sabato 20 agosto 2011

CAPITALISMO E DISOCCUPAZIONE

Io dico che l'umanità si merita quel che ha.Con la scusa della libertà è sparito il comunismo (con tutti i suoi eccessi) ma il rimedio è peggiore del male. Sino a quando si continuerà a ritenere che il lavoro sia in funzione del profitto e non il profitto in funzione del lavoro, sino a quando le imprese potranno liberamente licenziare indipendentemente dalla loro condizione economica (giacché spesso si licenzia non perché i bilanci siano in passivo ma per aumentare il profitto), sino a quando le imprese non saranno costrette ad ammettere la partecipazione dei dipendenti agli utili (idea che fu persino di Mussolini nella R.S.I., essendo rimasto di anima socialista) allora bisognerà ammettere che Marx è ancora vivo.Volete il capitalismo con la liberalizzazione e la privatizzazione spinta al massimo? Tenetevi le conseguenze.

il calo dell'occupazione dipendente sarà dello 0,7%

«Autunno nero per l'occupazione»

La stima di Unioncamere: si perderanno 88 mila posti
di lavoro. Tasse locali aumentate del 138% in 15 anni

il calo dell'occupazione dipendente sarà dello 0,7%

«Autunno nero per l'occupazione»

La stima di Unioncamere: si perderanno 88 mila posti
di lavoro. Tasse locali aumentate del 138% in 15 anni

MILANO - Sarà un autunno nero per l'occupazione: anche se l'emorragia dei posti di lavoro registra un rallentamento, il saldo a fine 2011 per le imprese con almeno un dipendente (circa 1,5 milioni) mostra ancora il segno meno: 88mila i posti in uscita - dice Unioncamere - pari a un calo dell'occupazione dipendente dello 0,7%.

IMPRESE A RISCHIO - Più a rischio il lavoro nelle piccole e medie imprese e, a livello geografico, è il Sud a mostrare un deciso affanno. Nel 2010 il saldo negativo era stato di 178mila unità, -1,5%. Peggio ancora era andata nel 2009, anno clou della crisi: 213.000 i posti bruciati, pari a -1,9%.

INVERSIONE DI TENDENZA - Nei numeri del centro studi Unioncamere il 2011 vede quasi 44mila entrate in più rispetto al 2010 e 47mila uscite in meno ma, anche a causa dell'accresciuta incertezza sulla scena internazionale, l'inversione di tendenza non sembra essere alle porte per le imprese dell'industria, commercio e servizi. Per il settore industriale a fine 2011 è attesa una perdita di quasi 59mila unità (-1,2%); meglio i servizi che dovrebbero fermarsi a quota -29mila unità (-0,4%). Crollo invece per le imprese delle costruzioni (quasi 29mila posti in meno). Nei servizi, l'unico settore che arriva a perdere un punto percentuale è relativo agli alberghi e ristoranti, mentre i tassi di variazione degli altri comparti sono compresi tra il -0,7% (servizi alle imprese) e il -0,2% (commercio al dettaglio). Unico segno più i servizi avanzati, dove le imprese pensano di incrementare di circa 1.500 unità i propri dipendenti.

TASSE LOCALI - Ed un'altra cattiva notizia arriva dal fronte delle tasse. Tra il 1995 e il 2010 la tassazione a livello locale è aumentata del 137,9%. In termini assoluti, le entrate fiscali delle Amministrazioni locali (Comuni, Province, Regioni) sono passate da 40,58 miliardi a 96,55 miliardi di euro. Sono questi i principali risultati emersi da una elaborazione realizzata dalla Cgia di Mestre, dati a prezzi costanti 2010, ovvero al netto dell'inflazione. Secondo La Cgia, inoltre, l'amministrazione centrale ha invece ha incrementato le entrate «solo» del 6,8%. Se nel 1995 il gettito era di 326,69 miliardi, nel 2010 ha raggiunto i 348,92 miliardi di euro, mentre il Pil, sempre in questi ultimi 15 anni, è cresciuto nel nostro Paese del 19,1%.

Redazione online
20 agosto 2011 18:11

8 commenti:

andrea ha detto...

E il 138% di tasse in più, secondo lei sarebbero colpa del capitalismo? ma come ragiona? si vede che è stato un prof di filosofia(senza offesa, ma in genere filosofi e intellettuali, peccano di supponenza, e per il solo fatto che hanno studiato montagne di libri, credono di potere conoscere tutto, in genere di economia non capiscono nulla. Un commerciante "ignorante", di solito è molto più competente in materia economica, di un filosofo... )!

andrea ha detto...

"sino a quando le imprese non saranno costrette ad ammettere la partecipazione dei dipendenti agli utili"

Praticamente, propone l'abolizione del lavoro dipendente(cioè i dipendenti parteciperebbero non solo agli utili, ma anche alle PERDITE!).Ma è davvero sicuro che un cambiamento del genere, sarebbe nell'interesse dei lavoratori?secondo me rischiare il capitale altrui, sarebbe il sogno di molti imprenditori, ma i dipendenti non avrebbero molto da guadagnarci.
Immagini ad esempio un'azienda che dovesse chiudere il bilancio in negativo per 3-4 anni di seguito; in caso di "socializzazione di profitti e perdite", per i dipendenti sarebbe un salasso.Nel migliore dei casi avrebbero lavorato 4 anni, perdendo gran parte del salario per finanziare le perdite; mentre nel peggiore dei casi avrebbero lavorato gratis o addirittura in perdita!
La peculiarità del lavoro dipendente, è proprio quella di non dover partecipare al rischio dell'intero processo produttivo e commerciale, ma sapere in anticipo a quanto ammonterà il proprio compenso, ed essere liquidati subito(mensilmente), senza dover dipendere dall'esito (positivo o negativo) dell'intero processo imprenditoriale.
Se io, lavoratore dipendente, produco un prodotto, vengo pagato immediatamente, prima ancora che la vendita di quel prodotto, generi un profitto(o perdita). Ma se chi ha la responsabilità decisionale all'interno dell'azienda, compie un errore di valutazione, e quel prodotto x fatto con le mie mani, non si riesce più a vendere al prezzo previsto(e quindi l'impresa ha una perdita), è giusto che sia anche io a pagarla?
Insomma chi ci guadagnerebbe dall'abolizione del lavoro dipendente(cioè dalla socializzazione di profitti e perdite)? è davvero sicuro che a guadagnarci sarebbe il normale lavoratore?

Pietro Melis ha detto...

(1)
Ma questo Andrea perché non va a cercarsi un altro blog invece di venire a rompere da me?
Comunque, colgo l'occasione per rispondere ad altri possibili obiettori, e non a lui, che, se mi risponde ulteriormente, dato il suo grado di supponenza, non avendo fatto le letture di economia politica che ho fatto io(pur non essendo un economista), non gli risponderò se non lo cancellerò. Mi sono sorbito sin da giovane alcuni di libri di classici dell'economia, soprattutto della collana Boringhieri, che posso anche citare.Sweezy,Pareto, Meek, Samuelson, Lange. Dobb (a cura di Claudio Napoleoni) Teoria dello sviluppo del capitalsmo; Maurice Dobb, Economia politica e capitalismo;Eric Roll, Storia del pensiero economico;David Horowitz (a cura di), Marx, Keynes e i neomarxisti (Robinson,Bronfenbrenner, Sweezy, Dobb ed altri); Claudio Napoleoni, Smith, Ricardo, Marx; Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci; Alfred Schumpeter, Storia dell'analisi economica. All'indirizzo marxista (che parte dall'errata identificazione del valore di una merce con la quantità di ore necessarie pe produrla, non tenendo conto del valore intrinseco di una certa materia e della sua scarsità, come l'oro, per cui Marx nel III libro del Capitale si trovò in difficoltà nel dedurre il costo di una merce sul mercato, limitandosi a dire che la domanda e l'offerta potevano soltanto far variare di poco il valore della merce) si contrappose quello dei marginalisti (Walras e Marshall,per esempio)che, al contrario, partendo dal presupposto dogmatico che il capitalismo fosse l'unico sistema di produzione, considerarono il valore di una merce sulla base dell'utilità (marginale) ritenuta tale dal consumatore. Ma anche questa teoria si rivelò debole in quanto presupponeva che l'utilità dipendesse da fattori prettamente soggettivi, spesso, come si sa, imposti proprio dalla propganda dei produttori. La teoria marginalistica dimostra tutta la sua debolezza nel dover presupporre un sistema economico in equilibrio tra domanda ed offerta. Keynes, avvedendosi delle difficoltà sia della teoria marxista del valore eguale lavoro, sia del liberismo della domanda e dell'offerta, che generava disoccupazione, in Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (Utet)cercò di trovare una via di mezzo tra socialismo e capitalismo limitandosi a salvare il capitalismo con l'intervento diretto dello Stato sull'economia favorendo opere pubbliche (come quelle di infrastruttura) che generassero maggiore occupazione a spese dello Stato anche a costo di un aumento del disavanzo pubblico. Schumpeter capì meglio di tutti che il capitalismo, per i suoi stessi cicli interni, che paradossalmente portavano il suo maggiore sviluppo al suo declino, per sovraproduzione, un giorno sarebbe stato sostituito dal socialismo. Non esiste una teoria economica che si possa definire migliore dell'altra in senso assoluto. La scelta di fondo infatti trascende qualsiasi teoria economica. La scelta tra capitalismo e socialismo non è economica ma dipende dalla questione relativa a ciò che sia più importante nella vita umana, l'arricchimento continuo o la sufficienza di una vita decorosa che non abbia come fine il sempre maggiore guadagno nel profitto. E qui aveva ragione Marx quando riteneva che l'economia capitalistica riducesse l'uomo ad una pura merce ponendolo in uno stato di alienazione.

Pietro Melis ha detto...

(2)
Scrisse Engels (compagno e finanziatore di Marx) che la prova del budino consiste nel mangiarlo. E allora verifichiamo nei fatti il comunismo e il capitalismo. Verifichiamo il comunismo quando esisteva nell'Unione Sovietica. I Paesi capitalistici criticavano il sistema soprattutto per questioni non economiche. Il comunismo non lasciava spazio alla libertà di pensiero (è vero), era un sistema poliziesco (però garantiva l'ordine, accippicchia! e non vi erano il disordine e la criminalità degli Stati capitalistici). In secondo piano venivano le critiche sul piano economico con l'affermare che il comunismo manteneva tutti in uno stato di povertà. MA CHE COSA SI INTENDE PER POVERTA'. Questo è il punto. A parte alcuni burocrati del partito che nell'Unione Sovietica si permettavano la dacia (ben poca cosa) la povertà veniva commisurata alla ricchezza di pochi negli Stati capitalistici, dove tuttora il superfluo sembra diventare il necessario. Vi è gente che non sa vestirsi se non compra abiti cosiddetti firmati facendo guadagnare quei parassiti della società che sono i "grandi" stilisti che pagano altri parassiti che sono le modelle, che credono che il loro sia un lavoro. Vi sono parassiti come i calciatori che sono ricchi alle spalle degli stronzi che vanno a vedere le partite di calcio o si abbonano a Sky per vederle. Insomma, la povertà veniva misurata sulla base di criteri di riferimento che erano quelli di una società dove molti bisogni erano stati creati artificialmente dai produttori e dalla pubblicità. Certamente nell'Unione Sovietica erano tutti poveri rispetto a quei pochi ricchi che negli Stati capitalistici speculavano sul lavoro mal pagato della maggioranza. Quando l'Unione Sovietica è sparita si sono visti subito i risultati. Infiltrazioni della mafia internazionale, arricchimento di pochi e povertà maggiore della grande maggioranza. Nell'Unione Sovietica non vi erano barboni viventi ai margini della società. Il lavoro non era soltanto una possibilità assicurata a tutti, ma un dovere garantito dallo Stato. Non vi erano certamente i ricchi. Ma non vi erano nemmeno coloro che oggi sono senza casa e abbandonati a se stessi senza lavoro. Questi sono i frutti della privatizzazione, del mito del liberismo, della globalizzazione che ha fatto sì che l'economia della finanza (nemmeno l'economia reale dei produttori, ma quella degli speculatori in borsa) avesse il predominio sulla politica. Situazione assurda.
Ed è vero che con la partecipazione agli utili di impresa i dipendenti rischiano anch'essi. Ma che cosa rischiano in più di fronte al rischio che l'impresa chiuda e licenzi tutti aumentando la disoccupazione? Prima di dire certe imbecilllità bisogna riflettere. Oggi le imprese tendono ad avere una mano d'opera assunta a tempo determinato e che possa perciò essere licenziata perché non venga a costare di più in base all'anzianità di lavoro. Una regola aurea dovrebbe essere una legge che impedisse ad ogni impresa di licenziare un dipendente (riducendo la mano d'opera solo per aumentare il profitto) quando i suoi bilanci (che non debbono essere truccati pena una grave sanzione, anche penale) non giustifichino la riduzione del personale. Se un'impresa ha un bilancio in attivo non deve avere la libertà di licenziare in funzione di un maggiore profitto. E nemmeno nel caso in cui il profitto diminuisca pur non arrivando al passivo in bilancio. L'economia deve essere soggetta prima di tutto alla conservazione del posto del lavoro perché il lavoro non sia una merce a disposizione del profitto. Questo voleva dire Marx, anche se era errata l'identificazione (ripresa da Ricardo) del valore di una merce con la quantità di lavoro necessaria per produrla. E sotto questo aspetto Marx è ancora vivo. Mentre gli economisti a difesa del capitalismo sono morti. Avverto che non tornerò ulteriormente sull'argomento perché non ho altro da aggiungere.

Pietro Melis ha detto...

(3)
Mi sono dimenticato di dire che partecipazione agli utili degli operai non significa che l'operaio non abbia in ogni caso uno stipendio base. Altrimenti anche i dirigenti d'azienda dovrebbero rimanere senza stipendio (che comunque dovrebbe essere diminuito essendovi una sproporzionne inaccettabile tra lo stipendio degli operai e quello dei dirigenti, che spesso aumenta la passività). Significa, in caso di passività di bilancio, non diminuirla a danno degli operai. Ma un'azienda non può rimanere in passivo per molti anni. Se non recupera la passività successivamente è destinata a chiudere. E in tal caso la sorte sarebbe eguale per tutti, dirigenti e operai.

andrea ha detto...

Grazie per le risposte.
Prima di tutto ci terrei a precisare che non sono venuto qui, per "rompere", ma semplicemente ho letto una cosa che dal mio punto di vista mi sembra totalmente infondata, e ho deciso di farglielo notare. Se non desidera repliche, potrebbe anche chiudere i commenti!

La mia osservazione era in realtà molto più semplice di tutto il suo discorso filosofico sull'economia.
Lei praticamente afferma che il calo dell'occupazione, sarebbe causato dall'avidità degli imprenditori...ne è davvero convinto??
Nel suo strano ragionamento, non tiene minimamente conto di molti aspetti:
1) stiamo vivendo una crisi finanziaria globale, e di certo i singoli imprenditori, nei processi decisionali della finanza mondiale, non contano nulla. Le responsabilità di questa crisi, secondo me sono da ricercare soprattutto nei leader politici, e nell'elite responsabile delle grandi istituzioni finanziarie internazionali ( Banca Mondiale, FMI, FED)

2) dimostra di non conoscere granché il sistema fiscale italiano, che tartassa in maniera esagerata il lavoro, e gli investimenti produttivi, e ha un carico leggero sulle rendite. Per questo la maggior parte degli imprenditori italiani, invece di reinvestire i profitti all'interno dell'azienda, per crescere, per espandersi sul mercato(creando ovviamente anche nuovi posti di lavoro), preferiscono dirottare i propri profitti in posizioni di rendita( immobili, terreni, investimenti finanziari ecc...) oppure investire in produzione all'estero.
Ma di chi è la colpa di questa situazione? è dell'avidità dei singoli imprenditori? o dell'immobilità dei politici, che non sono capaci di fare una riforma fiscale intelligente, in modo tale da tassare e disincentivare le rendite(di qualunque tipo esse siano, senza tante distinzioni tra ricchi, e meno ricchi, anche quelle del lavoratore dipendente), e detassare il lavoro, e gli investimenti produttivi? E per tassare le rendite(e detassare il lavoro e gli investimenti produttivi), senza tante distinzioni particolari, basterebbe stimare il reddito (e la conseguente imposizione fiscale) sulle proprietà(anziché sul profitto di impresa e salario, come si fa oggi).
E così chi investe in case, terreni, finanza, beni di lusso vari, ecc... sarebbe tassato molto più di chi reinveste all'interno dell'azienda!
Se si facesse così, secondo me i licenziamenti calerebbero drasticamente, e per gli imprenditori diverrebbe molto più conveniente crescere, piuttosto che tagliare.

andrea ha detto...

"Non esiste una teoria economica che si possa definire migliore dell'altra in senso assoluto"

Non sono molto d'accordo, è vero che l'economia è anche un fatto di scelte politiche e sociali, ma esistono teorie che partono da presupposti totalmente falsi, e teorie che affondano si basano sull'analisi della realtà, e non cercano di piegarla e strumentalizzarla per finalità politiche.

Per esempio un liberismo basato sull'ottimo di Pareto, può esistere solo nel mondo delle idee, ma nell'economia reale, come ha dimostrato matematicamente Herbert Scarf( Scarf, H.E. with Hansen, T, 1973, The Computation of Economic Equilibria, Cowles Foundation for Research in economics at Yale University, Monograph No. 24, New Haven, CT and London, UK: Yale University Press )non può esistere la cosiddetta "mano invisibile", e quindi nemmeno il libero mercato perfetto che immaginava Pareto.

Insomma le teorie economiche, ovviamente hanno a che fare anche con le idee politiche, però se una teoria viene smentita dai FATTI( dalla matematica, o da prove empiriche), è FALSA!

andrea ha detto...

Per concludere, secondo me sia socialismo, che liberismo, sono teorie economiche "vecchie"(non solo in senso anagrafico), superate, entrambe smentite sia da prove empiriche che dalla matematica, e quindi è il caso di voltare pagina, invece che illudersi di poter risolvere problemi nuovi, con soluzioni che hanno fallito sul piano storico!

Saluti