Il titolo è mio.
Ricevo da Paolo Ricci (Bailador.org)
IL
KARMA E L’APERTURA VERSO IL NON UMANO
Con
il Rig Veda (1500- 1200 a.C.) siamo ancora a una sola vita, come
nelle religioni monoteiste: si tirano le cuoia e buonanotte ai
suonatori. Con le Upanishad (IX - VIII secolo a.C.) cambia la
musica e siamo davanti a qualcosa di profondamente differente: si
parla di trasmigrazioni di anime e rientrano nel gioco anche il non
umano e le infinite vittime sacrificali. Ora ci si reincarna. Il
corpo si corrompe ma l’anima imperitura resta. E anche l’anima
degli animali si reincarna in un corpo. E con il ciclo delle
rinascite – aborrito dagli orientali ma amato dagli occidentali –
sbuca l’idea del karma . Le azioni passate producono le
reincarnazioni per umani e non umani. Il Karma è come un
sistema computerizzato che calcola ogni azione, ogni pensiero, ogni
desiderio.
Così,
se te la spassi alla grande, navighi nell’oro, non conosci la
compassione, nella prossima reincarnazione potresti divenire un
disperato salvato da Madre Teresa da un marciapiede di Calcutta. Il
Karma comporta l’evoluzione spirituale: ogni essere vivente
retrocede o procede secondo le sue azioni. Mengele scende al livello
degli insetti, un cane sofferente e l’orsa Daniza approdano al
livello umano. L’idea della rinascita fa capolino nelle Upanishad
, come l’anima immortale nel monoteismo, in un preciso momento
storico.
Ugualmente
si transita dall’Ade omerico all’Oltremondo platonico e a quello
dei misteri eleusini e orfici; dalla situazione deplorata da Achille
a condizioni ultraterrene migliori nei Campi Elisi. Le cose cambiano
senza dirette informazioni pervenute da Dio o da Dei, ma per le
“intuizioni” di santoni, preti, savants,
sciamani, taumaturghi, filosofi, senza mai una misera traccia di
evidenza.
A
un certo punto della storia dell’India c’è un svolta: i
bramini, la casta dominante, si rendono conto che qualcosa va
cambiato: l’orrore della separazione classista non regge, ma il
sistema va mantenuto ad ogni costo. Mutare l’iniquo ordine è
pericoloso per le classi abbienti e il karma è
il punto d’appoggio della modifica; per i bramini tenere in piedi
il baldacchino fantasioso delle caste è essenziale,
altrimenti crolla tutto. Funziona come il cristianesimo che insegna
agli schiavi a sopportare la pena quotidiana perché alla fine
della vita li aspetta la luce infinita del Signore.
Ma
con l’arrivo del Buddha si scompigliano i giochi. Gautama mina le
fondamenta della struttura induista.
Saltano
in aria il Dio creatore e personale, l’anima immortale, le caste,
gli odiosi sacrifici e la speculazione metafisica. I Dalit, gli
intoccabili, vedono una luce. Gautama annienta la loro insostenibile
condizione: non esistono caste nel buddismo. Ma in mezzo alle rovine
teologiche si salva l’idea della reincarnazione, interpretata in
maniera differente, dal momento che l’Illuminato nega l’atman
l’anima immortale.
Ma
cosa insegna il Buddha? Insegna che la via è quella del
fuoriuscire dalla sofferenza, attraverso la meditazione, la
compassione verso i viventi, umani e non umani, la consapevolezza,
la non violenza, .seguendo il tracciato indicato dalle quattro
nobili verità: la sofferenza, come realtà universale
che tutto abbraccia, il sorgere della sofferenza, la cessazione
della sofferenza, la via che conduce alla cessazione della
sofferenza procedendo lungo l’ottuplice sentiero. L’Illuminato
infrange il determinismo karmico insegna che siamo noi gli artefici
del nostro destino perché esercitiamo il libero arbitrio.
Gautama
non si perde dietro alle disquisizioni teologiche o alle domande
essenziali, è agli antipodi del monoteismo nostrano tarlato
dalle eterne domande senza risposta: osserva il mondo e decide.
Durante
un festival della semina vede la fatica degli uomini, vede la
paziente sofferenza dei buoi, vede la lama dell’aratro che fende
la terra, vede i vermi e gli insetti esposti alla luce e pasto
d’uccelli. Vede la povertà, le malattie, la vecchiaia, il
perenne soffrire e tira le sue conseguenze. Il mondo del Buddha è
come quello del filosofo scozzese Hume che spiega che se un alieno
venisse sulla Terra lo porterebbe a vedere un ospedale, un carcere,
un campo di battaglia, una flotta a picco nel mare, uno Stato
dominato dalla tirannia, oltre
a popolazioni afflitte dalla fame e dalla peste. E se l’alieno
chiedesse di vedere qualcosa di gioioso allora lo porterebbe a un
ballo, a vedere uno spettacolo, a visitare la corte e lì
esperimenterebbe la stessa angoscia. L’uomo comune per Gautama è
il classico piccolo borghese dei nostri tempi: ama gli elogi, brama
il successo, non è compassionevole, non sa come affrontare
decadimento, malattie e morte, è lussurioso, spesso spietato,
affetto da familismo degenere e aborre povertà e silenzio.
E
smontato l’ego, Gautama fa a pezzi la “cosa pensante”
cartesiana, il sé sostanziale e individuale; precedendo di
secoli la critica di Hume, mina la solidità dell’io, lo
rende un fascio di disordinati pensieri senza
un vero centro. Sfalda il nucleo della nostra persona. La mente –
dice – brucia come una fiamma, s’impenna come un’onda, brucia
come un incendio in una foresta. La mente è come un teatro
ove i pensieri si susseguono con grande rapidità, con un
procedere penoso di stati d’animo, un’altalena spaventosa di sensazioni,
senza alcuna sosta. La mente è come un folle che urla
rinchiuso tra le pareti del cranio. Tutto è impermanente,
interconnesso e dominato dal cambiamento. Non c’è un punto
centrale. Il terreno del vivente è friabile. E’ instabile.
E’ fumoso. Gautama demolisce l’atman, l’anima eterna e i
discepoli chiedono: “cosa
si reincarna?” E il Buddismo risponde nei secoli: le azioni
determinano il prossimo corpo senza che ci sia una sostanza eterna
che salti come un grillo luminoso da un corpo a un’altro. Da un
cadavere al nascituro.
Come il fuoco di una candela che si spegne e che è trasmesso
a un’altra candela.
Ma
il Buddha non rinuncia alla carne, spiega ai suoi bhikshu, ai suoi
monaci, che elemosinando il cibo possono mangiare i pezzi di carne
mischiati nel riso, ma non possono uccidere per mangiare. Ma contro
l’idea di mangiar carne insorgono il suo discepolo Devadatta, che
diventa il Giuda del buddismo, e i jianisti.
Ma
il jiainismo è una religione differente, è la
religione del non umano per antonomasia.
Il
Dalai Lama spiegherà molto più tardi che è
obbligato a mangiare carne perché glielo ha imposto il
dottore. Si resta sbalorditi. Ma quasi tutti i lama tibetani non lo
seguono.
Il
Buddha trova altri pensatori che l’osteggiano: Makkhali Gosala
insegna che il karma è un invenzione braminica e il bene e il
male sono concetti senza sostanza, mentre lo sramana, l’asceta,
Purana Kassapa, della setta degli Ajivika, fa di peggio: insegna che
gli stermini perpetrati dai vari monarchi, in perpetua guerra
tra di loro, non sono peccaminosi ma necessari. A questo Gautama
risponde che gli kshtriya, i guerrieri, che massacrano diventeranno
scorpioni mentre il cavallo che muore in battaglia approderà
al livello umano. La predicazione di Purana Kassapa potrebbe andare
a pennello per i tagliagole dell’IS islamico. E da non dimenticare
è il materialista Ajita Kesakambala che nega aldilà,
karma, reincarnazioni e insegna che tutto finisce con la cremazione.
Ashes
to ashes. Cinis et nihil.
Il
Tempo del Buddha è definito da grandi controversie, è
il tempo della “giungla delle opinioni”
I
Kalama investiti dai mille credi degli asceti itineranti sono
confusi e chiedono a Gautama in cosa credere: un sraman dice una
cosa, un altro la confuta. L’illuminato che detesta dogmi e
fanatismi li invita a dubitare di tutto e basarsi solo sul giudizio
personale. Esistono variazioni notevoli nel mondo del buddismo e due
esempi le evidenziano: il primo riguarda il monaco Maha Ghosananda
che ebbe la famiglia massacrata dai Khmer Rouge, li perdonò e
chiese che fossero invitati ai colloqui per definire la nuova
Cambogia. Il secondo riguarda Shaku Soyen, un monaco zen, che
giustificò l’imperialismo giapponese, i massacri in
Manciuria e si rifiutò di firmare la condanna di Tolstoj per
la guerra russo – giapponese spiegando al mondo che, se combattuta
per una ragione giusta, la guerra non è necessariamente
orrenda. Dopo il massacro di Nanchino
leggere quello che insegna Shaku Soyen fa inorridire.
Ma
così funziona il mondo: un santone, un monaco, un sraman, un
taumaturgo, uno sciamano si sveglia la mattina, dopo una notte
travagliata, e cambia la prospettiva dell’Oltremondo. Quattro
parole e annienta una visione del mondo. Il problema è poi
credergli.
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