziaria essendo morto a 86 anni nel 1977 mi costituii in giudizio solo io. Vinsi nel prosieguo del giudizio contro i soci (e non più contro la società falsamente riconosciuta adempiente) perché fu riconosciuta la riduzione del conferimento a 13 milioni e con la perizia di parte contro quella di ufficio fu riconosciuto fraudolento il costo della costruzione del cinema negli anni 1961-62 conlo scopo di mettere mio padre e mia madre in recessione riconoscendo ad essi solo 13 milioni in contanti e fuori dalla  società. Pertanto fu riconosciuta fondata la loro decisione di non aderire all'aumento del capitale. E i 25 milioni, rivalutati con l'aggiunta degli interessi, divennero circa un miliardo di lire con quantificazione del Tribunale nel 1991 dopo una vittoria anche in Cassazione. Gli altri due gruppi di soci preferirono cedere agli eredi Melis tutte le quote sociali a compensazione del miliardo di lire. I due soci di minoranza prima di andare dal notaio mi ricattarono dicendo che avrebbero fatto saltare l'accordo non andando dal notaio se non mi fossi impegnato a vendere anch'io la mia quota del 66%. Uno dei due si era indebitato con la banca (BNL) per avere comprato una casa all'amante (essendo la moglie costretta a vivere in un trio per la pace in famiglia avendo un figlio ancora bambino) e l'altro aveva contratto un mutuo di 180 milioni di lire con la banca Cariplo. Io firmai convinto che, dovendo stabilire io stesso il prezzo di vendita, pensai che per un miliardo e 800 milioni di lire nessuno si sarebbe presentato per acquistare l'immobile. E invece si presentò un tale, Gesuino Fenu, che aveva accettato il prezzo di vendita per trasformare il locale in un grande supermarket. Oggi è proprietario di una catena di supermarket chiamata GF. Vista la mia volontà di non vendere per non avere accettato il ricatto mi fecero causa ma persero perché i danni non erano stati dimostrati. Preso da giusta rabbia li accusai di estorsione E l'accusa si trasformò in calunnia a mio danno, da cui fui assolto nel 2001 perché il fatto non sussiste. Allora, accampando dissidi inesistenti perché il cinema, da sempre in attivo, era stato sempre affittato, si rivolsero al presidente del tribunale per chiedere la nomina di un liquidatore dopo essere riusciti a farmi revocare dalla carica da amministratore. Sulla base di questo motivo chiesero la nomina di un liquidatore. Trovai un presidente del tribunale che incredibilmente mi diede come acquiescente alla nomina mentre dagli atti del giudizio risultavo contrario avendo il mio avvocato concluso con la domanda di rigetto della domanda avversaria, anche considerando che non si poteva porre in liquidazione una società che, da sempre in attivo, conseguiva pacificamente l'oggetto sociale. Inoltre gli asseriti dissidi tra i soci non potevano giustificare la messa in liquidazione della società perché in base all'art. 2272 C.C. i dissidi sociali possono giustificare lo scioglimento della  società solo, e solo se, tali dissidi rendono impossibile il conseguimento dell'oggetto sociale. Non era il caso della Cinecorallo che viveva pacificamente di affitti. Non potevano esistere dissidi sociali se la proprietà era distinta dall'amministrazione. Per di più avevo indirizzato ai due soci una Racc. A.R. con cui chiedevo che facesse uno dei due l'amministratore anche perché non avrei più dovuto perdere tempo con il commercialista e con la banca. Ma questi disonesti in udienza dichiararono di non essere disposti a fare essi l'amministratore al mio posto. Bastava questo motivo per rigettare la domanda di nomina di un liquidatore che richiede che vi sia il consenso di tutti i soci. Il presidente del tribunale Marco Onnis non capì che anche per questo motivo non potevano esistere dissidi tra i soci, essendo tali dissidi fondati solo su motivi extra societari. Questo presidente del tribunale, andato in pensione pochi mesi dopo e morto molti anni fa, in un infuocato colloquio in strada dopo essere sceso da casa per avermi dato un appuntamento al telefono, rifiutò di ammettere l'enorme errore compiuto. Pochi giorni dopo  scampò all'incendio che gli distrusse la casa, dove viveva con il fratello e la sorella. Questo presidente del Tribunale sfruttò un inciso della comparsa di costituzione in giudizio per darmi come acquiescente, pur dovendo valere la domanda di rigetto della nomina del liquidatore perché per legge occorre la volontà di tutti i soci per nominare il liquidatore, un individuo che è il peggiore che ho incontrato nella mia vita. Un individuo assetato di danaro e disonesto perché mi aveva promesso di non vendere prima che vi fosse una sentenza passata in giudicato. Il successore del Marco Onnis, Antonio Porcella, revocò l'11 dicembre 1997 la nomina del liquidatore scrivendo che non poteva essere nominato dato il mio documentato dissenso e che pertanto i due soci di minoranza avrebbero dovuto instaurare un giudizio ordinario. Purtroppo la revoca avvenne dopo che il 13 novembre 1997 era già avvenuta la vendita tramite liquidatore. Questo disonesto mi aveva convocato il 30 luglio 1997 per dirmi che aveva già incassato una caparra di 100 milioni di lire dal promissario acquirente, ma non volle farmi il suo nome per impedirmi che potessi comunicare con lui per avvisarlo che vi era la mia assoluta contrarietà alla vendita. Gli feci comunque pervenire una Racc. celere alle 11,35 dell'1 agosto per dichiarargli anche per iscritto la mia contrarietà alla vendita citando una sentenza della Cassazione che diceva che non poteva essere messa in liquidazione l'azienda se era costituita da un cinema affittato a terzi. Sembrava una sentenza fatta apposta per me. Chiesi per posta copia del preliminare di vendita e soltanto il 21 agosto dopo tre mie raccomandate posta celere agosto ne ebbi una copia. Solo dal preliminare dell'1 agosto 1997 ebbi conoscenza del nome del promissario acquirente, un costruttore di nome Bruno Cadeddu. E inviai subito una racc. A.R. al promissario acquirente e al liquidatore spiegando in 4 pagine i motivi per cui la nomina del liquidatore doveva ritenersi illegittima e annunciavo un mio prossimo ricorso al tribunale per chiedere la revoca della nomina del liquidatore. Ma questi due disonesti, il gatto e la volpe, cambiarono furtivamente il preliminare di vendita con altro dell'8 settembre (data storica con cui ebbe fine il fascismo con la resa dell'Italia agli angloamericani). Con il secondo preliminare veniva anticipata di molti mesi la vendita il 13 novembre per non darmi il tempo di avere un provvedimento di revoca del liquidatore, che, come detto, fu revocato l'11 dicembre dato il mio documentato dissenso. Poco meno di un mese dopo la vendita, di cui ebbi notizia solo dopo la vendita perché mi era stata sempre occultata la nomina dell'acquirente, che acquistò per un miliardo e mezzo, compresa in esso la stratoferica parcella di 166 milioni di lire. In 25 anni non ho trovato un giudice capace di capire che la vendita era da considerarsi nulla, assolutamente nulla, per mancato contraddittorio con la società Cinecorallo litisconsorte necessaria. Si sa che un provvedimento giudiziario non può avere alcun valore per la parte non sentita in giudizio. Pertanto, quasi come in un teorema matematico, la nomina del liquidatore anche per questo motivo doveva considerarsi nulla, e conseguentemente nullo anche il suo operato, traducendosi la nullità in una inesistenza del provvedimento che rende inefficace la buonafede dei terzi, e in tal caso, peraltro, il terzo, cioè l'acquirente, era documentatamente in malafede. Dopo il madornale ingiustificabile errore materiale di un presidente del tribunale vi fu un altro errore materiale perché il 15 settembre 1997 avevo aperto un giudizio ordinario per chiedere la revoca della nomina del liquidatore. Fui sfortunato anche in questo caso perché incontrai una donna, Tiziana Marogna, il cui cognome meriterebbe un'altra prima lettera, che rigettò il ricorso con una ordinanza di mero rito del 7 novembre 1997 scrivendo che avevo sbagliato indirizzo rivolgendomi a lei in tribunale perché mi sarei dovuto rivolgere direttamente alla Cassazione. Grave errore perché aveva scritto che era stata superata la giurisprudenza che prevedeva il ricorso al tribunale. FALSO! FALSO! FALSO! L'ultima sentenza al riguardo prima di detta ordinanza era la sentenza della Cassazione del 2 dicembre 1996 n. 10718 che diceva il contrario, cioè che dovevo rivolgermi al tribunale. E la Cassazione a Sezioni Unite con sentenza 11104/2002 cancellò la giurisprudenza minoritaria a cui la Marogna si era appellata. E la Marogna passò dopo in Corte d'Appello divenendo collega nello steso Collegio di una Donatella Aru che è stata ulteriormente una mia disgrazia perché, tra l'altro, per non andare contro la sua collega, che si sarebbe dovuta astenere stando fuori dallo stesso Collegio avendo già giudicato in tribunale, ripeté la falsità materiale della collega pur in contrasto con la sentenza 11104/2002, e nonostante fosse stata da lei citata per maggiore assurdo. La Donatella Aru è stata la mia maggiore disgrazia, maggiore delle due precedenti disgrazie che furono il presidente del tribunale e la Marogna perché aggravò ulteriormente la situazione con due sentenze raccapriccianti invertendo il rapporto logico-giuridico per mettere subito al riparo la parcella del liquidatore con una sentenza falsamente non definitiva perché avrebbe dovuto far dipendere la parcella dalla domanda di nullità o annullamento della vendita. Poiché costei avrebbe potuto e dovuto porre rimedio ai precedenti errori dovrebbe essere ritenuta maggiormente colpevole "se il comportamento del magistrato si concretizza in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, che comporta l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore".  Vediamo i precedenti a cui costei ha mancato di porre rimedio. La Aru mancò sempre di considerare che il motivo per cui era stato nominato il liquidatore, cioè la mia revoca dalla carica di amministratore, era venuto assolutamente meno perché la Corte d'Appello con sentenza 34/2001 aveva dichiarato nulla la sentenza con cui ero stato revocato dalla nomina del liquidatore. Questa importante sentenza, passata in giudicato, fu saltata completamente ANCHE dalla Aru, che, pur avendola citata, non ne trasse, o non volle trarne, la conseguenza  determinante che io ero stato sempre amministratore e che pertanto, anche per questo motivo, non poteva giustificarsi la nomina del liquidatore. Non basta.     

In Tribunale il giudice Mario Farina, pur di difendere il liquidatore per giustificare la sua esosa parcella ha scritto che: “il provvedimento di revoca del 11.12.1997 deve considerarsi immediatamente esecutivo”. Ma nonostante ciò aggiunse che “si deve affermare che l’Angius, essendo revocata la sua nomina a liquidatore ha sostanzialmente redatto seppure in buona fede un bilancio che è quanto meno dubbio che dovesse essere impugnato nei termini  di cui all’art. 2311 c.c.”. E poi (p. 14): “Le operazioni di liquidazione devono essere compiute nell’interesse della società e pertanto di tutti i soci e non vi è contestazione, anche atteso che gli altri due soci fratelli del Melis non si sono opposti all’operato dell’Angius, che questo abbia agito nell’interesse della società”. Notare la frase sintatticamente errata. 

E’ evidente la grave contraddizione nell’affermare che le operazioni dovessero essere compiute “nell’interesse della società e pertanto di tutti soci”, mentre si riconosceva l’opposizione di Pietro Melis sia alla vendita e sia, pertanto, al decreto ingiuntivo. La conclusione della sentenza è il cappello finale posto su un abito confezionato su misura per l’Angius. Pertanto il bilancio finale sarebbe  stato “redatto dall’Angius nella convinzione della  sua doverosità” giacché “poteva certamente rimanere la convinzione di rivestire ancora la qualifica di liquidatore e di dovere redigere il bilancio conclusivo”, potendosi “affermare che ‘Angius abbia agito in buona fede sia nel perdurare della sua qualità di liquidatore sia successivamente alla revoca della sua nomina” (p. 15).             

E’ incredibile che un giudice possa arrivare a scrivere tante contraddizioni in così poche frasi. Il Farina riconosce che l’Angius sapeva di essere stato revocato dalla sua nomina di liquidatore e tuttavia, secondo il Farina, l’Angius poteva pensare in buona fede di essere ancora liquidatore. Incredibile! Non è possibile negare che ci si trovi di fronte ad una sentenza aberrante.

La Aru non tenne in alcun conto le aberrazioni del Farina e ne aggiunse altre di farina propria. Costei giustificò la nomina del liquidatore dandomi come acquiescente, ripetendo la falsità materiale del presidente del tribunale. Ma doveva per questo sterilizzare il decreto di revoca della nomina del liquidatore con il definire la nomina "un vizio nel merito" inventandosi una espressione che non si trova in tutta la giurisprudenza. Per di più riconoscendo contraddittoriamente la mia contrarietà, persino definita "veemente", all'operato del liquidatore ma come un estremo tentativo di ostacolare la vendita contro la volontà dei due soci di minoranza, così facendo prevalere la volontà di una minoranza. Naturalmente nulla ebbe da obiettare alle aberrazioni del Farina. E per difendere l'operato del liquidatore non si vergognò di ripetere la falsità dell'ordinanza della collega Marogna scrivendo che il liquidatore era confortato dal fatto che io ero stato revocato dalla nomina di amministratore con sentenza definitiva l'11 novembre 1997 (due giorni prima della vendita e senza nemmeno attenderne la notifica del 20 novembre), cosi trasformando questa sentenza in una sentenza passata in giudicato, come se non vi fosse stato più alcun rimedio, mentre il rimedio avvenne con la sentenza della Corte d'Appello 34/2001 che dichiarò nulla tale sentenza rendendo così nulla anche la nomina del liquidatore se io risultavo essere stato sempre amministratore in base alla sentenza 34/2001. 

Poiché in base all’art. 1362 c.c. 2 c.c., al fine di valutare la buona fede   del contraente valgono "le manifestazioni posteriori al contratto provenienti da uno dei contraenti” (Cass. 22 giugno 1972, n. 2055), non posso tralasciare un episodio riguardante l'ex liquidatore Angius che in data 23 aprile 1998 con grave azzardo si presentò al Banco di Napoli con i due soci di minoranza e per non esporsi in prima persona rilasciò copia del certificato della Camera di Commercio del 5 aprile 1996 in cui figurava ancora come liquidatore e, dichiarando falsamente "la piena validità di tutte le operazioni richieste”, rilasciava delega al socio Paolo Melis perché riscuotesse tutto il ricavato della vendita (meno le tasse) tramite 4 assegni circolari così intestati: Pietro Melis lire 654.736.036: Paolo Melis lire 169.471.559; Gianluca Melis lire 169.471.559; dott. Antioco Angius lire 150.605.824. Per un totale di lire 1.144.284.436. L'operazione truffaldina, tesa a pormi un'altra volta di fronte al fatto compiuto, ed evitando così lo scomodo decreto ingiuntivo, non riuscì perché precedentemente avevo avvisato la banca dell'avvenuta revoca dell'Angius dalla carica di liquidatore . Il dossier del Banco di Napoli è agli atti del giudizio. Successivamente l'Angius notificò il decreto ingiuntivo a tutti i tre soci pur non essendo ancora ricostituita la rappresentanza legale della Cinecorallo. Ma tale notifica non poteva ritenersi valida sempre per lo stesso motivo, dato il perdurante dissidio (ma sempre extra societario) tra i soci.

La mia denuncia nei confronti dell'Angius, sia per avere tentato di incassare tutto il ricavato della vendita, sia per avere arbitrariamente detratto gli interessi dal mio credito di 18 milioni di lire (ottenuto con decreto ingiuntivo) riducendo l'importo a 11 milioni, sia per avere dopo consegnato il residuo dell'importo al debitore Gianluca, nonostante avesse scritto nel bilancio finale che l'importo sarebbe stato versato a mio favore in un libretto bancario, non ebbe seguito perché vari P.M. si palleggiarono la mia denuncia trovandosi in difficoltà e poi decisero per l'archivio. Nonostante che tale libretto non fosse stato mai aperto. Ma l'Angius per questa operazione fatta passare come transazione (da me non richiesta) incredibilmente si attribuì 930 mila lire.  

Ma di tutto ciò non vi è alcuna traccia nelle sentenze. Come mai?    

Tutte queste aberrazioni sono state gravemente ignorate anche in Cassazione, così da farmi ritenere che dovrebbe essere riformata la giustizia introducendo una severa selezione almeno tramite esami che non siano la farsa dei Consigli distrettuali che ogni 4 anni debbono far finta di esaminare l'operato di un giudice, con il risultato che i giudici avanzano tutti di grado e di stipendio per sola anzianità, giungendo così persino in Cassazione, come vi deve essere giunto Luca Varrone, essendo stato capace solo di aggiungere le ultime aberrazioni per non avere colto che tutto il processo doveva ritenersi nullo per un motivo assai semplice, che era il mancato contraddittorio in tutto il processo della Cincorallo, risultata sempre assente in giudizio, e non avendo nemmeno il Varrone percepito la conseguenza della sentenza 34/2001 da cui poteva trarsi, anche indipendentemente da ogni altra considerazione, della nullità di tutto il processo. Un giudice che è capace di rovinare la vita di un ricorrente per ignoranza e per mancata capacità di ragionare non dovrebbe sottrarsi ad una condanna tale da farlo ritenere non appropriato a giudicare, con maggiore colpevolezza per avere costretto il ricorrente a non avere più mezzi per contrastare tali aberrazioni.           

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