E' venuto a mancare ieri il filosofo (meglio: lo storico della filosofia) Remo Bodei. Leggo articoli incensatori (che francamente non mi sento di condividere) sino a ritenerlo uno dei massimi filosofi del Novecento. Non vi è stata in lui alcuna originalità di pensiero. Ha utilizzato la sua grande erudizione per fare affiorare ogni tanto il suo pensiero che emerge dall'erudizione come sprizzi di fumarole in un campo di solfatara, privi di un pensiero di fondo che non sia il relativismo culturale dei valori morali.
Essendo mio concittadino (con un fratello gemello di nome Romolo che per alcuni anni parte fece parte della cerchia delle mie amicizie e che morì molti anni fa) ebbi modo di conoscerlo quando era ancora studente della Normale di Pisa e passava molta parte dell'estate a Cagliari. Frequentava talvolta la biblioteca delle Facoltà di Lettere e di Magistero (che allora si trovava in via Corte d'Appello) e in biblioteca facemmo conoscenza. Mi ricordo che stavo preparando l'esame di estetica che comprendeva la Critica del giudizio di Kant. Gli esternai la mia sorpresa nel ritenere difficile la lettura (comprensione) del testo ed egli rispose che, anzi, offriva poche difficoltà ed era anche piacevole perché Kant faceva riferimento anche al vino di Bordeaux. Aveva precedentemente frequentato per pochi anni il Conservatorio di Cagliari nella classe di flauto e mi raccontava del concerto per flauto e orchestra di Vivaldi (detto il cardellino). Lo rividi altre volte a Cagliari ma non vi fu mai una frequentazione che potesse essere base di una amicizia. Mi rimase impresso nel ricordo - ma non mi ricordo in quale occassione, forse in strada a tu per tu, senza testimoni - quanto mi disse dichiarandosi entusiasta del muro di Berlino che era stato da poco tempo costruito dai comunisti della Repubblica "democratica" tedesca (DDR). Circa sei anni fa era presente al Festival della filosofia al teatro Massimo di Cagliari. Colsi occasione per attaccare il relativismo culturale contrapponendogli il diritto naturale. E citai i nomi di alcuni famosi filosofi per dimostrare che la loro proposizioe di valori morali poteva portare solo al relativismo. E visto che Bodei era seduto in mezzo al pubblico (non essendo relatore) mi rivolsi anche a lui per dirgli che anch'egli era un esempio del relativismo culturale dei valori morali, e citai Max Weber, che scrisse che "non si può uscire dalla lotta mortale tra valori morali", non accorgendosi tuttavia che vi era una via di uscita dal relativismo dei valori morali con il diritto naturale. Aggiunsi che, se Hitler avesse vinto la guerra vi sarebbero stati altri valori morali perché i valori morali sono sempre quelli dei vincitori (e qui il pubblico imbecille rumereggiò pesantemente credendo che stessi facendo l'apologia del nazismo). Ritengo che il suo libro migliore rimanga Geometria delle passioni (con forte riferimento all'Etica di Spinoza). Proprio ispirandomi al titolo del libro di Bodei portai a termine nel 2006 un testo di circa 900 pagine (rimasto ancora manoscritto) a cui diedi per contrapposizione a Bodei, il titolo Geometria del diritto naturale. La morale come oblio della giustizia. Dall'Antichità ad oggi.
Essendo mio concittadino (con un fratello gemello di nome Romolo che per alcuni anni parte fece parte della cerchia delle mie amicizie e che morì molti anni fa) ebbi modo di conoscerlo quando era ancora studente della Normale di Pisa e passava molta parte dell'estate a Cagliari. Frequentava talvolta la biblioteca delle Facoltà di Lettere e di Magistero (che allora si trovava in via Corte d'Appello) e in biblioteca facemmo conoscenza. Mi ricordo che stavo preparando l'esame di estetica che comprendeva la Critica del giudizio di Kant. Gli esternai la mia sorpresa nel ritenere difficile la lettura (comprensione) del testo ed egli rispose che, anzi, offriva poche difficoltà ed era anche piacevole perché Kant faceva riferimento anche al vino di Bordeaux. Aveva precedentemente frequentato per pochi anni il Conservatorio di Cagliari nella classe di flauto e mi raccontava del concerto per flauto e orchestra di Vivaldi (detto il cardellino). Lo rividi altre volte a Cagliari ma non vi fu mai una frequentazione che potesse essere base di una amicizia. Mi rimase impresso nel ricordo - ma non mi ricordo in quale occassione, forse in strada a tu per tu, senza testimoni - quanto mi disse dichiarandosi entusiasta del muro di Berlino che era stato da poco tempo costruito dai comunisti della Repubblica "democratica" tedesca (DDR). Circa sei anni fa era presente al Festival della filosofia al teatro Massimo di Cagliari. Colsi occasione per attaccare il relativismo culturale contrapponendogli il diritto naturale. E citai i nomi di alcuni famosi filosofi per dimostrare che la loro proposizioe di valori morali poteva portare solo al relativismo. E visto che Bodei era seduto in mezzo al pubblico (non essendo relatore) mi rivolsi anche a lui per dirgli che anch'egli era un esempio del relativismo culturale dei valori morali, e citai Max Weber, che scrisse che "non si può uscire dalla lotta mortale tra valori morali", non accorgendosi tuttavia che vi era una via di uscita dal relativismo dei valori morali con il diritto naturale. Aggiunsi che, se Hitler avesse vinto la guerra vi sarebbero stati altri valori morali perché i valori morali sono sempre quelli dei vincitori (e qui il pubblico imbecille rumereggiò pesantemente credendo che stessi facendo l'apologia del nazismo). Ritengo che il suo libro migliore rimanga Geometria delle passioni (con forte riferimento all'Etica di Spinoza). Proprio ispirandomi al titolo del libro di Bodei portai a termine nel 2006 un testo di circa 900 pagine (rimasto ancora manoscritto) a cui diedi per contrapposizione a Bodei, il titolo Geometria del diritto naturale. La morale come oblio della giustizia. Dall'Antichità ad oggi.
Riporto qui sotto alcune pagine del mio testo Scontro tra culture e metacultura scientifica riguardanti Bodei.
Remo Bodei, uno dei più noti
esponenti della filosofia italiana, ha scritto un “illuminante” articolo
(apparso nell'inserto cultutale della domenica del Sole24Ore) il giorno dopo la morte di Giovanni Paolo II.[1]
Esso analizza il tema del rapporto tra fede e ragione riproposto alla luce
della convinzione del papa – scrive Bodei - “che l’età moderna s’inauguri con
la nefasta separazione tra fede e ragione…la ragione pretende di conoscere da
sola la verità, senza bisogno della rivelazione (Fides et ratio, 5). Da
qui, secondo il papa – scrive sempre Bodei - “il relativismo etico e cognitivo,
al pari della deriva nichilistica della democrazia, che dipende dalla smisurata
presunzione del singolo soggetto di ergersi a giudice e padrone della propria
vita, recidento il rapporto tra creatura e creatore”. Da qui anche
l’accontentarsi di verità parziali e provvisorie che evitano le domande radicali
sul senso della vita. Bodei osserva che l’etica laica non è necessariamente
‘relativista’. Essa, come si espresse William James, ha bisogno di un sistema
credenze, che non si oppongono di per sé alla verità e di cui abbiamo bisogno
per risolverci all’azione, pur dovendo tali credenze essere empiricamente
verificabili. Bodei ha omesso di aggiungere che tali credenze per James
implicano religiosamente la suprema “volontà di credere” pragmatisticamente,
per convenienza, in un Dio che, non essendo nei cieli, ma sulla terra, garantisca
una solidarietà delle parti del mondo agendo come forza progressista in
collaborazione con esse, di modo che il progresso dipenda anche dalla
collaborazione delle parti. E’ l’immagine di un Dio finito (Universo pluralistico, 1909).Ora, si può
osservare, se non è obbligatorio credere in un Dio finito progressista che
partecipi alla storia dell’uomo, si può tuttavia ritenere che quella di James
fosse una soluzione religiosa giustificata dalla necessità di dare un
fondamento ontologico ai valori morali e
un senso alla vita umana.
Bodei ha utilizzato James
soltanto per una parte, quella legata più strettamente al pragmatismo, per
arrivare ad una proposta incoerente, sulla base della negazione dei diritti
naturali della persona, perché la legge naturale (a cui fa riferimento il papa)
per rivelarsi necessiterebbe di una “grazia” divina, con il problema della
predestinazione. Bodei, volendo sottrarre i valori al relativismo, sa offrire
una medicina che è peggiore del male che vorrebbe guarire. Infatti scrive:
“tutti i valori poggiano su scelte di
fondo oscure o, in ultima istanza, indecidibili in maniera assoluta, ma
sentiamo di doverne propugnare alcuni contro altri, non perché fondati sul
diritto naturale, su premesse date, ma perché progettati. Non aiuta molto, nel
combattere il relativismo…il ricorso al ‘paradigama perduto’ della ‘natura
umana’, all’esistenza di leggi immutabili e oggettive, la cui essenza rimane
costante”. Secondo Bodei “un corpo di regole e di leggi ha valore proprio
perché esse non esistono naturalmente, perché si deve plasmare un mondo che non
c’è ancora, dove la sofferenza e l’ingiustizia siano battute e le opportunità
di una vita migliore (le ‘capacità’ e i ‘funzionamenti, come li chiama Amarya
Sen) siano incrementate”. E Bodei termina con un esempio tratto dal Fedro di Platone, per spiegare che “le
due ali della fede e della ragione possono collaborare, come accade ai due
cavalli del mito platonico. Basta sapere che ciascuno spinge in direzione
diversa e che solo l’abilità e l’autorità esercitate dall’auriga possono, col
l’uso delle briglie e del morso, rivolgere i loro sforzi nella stessa
direzione”.
A tutto ciò si può replicare
osservando che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Il papa, sotto
questo aspetto, e dal suo punto di vista, ha avuto una coerenza che Bodei non
ha e che crede, invece, di avere. Innanzi tutto il riferimento al mito
platonico appare del tutto inadatto e improprio, essendo in netto contrasto con
la negazione di un diritto naturale, giacché l’auriga (che rappresenta la
ragione) cerca di guidare verso la regione sopraceleste della verità eterne i
due cavalli, di cui uno,bianco “è nobile e buono, e di buona razza”, mentre
l’altro, di pelo nero, “è tutto il contrario ed è di razza opposta” (246b,
253d). Il secondo, “maligno”, cerca di tirare l’auriga verso terra,
contrastando la ragione per impedire all’auriga di “elevare il capo nella
regione superceleste”, dove scorgere “quella essenza incolore, informe ed
intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella
essenza che è scaturiggine della vera scienza” (247c) e che si scopre nella
“Pianura della Verità” (248b). Platone, coerentemente, ha sviluppato nel corso
delle sue opere un concetto di giustizia cosmica, che giunge, nel Timeo, ad avere fondamento nell’opera
ordinatrice del Demiurgo.
Bodei non ha capito che il
suo concetto di ragione può essere rappresentato dall’auriga che non riesce a
dominare il cavallo che tira verso terra impedendogli di vedere verso l’alto.
Infatti il suo discorso non esce dal relativismo di quella zona di “scelte di
fondo oscure” – a cui egli stesso si
richiama - che fanno pensare al cavallo nero del mito di Platone, e che non
spiegano affatto perché uno debba preferire combattere per la giustizia se,
come disse già il filosofo scettico Carneade (214-129 a. C.), i romani non
potevano ritenersi giusti impadronendosi delle terre di altri popoli, ma non
sarebbero stati saggi se le avessero restituite. Ma lo stoico greco Panezio
(180-106 a. C.), vissuto a Roma nel circolo degli Scipioni, e Cicerone giustificavano
la politica espansionistica di Roma con il piegare a suo favore le tesi del
precedente stoicismo di Cleante e di Crisippo (IV sec. a,. C.), che consigliava
al saggio di stare lontano dalla politica per non avere turbamenti, ma che,
identificando la ragione naturale con la giustizia, superava con il suo cosmopolitismo
le strutture delle città-Stato nel nome della comune umanità razionale in cui
tutti gli uomini sono eguali. Così la legge naturale degli stoici poteva essere
interpretata come giustificazione di una legge comune, quella romana, che
unificasse diversi popoli. Questa spiegazione, avanzata anche dallo storico
greco Polibio (208-126 a. C.), può essere interpretata oggi – diversamente da
allora - come comoda giustificazione della violenza ed espressione di interessi
economici e di potenza. Ma il punto è un altro. La violenza romana cercava tra
gli storici e i filosofi una giustificazione in un diritto che non fosse
soltanto il diritto della forza. La stessa questione si è riproposta oggi con
la domanda se gli Stati occidentali abbiano il diritto di esportare con la
guerra la “democrazia” loro in altri Stati. Ma, al di là dei mezzi violenti o
pacifici con cui si possa esportare una certa concezione del diritto, rimane il
fatto che la filosofia oggi si trova in contrasto con la concezione dei diritti
umani espressi nelle sedi internazionali, in cui, se pur in una concezione che
rimane antropocentrica, si sottintende una naturalità dei diritti umani, anche
quando in sede ONU si confondono i diritti umani con i diritti sociali, che non
sono naturali, ma convenzionali.
Rawls[2]
ha scritto che nelle relazioni tra Stati dovrebbe esistere un denominatore
comune costituito almeno dal rispetto dei diritti individuali intesi come
condizione di un ordinamento “decente” di uno Stato, se pur non fondato sul
contrattualismo dello Stato liberaldemocratico. Sono dunque “indecenti” tutti
gli Stati che non rispettano tali diritti. Rawls non ha avuto il coraggio di
concludere coerentemente che è indecente
anche l’ONU, di cui continuano a far parte molti Stati “indecenti”, come
tutti i Paesi islamici, che non ne rispettano la Carta nella loro politica
interna. D’altra parte, Rawls, contraddittoriamente, non andò mai oltre una
concezione contrattualistica, e perciò convenzionalistica, dei diritti
individuali. Pertanto, se i diritti
individuali nascono nel contesto di una contrattazione, è impossibile
condannare come “indecenti” quei Paesi che non abbiano contrattato il rispetto
dei diritti individuali di uno Stato liberaldemocratico.
E poi, ammesso che esista la
giustizia non naturale, di cui scrive Bodei, perché condannare i “crimini
contro l’umanità”? Perché sono una violazione dei diritti umani? Su che cosa
sono fondati i diritti umani? Una delle due: o si risponde come il papa, e cioè
che essi sono fondati sulla (retorica della)
dignità della persona (con cui si contrabbanda il diritto naturale), e
perciò, sul fatto che i diritti umani sono umani - il che è una tautologia che,
come tale, non spiega alcunché – oppure i diritti umani sono convenzionali, e
la condanna della loro violazione è priva di normatività al di là di una contrattazione
di tali diritti. Inoltre, perché combattere per la giustizia anche a proprio
danno se anch’essa, per coerenza, non può che nascere da quelle che Bodei
chiama “scelte di fondo oscure”? Perché sentirmi in obbligo di favorire le
opportunità di una vita migliore per tutti - come vorrebbe il confusionario
Amartya Sen, che, citato da Bodei a suo sostegno, confonde l’economia con
l’etica, invece di accomunarla con un
diritto prossimo a quello naturale, come fece un altro premio Nobel per
l’economia, Friedrich Hayek[3] -
se non sono interessato ad una migliore vita degli altri, non avendone alcun
vantaggio? Donde dovrebbe provenirmi tale obbligazione? La “ragione” di Bodei è
disarmata di fronte a queste domande perché anch’essa esprime “scelte di fondo
oscure”, per cui non è in condizione di giudicare tra scelte opposte, pur
pretendendo di condannare quelle autoritarie. Rimasta dentro il vecchio
discorso sui valori morali – dimenticando la lezione di Max Weber sulla “lotta
mortale” tra valori morali – vi si attorciglia senza poterne uscire con la
giustificazione di una normatività, avendo, sì, evitato la retorica stantia
della dignità umana, ma avendo anche negato che possa esistere un diritto
naturale come espressione della tendenza naturale
di ogni organismo, umano e non umano, alla propria auto-conservazione, anche
contro un eguale diritto, come nella catena alimentare preda-predatore.
Il fatto è che la filosofia
contemporanea, ridottasi a filosofia del dialogo, naviga a vista, senza bussola, anche quando
cerca, inutilmente, di superare il relativismo dei valori morali, mentre il diritto naturale non ha valori morali da
offrire, bensì una norma giuridica che non è morale se non in senso improprio.
Infatti non comanda di fare del bene – cioè, per esempio, di migliorare le
“capacità” o i “funzionamenti” di cui scrive Sen, trattandosi, in realtà, di
diritti convenzionali, contrattabili
- ma vieta di danneggiare gli altri quando non si tratti di difendere la
propria vita, come nel mondo animale, dove il predatore uccide per poter
vivere, soltanto apparentemente usando violenza. Tutte le altre norme sono
convenzionali, e non morali, giustificabili in quanto non siano in contrasto
con la norma fondamentale. Il diritto naturale – metaculturale come la conoscenza scientifica, al contrario della
filosofia e della religione, che sono culturali - oggi fa più paura che mai
perché demolirebbe tutta la tradizione antropocentrica del discorso sui valori
morali, con riflessi anche sull’economia del profitto, che è anche economia di
morte, dovendo essere il diritto naturale interpretato oggi, sulla base
dell’evoluzione biologica, come diritto che non può essere della sola natura
umana. Altrimenti non è naturale. Rimane il “sonno dogmatico”[4]
dei triti valori morali di una concezione antropocentrica - e perciò
antiscientifica - da cui non sfugge nemmeno la morale laica, che, infatti, in
Bodei accetta una collaborazione con la fede, non accorgendosi, per altro, di
averla degradata paragonandola al cavallo “nero, brutto e malvagio” del mito di
Platone. Come se la fede, così degradata, potesse accettare una collaborazione
con la ragione. Vi è, piuttosto, da domandarsi se la ragione possa collaborare
anche con il mito di Adamo del Genesi,
in cui Giovanni Paolo II ha visto “le origini
della storia e della cultura umana” e in cui si conserva l’immagine dell’uomo
avente il diritto di “soggiogare la terra”.[5]
Ciò, si badi, in contrasto con il documento vaticano del 1995 – di cui si tace
pubblicamente – che ha accettato l’evoluzione biologica di Darwin quattro anni
dopo che la Chiesa, in altro documento, ha chiesto perdono per la condanna di
Galileo. E se esiste un limite alla collaborazione, quale sarebbe? Il discorso
rimane confuso e la domanda senza risposta a causa della confusione della
morale laica con il diritto, rimanendo anch’essa antropocentrica come quella
del papa. In realtà è sempre la fede della dottrina ufficiale che cerca la
collaborazione della ragione per sopravvivere, mentre la scienza,
metaculturale, di tale collaborazione non sa che farsene. Pertanto, l’esempio,
proposto da Bodei, ottenuto trasformando i due cavalli del mito platonico in
rappresentanti della fede e della ragione, è del tutto privo di senso. Se
Giovanni Paolo II ha ritenuto i diritti naturali fondati sulla persona umana,
tacendo dell’evoluzione biologica, non si può per questo buttare il bambino con
l’acqua sporca dell’antropocentrismo della “persona umana” per buttare anche i
diritti naturali.
Il penoso spettacolo delle
folle presenti ai funerali del papa – “un fenomeno mediatico, una grande
scampagnata”, l’ha definito alla TV la nota astronoma Margherita Hack –
testimonia quanto la confusione generata dalle emozioni e dall’ignoranza, nella
rimozione disperata, anche se apparentemente gioiosa, della paura della morte –
la cui immagine si offriva ad essi nella morte del papa, nella quale cercavano
la conferma della sopravvivenza - possa prevalere sull’analisi delle
contingenze storiche e delle contraddizioni dottrinali da cui è nato il
cristianesimo. Ma quello stesso papa aveva detto che bastava essere giusti per
meritare la salvezza. E allora a che il proselitismo? Il cristianesimo, come
ogni religione salvifica, abbiamo già detto, vale solo per i deboli di spirito.
Di fronte alla famosa frase
del papa “non abbiate timore di aprire le porte a Cristo” i non credenti che non fanno del male
sappiano che essi non debbono avere
timore di lasciare chiuse le porte a Cristo, ma le debbono aprire coerentemente
al diritto naturale poiché essi debbono sentirsi e ritenersi con orgoglio
migliori dei credenti di fronte al Dio dei non credenti, che premierebbe i
non credenti e giudicherebbe i credenti degli opportunisti - dei disperati,
come definì Epitteto i cristiani – e perciò privi di merito. Marionette
manovrate con i fili dal loro Dio, fatto a loro immagine e somiglianza.
[1] Il presente
lavoro è stato terminato – pura coincidenza – il giorno della morte del papa.
L’articolo di Bodei inizia nella prima pagina de Il Sole-24 ore di domenica 3 aprile.
[2] Il diritto dei popoli, Comunità 2001.
[3] Vi è una certa
consonanza tra la concezione giuridica (fondata sul diritto naturale di tutti
gli animali) di Robert Nozick (Anarchia,
Stato e Utopia, 1974) e la teoria economico-giuridica di Hayek. Entrambi hanno
tolto la maschera della “giustizia sociale” ad una morale che si vuole tradurre
in diritto andando oltre i diritti negativi, che consistono nel rispetto delle
regole della libera contrattazione e del liberalismo, che non significa diritto
del più forte, ma dovere, da parte di tutti, di rispettare le stesse regole,
impedendo qualsiasi forma di violenza e di frode, in base alla norma generale neminem laedere (Legge, legislazione e libertà, 1982, Il Saggiatore 1994, p. 137). Secondo Hayek è il conflitto tra
norme morali che ha generato norme superiori di diritto dal rifiuto di
rispettare certe norme morali. Lo Stato non può che favorire un accordo sui
mezzi necessari a conseguire i diversi fini. Tali mezzi sono le regole di
condotta del diritto privato, che non possono non essere astratte, non potendo
conseguire fini specifici (pp. 164
sgg.). La giustizia riguarda il rispetto di tali regole. Esse sono negative perché proibiscono, invece di
raccomandare, determinati tipi di azione. Le leggi sono le regole della
condotta che, in contrasto con il giuspositivismo di Kelsen (pp. 238 sgg.)
hanno come ideale storico il diritto
naturale, che, tuttavia, deve essere inteso, secondo Hayek, come prodotto
di un processo storico che può sembrare naturale in quanto non è soltanto
culturale, cioè convenzionale, rappresentando, come ideale storico, la
condizione indispensabile per arrivare ad un ordine pacifico universale. Hayek esclude che le norme generali di
condotta siano convenzionali, nel senso di derivare “da una scelta deliberata
da parte dell’uomo” (p. 259). La “giustizia sociale” diventa per Hayek la scusa
per affidare al governo poteri, che esso non può avere, a favore di interessi
particolari. Più forti sono gli interessi particolari e più forte diventa la
richiesta di “giustizia sociale” (p. 256). Le norme giuridiche generali
(diritti negativi, che proibiscono di causare dei danni) sono il risultato di
un processo che è simile a quello dell’evoluzione biologica, che avanza per
tentativi ed errori, lasciando che sia la selezione naturale, basata
sull’efficienza, ad eliminare i conflitti nascenti (da opposte morali) con norme
valide perché dotate del requisito dell’universalità (pp. 528 sgg.).
[4] Kant (nei Prolegomeni)
scrisse che la lettura dell’opera dell’empirista Hume lo aveva risvegliato dal
“sonno dogmatico “ della precedente metafisica.
2 commenti:
remo bodei. Il nome non mi suona nuovo. L'avranno pubblicizzato a 720 gradi i "mezzi" di disinformazione soliti. A quando Lei scrive, costui mi sembra un po' confuso. Gli piace il muro di berlino, ma non è Ateo. Cattocomunista? Un ossimoro. Se nega il "diritto naturale" era SICURAMENTE un magnacadaveri. A proposito del muro di berlino: 14 luglio 1789. 9 novembre 1989. Non riescono mai, ci sono anche altri casi che al momento non rammento, a centrare la data precisa, qui "200 anni". In questo caso abbiamo un ritardo di 118 giorrni. forse il Karol o i kabbalahari non sapevano fare i conti? E' strano che nessuno degli scienziati che circolano in tv, radio ed altri mezzi di disinformazione non l'abbia notato...
Caro Melis,
volevo proprio chiederLe cosa ne pensasse di Remo Bodei e constato che ha già provveduto con questo interessante articolo. Per me Bodei era solo un nome, forse avevo letto una volta una intervista che avevo anche apprezzato (ma nelle interviste gli intervistati si mostrano sempre dal lato migliore e fanno persino un figurone). Vedo comunque dal Suo scritto che posso tranquillamente esimermi dall'approfondire la conoscenza di questo filosofo o - come dice Lei - docente di filosofia. Quanti sono i docenti di filosofia in Italia e nel mondo? Sicuramente centinaia, anzi migliaia. Conoscerli tutti è materialmente impossibile e del resto nemmeno necessario. Però - per legge - già una semplice dissertazione dovrebbe costituire un "valido" contributo alla ricerca. Ancor più dovrebbero costituirlo poi i lavori di abilitazione alla docenza e i libri di questi sedicenti filosofi. Eppure quasi nessuno viene a conoscenza di tali "validi" contributi alla ricerca, in questo caso ricerca filosofica. Se ne deve dedurre che tutti questi contributi non sono così importanti come credono questi docenti di filosofia. Difatti la maggior parte della popolazione mondiale li ignora, mentre una vera nuova teoria scientifica di rilievo fa subito - specie oggi - il giro del mondo. Quello che di Lei mi piace è che si sia fatto da autodidatta una cultura scientifica che le ha permesso di considerare vacue tante filosofie classiche e moderne. Fare oggi filosofia senza avere conoscenze di fisica e matematica e di altri rami della scienza è semplicemente ridicolo. Il discorso filosofico può essere accattivante, piacevole, ma se io oggi voglio sapere qualcosa della struttura dell'universo mi rivolgerò a persone serie, cioè agli scienziati. Oserei dire che oggi i veri filosofi sono i fisici o gli scienziati in genere (non faccio purtroppo parte di questa eletta schiera di ricercatori). Il resto è chiacchiera, talvolta piacevole, ma niente di più. È proprio il caso di dire: “povera e nuda vai filosofia”. Platone almeno esigeva dai suoi discepoli, come propedeutica alla filosofia, la conoscenza della “geometria”. Prima impari i fondamentali e poi puoi sbizzarrirti a “filosofare”.
Cordialità.
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