Voltaire ritorceva contro
Cartesio l’identificazione dell’essenza dell’uomo con il suo pensiero,
trasformato in sostanza pensante. Nel Dizionario
filosofico (alla voce bestie)Voltaire
scrive: “ Che vergogna, che miseria,
aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e di sentimento, che
fanno sempre tutto ciò che fanno nella stessa maniera, che non imparano niente,
non si perfezionano I barbari uomini
prendono questo cane che suol vincerli così facilmente nell’amicizia: lo
inchiodano su una tavola e lo sezionano vivo per mostrarti le vene
mesenteriche. Tu scopri in lui gli stessi organi di sentimento che sono in te.
Rispondimi, o meccanicista, la natura ha dunque combinato in lui tutte le molle
del sentimento affinché egli non senta? Il cane ha dei nervi per essere
impassibile? Non fare più di queste balorde supposizioni...Le anime degli animali sono forme sostanziali, ha detto
Aristotele...Le anime delle bestie sono
materiali, gridano altri filosofi. E questi non hanno avuto più fortuna
degli altri...Ascoltate qualcun’altra di queste bestie che ragionano sulle
bestie: la loro anima è un essere spirituale, ma che muore col corpo. E che
prova ne avete? ...Ma le bestie più grosse son stati quelli che hanno sostenuto
che l’anima animale non è corpo né spirito. Questo è un bel sistema! Noi non
possiamo intendere come spirito se non qualche cosa di ignoto che non è corpo:
così il sistema di questi signori si riduce a questo, che l’anima delle bestie
non è corpo, e neppure qualcosa che non sia un corpo. Quale può essere la causa
di tanti errori così contrastanti? L’abitudine che hanno sempre avuto gli
uomini di mettersi a esaminare che mai sia una certa cosa prima di appurare se
quella tal cosa esista”. Voltaire si scagliò contro i barbari giansenisti di
Port-Royal (agostiniani) che crocifiggevano i cani su una tavola di legno
praticando la vivisezione per vederne le vene, convinti cartesianamente che
essi fossero soltanto macchine.
Nel 1772 in Il faut prendre un parti ou du Principe
d’action [1]
Voltaire scrive: “C’è forse qualcosa di più abominevole del nutrirsi continuamente
di cadaveri? Eppure, io non vedo tra noi nessun moralista, nessuno dei nostri
loquaci predicatori, nessuno nemmeno dei nostri Tartufi, che abbia mai fatto la
minima riflessione su quest’orrenda abitudine, divenuta in noi natura. Bisogna
risalire sino al buon Porfirio, ai compassionevoli pitagorici, per trovare
qualcuno che abbia cercato di farci vergognare della nostra cruenta ghiottoneria;
oppure bisogna recarsi tra i brahmani. Infatti i nostri monaci, costretti dal
capriccio dei fondatori dei loro ordini, a rinunziare alla carne, sono
assassini di sogliole e di rombi, quando non lo sono di pernici e di quaglie. E
né tra i monaci né nel Concilio di Trento né nelle nostre assemblee del clero
né nelle nostre accademie si è mai pensato di chiamare un male quella carneficina
universale. Nei concilii non vi si è mai pensato più che nelle taverne”.
Tra i materialisti francesi
emergono i nomi di La Mettrie, di Helvetius e di D’Holbach. Il primo ne L’uomo macchina (1747), rovesciando il
dualismo cartesiano aveva attribuito alla materia la capacità di generare il
pensiero secondo una concezione vitalistica facente riferimento ad una corrispondenza
tra fenomeni psichici e fenomeni fisici, che giustificano il legame naturale
tra l’uomo e tutti gli altri animali. “Che cos’era l’uomo prima dell’invenzione
delle parole e delle lingue? Un animale appartenente alla specie umana, che con
molto meno istinto naturale degli altri di cui allora non si credeva re, si
distingueva dalla scimmia e dagli altri animali solo come la scimmia si
distingue da questi ultimi cioè grazie a una fisionomia esprimente maggior
discernimento. Poi, si è addestrato un uomo come si addestra un animale; siamo
diventati autori come saremmo potuti diventare facchini. ...Tutto è stato fatto
per mezzo di segni; ogni specie ha compreso ciò che poteva comprendere, ed è in
questo modo che gli uomini hanno acquistato la conoscenza simbolica... La
natura ci aveva fatti per essere inferiori agli animali, o almeno per far
meglio emergere con ciò i prodigi dell’educazione, la quale soltanto ci innalza
da qual basso livello e ci eleva poi sopra di essi ...Nell’uomo, si dice,
esiste una legge naturale, una conoscenza del bene e del male, che non è stata
impressa nel cuore degli animali...Abbiamo qualche esperienza atta a
convincerci che soltanto l’uomo è stato illuminato da una luce rifiutata a
tutti gli altri animali? ...Per decidere se gli animali, che non parlano
affatto, hanno ricevuto o meno la legge naturale occorre riferirsi a quei segni
di cui ho parlato, ammesso che esistano. I fatti sembrano provare che l’hanno
ricevuta...La storia ci offre il celebre esempio di un leone che non volle
sbranare un uomo abbandonato al suo furore perché riconobbe in lui il suo
benefattore. Quanto sarebbe augurabile che anche l’uomo mostrasse sempre la
stessa riconoscenza per i benefici e lo stesso riguardo per l’umanità...Ma
voglio supporre di ingannarmi...Concedo che gli animali, anche i migliori, non
conoscano la distinzione tra il bene ed il male morale...L’uomo non è fatto di
un limo più prezioso; la natura ha impiegato una sola e medesima pasta di cui
ha variato soltanto i lieviti. Se dunque l’animale non si pente di avere
violato il sentimento interno di cui parlo, o piuttosto se ne è del tutto
privo, bisogna necessariamente che l’uomo si trovi nella stessa situazione: e
in tal caso addio alla legge naturale e a tutti quei bei trattati che si sono
pubblicati intorno ad essa. Tutto il regno animale ne sarebbe privo nella sua
generalità! Ma, reciprocamente, se l’uomo distingue sempre ...ciò che è vizio e
ciò che è virtù in base all’inconfondibile piacere o alla particolare
ripugnanza che ne sono le naturali conseguenze, ne segue che gli animali, fatti
della stessa materia, alla quale forse è mancato solo un certo grado di
fermentazione perché fossero in tutto uguali agli uomini, devono partecipare
delle stesse prerogative dell’animalità, e quindi non esiste anima o sostanza
sensitiva priva di rimorsi”. [2]
Si può commentare rilevando
come La Mettrie forse vada oltre un certo limite nell’attribuire eguale
sentimento di rimorso all’animale non umano, e che pertanto arrivi ad
antropomorfizzare l’animale non umano. Ma è importante l’avere riconosciuto che
tutti gli animali sono fatti della stessa pasta e che li distingue solo il “lievito” con cui
ognuno è stato impastato. Egli, tuttavia, avendo definito la legge naturale un
sentimento che induce ogni animale a conseguire la propria felicità
insegnandogli ciò che non deve fare in base a ciò che non vorrebbe gli fosse
fatto, non seppe tradurre tale legge in un diritto naturale a causa della sua
concezione della conoscenza fondata unicamente sull’esperienza, che, avendo
come guida le sensazioni, non poteva giustificare la legge naturale in termini
di normatività a livello di ragione.
Helvetius in Dello
spirito (1758)[3] considerò l’amor proprio come unico movente
dell’azione umana e la virtù in funzione del vantaggio sociale che da essa
potesse conseguire. Egli, al contrario degli altri due materialisti citati, si
limitò ad un raffronto tra la struttura del corpo umano e quella degli animali
superiori, per dedurne la superiorità dell’uomo grazie soprattutto alla sua
capacità di inventare consentitagli dall’uso della mano. Voltaire in Questions sur l’Encyclopedie obietterà
ad Helvetius che “non è perché le scimmie hanno le mani differenti da noi che
esse hanno meno pensieri, infatti le loro mani sono come le nostre”. Su questo
punto Voltaire si sbagliava, perché non aveva considerato che le scimmie non
hanno l’opposizione del pollice al resto della mano che ha consentito
l’articolazione della mano umana. Ma è riduttiva anche l’attribuzione
dell’evoluzione umana all’evoluzione della struttura della mano, secondo una
concezione che, presente già in Giordano Bruno, diverrà poi, come in Feuerbach,
un topos dell’interpretazione
materialistica di indirizzo umanistico per il voler spiegare la superiorità
dell’uomo come spirito, sebbene animale, per una tendenza prevalente ad
interpretare l’evoluzione in senso finalistico e perciò antropocentrico.
Tuttavia Helvetius rifiuta di considerare gli animali come semplici macchine:
“qualcuno potrebbe obiettarmi che Dio non può avere esposto al dolore e alla
morte delle creature innocenti, e sosterrà così che le bestie sono semplici
macchine: a questa obiezione risponderei che, non avendo la Chiesa né la
Scrittura in alcun luogo asserito che gli animali sono semplici macchine, noi
possiamo benissimo ignorare i motivi della condotta divina verso gli animali e
supporre questi motivi giusti. Non c’è bisogno di ricorrere alla battuta del
padre Melebranche, il quale, a chi asseriva che gli animali sono sensibili, al
dolore, replicava che evidentemente
avevano mangiato il fieno sbagliato”.[4]
D’Holbach in Sistema della natura (1770) nega che l’uomo si differenzi dagli
altri animali come essere libero, in quanto soggetto ad un rapporto di
causalità che fa capo alle leggi comuni a tutti gli esseri naturali.
L’immortalità dell’anima è un’invenzione della religione, e l’uomo è guidato,
come già aveva scritto Helvetius, soltanto dalla ricerca del benessere, secondo
la sua natura fisica. Il potere politico trova una giustificazione soltanto
nella funzione che dovrebbe avere di favorire il benessere collettivo.
L’utilitarismo di D’Holbach sposta il suo accento sul collettivo, al contrario
di quello individualistico di Helvetius. Per D’Holbach (Il buon senso, 1772) le differenze d’ingegno che si trovano tra gli
uomini sono dovute alla varietà che sussiste negli organi degli individui di
una stessa specie e tale diversità dipende anche dal maggiore grado di
esercizio degli organi, che fa sì che i grandi conquistatori abbiano anime che
sono peggiori di quelle delle bestie feroci, poiché molti animali mostrano di
avere più bontà e più ragionevolezza degli uomini e le stesse bestie feroci non
si ammazzano fra loro. “I filosofi speculativi che si immaginano o che vogliono
farci credere che tutto nell’universo è stato fatto per l’uomo sono molto
imbarazzati quando si chiede loro quale contributo al benessere umano possano
dare tanti animali nocivi che infestano continuamente il nostro mondo...Tutti
questi animali non ragionerebbero forse altrettanto giustamente quanto i nostri
teologi se sostenessero che l’uomo è stato creato per loro?...La vanità
dell’uomo lo persuade che è il centro dell’universo. Egli si crea un mondo e un
Dio per suo esclusivo vantaggio; si crede tanto importante da poter alterare a
suo piacimento il corso della natura; ma ragiona da ateo appena si tratta degli
altri animali. Si immagina che gli esseri di specie diversa dalla sua siano degli
uomini poco degni delle attenzioni della Provvidenza universale, e che le
bestie non possano essere oggetto della sua giustizia o della sua bontà... Sebbene
essi vedano le bestie, sotto un Dio giusto, gioire e soffrire, essere sane e
malate, vivere e morire al pari degli uomini, non viene loro in mente di chiedere
per quali colpe queste bestie han potuto attirarsi l’odio del despota della
natura. Filosofi accecati dai loro pregiudizi teologici, per trarsi d’imbarazzo
hanno spinto la loro follia fino a sostenere che le bestie non sono senzienti.
Non riconosceranno che la natura non è
minimamente fatta per loro?” [5]
2 commenti:
Girolamo Rorario, Gli animali pensano meglio degli uomini?, a cura di L.Carotti, Edizioni della Normale, Pisa 2015
Ecco, se c'è una cosa che aborro della filosofia di Severino, della quale per il resto sono un fervente sostenitore, è la posizione della specie umana come specie eletta, incarnazione del Destino della Verità, a differenza di tutte le altre.
È un intollerando elemento di narcisismo e meschinità che stride con tutto il resto di ciò che ha detto e scritto.
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