Uno che si rende colpevole di un terribiole omicidio ove vittima è Giulia Cecchettin dovrebbe essere condannato alla pena di morte. Non è più degno di vivere. Ma in Corte d'Appello potrebbe avere una condanna a qualche decina di anni. Ne uscirebbe a 50 anni. I familiari chiedono giustizia. Non dicono mai che non vogliono vendetta. Ma che cos'è la giustizia in questo caso se non la vendetta? Nello stato di natura, osserva il filosofo Hobbes, ognuno ha diritto di farsi giustizia da sé. Questa giustizia viene demandata allo Stato. Ma se nello stato di natura si ha il diritto di uccidere per difendere la propria vita perché lo Stato si sostituisce alla vittima se questa non fosse stata favorevole a perdonare il suo uccisore o a ridurre l'entità della pena? Scrive Kant in Metafisica dei costumi, parte II, sez. I, nota). 1
“Se poi egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro surrogato che possa soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una vita per quanto penosa e la morte; e di conseguenza non esiste altra eguaglianza tra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale” (Metafisica dei costumi, parte II, sez. I, nota). 1
E Schopenhauer, utilizzando contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello stesso Kant (“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto come mezzo”, osservava, rincarando la dose, che essa era infondata alla luce della giustificazione della pena di morte: “A quella formula ci sarebbe da obiettare che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente, soltanto come mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile per confermare alla legge, se attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il suo fine”.2 In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte dell’umanità, e dunque la sua vita cessa di essere un fine per diventare solo un mezzo della forza deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da qualsiasi concezione utilitaristica della pena, come quella di Schopenhauer, che vedeva nella pena un mero mezzo per ottenere un bene per la società. Per Kant è lo stesso delitto che richiede una proporzionata pena come imperativo categorico non potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio che serva da deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte si giustifica sulla base della considerazione che l’uomo, anche quando è un criminale, non può mai essere considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe richiedere per sé la pena di morte per riscattarsi come uomo.
Verso la fine del ‘700 Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi del diritto penale (1791), considerando che il diritto penale trova la sua giustificazione nella difesa della società e nella salvaguardia dei cittadini, ritenne che la pena giusta fosse quella che meglio garantisse la conservazione dei cittadini. Pertanto qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria sulle pene capitali (1830) scrisse che “non si tratta più di vedere se esista il diritto di punire sino alla morte: ma bensì se esiste il bisogno di esercitare questodiritto…Chi commette un delitto commette un’azione senza diritto…Dunque il male irrogato per difesa necessaria al facinoroso è un fatto di diritto. Dunque se questo male dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso, questa morte sarebbe data con diritto…Voler poi negare indefinitivamente questo bisogno sarebbe lo stesso come dire in chirurgia non potersi dar il caso di dover fare l’amputazione di un membro”. Romagnosi riteneva che la galera, per di più senza obbligo di lavoro, fosse per molti non un castigo ma un premio.
1 Kant (ibid.) accusò Beccaria di “affettato sentimentalismo”.
2 Il fondamento della morale, op. cit., p. 164.
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2 commenti:
Caro Melis,
io non credo nel libero arbitrio perché ogni azione e pensiero è una sintesi necessaria di infiniti fattori non tutti noti o presenti a chi commette certe azioni, tanto è vero che sono riconosciute le attenuanti o persino la non
imputabilità di qualcuno per varie circostanze. Ma se nego il libero
arbitrio riconosco però che l'individuo e la società hanno il diritto di difendersi e possono infliggere sanzioni a chi commette azioni riprovevoli e in determinate circostanze anche la pena di morte.
Io non rubo, uccido e dico il falso non perché voglio rispettare la "legge morale" come pensava il buon Kant, ma perché il carattere, la famiglia, l'educazione e altre circostanze hanno fatto di me una persone che non inclina a commettere azioni considerate crimini dalla società (Ortega aveva formulato sinteticamente la cosa con la formula: "Yo soy yo y mis circunstancias").
Io sono sempre stato contrario alla pena di morte ma negli ultimi tempi ho cambiato opinione leggendo le Sue considerazioni e quelle di Sossio Giametta, due filosofi favorevoli alla pena di morte. Anche se il colpevole di tutto ciò che avviene è in ultima analisi ... Dio o la Natura, penso che la pena giusta per chi spegne la vita di un altro sia la morte, non possa essere che la pena di morte. Trovo assurda la tesi che un criminale abbia diritto a una seconda chance: chi è morto ammazzato una seconda chance non l'ha.
Sì, sono d'accordo sul fatto che il delitto di Turetta richiederebbe la pena di morte, inoltre non è stato riconosciuto l'aggravante della crudeltà per un cavillo della difesa basato sulle parole di Turetta, che nel processo ha affermato di avere avuto un momento di "compassione" (non sono queste le parole esatte, ma è il concetto generale) verso Giulia dopo averla colpita con il coltello al sopracciglio, ma se 75 coltellate non sono crudeltà mi riesce difficile immaginare che cosa possa esserlo. Inoltre non mi torna molto l'atteggiamento del padre di Giulia, è stato sempre troppo controllato e piuttosto distaccato, se una tragedia del genere fosse successa a me non sarei riuscito a mantenere quell'aplomb che ha mostrato.
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