martedì 8 ottobre 2019

IL CRIMINALE MAFIOSO GIOVANNI BRUSCA: COME ESTIRPARE LA MAFIA

Può uno che ha ucciso un centinaio di persone, è stato l'esecutore della strage di Capaci dove morì Falcone con la sua scorta,  ha ucciso un bambino di 13 anni Giuseppe Di Matteo soffocandolo e sciogliendolo nell'acido essere rimesso in libertà dopo tanti anni? E' inammissibile. Per i delitti efferati, come quelli di mafia, ma non soltanto di mafia, come nel caso dei due poliziotti uccisi a Trieste occorre la pena di morte. Tali individui, anche i cosiddetti pentiti, hanno perso il diritto di vivere. L'assassino si pone in uno stato di natura dove non vi sono leggi, e dunque espone la sua vita a chiunque a sua volta voglia ucciderlo. Lo Stato dunque non può sostituirsi alla volontà dell'ucciso che non avrebbe voluto perdonare il suo assassino. E non ci si azzardi a ricorrere al perdono dei parenti perché i parenti non possono sostituirsi alla volontà della vittima. Il filosofo Kant ha scritto che l'unica redenzione per l'assassino può consistere soltanto nell'invocare egli stesso la pena di morte per riacquistare la dignità di uomo. Non vi è carcere a vita che possa sostituire la pena di morte, che, se esistesse, eliminerebbe tutti i capi mafia, che continuano a comandare dal carcere. 
Per non ripetermi rinvio a 
20 mag 2012 - RISPOSTA ALLA CRITICA DI TUTTI GLI IGNORANTI CORROTTI DALLA ... E nelle Leggi (L. IX) è prevista la pena di morte per gli omicidi ...
Chi non avesse avuto intenzione di uccidere non avrebbe avuto paura di richiedere allo Stato la pena di morte, per maggiore tutela della propria vita, ma, al ...
Riporto dal mio primo articolo quanto segue.       
Ha scritto Kant: “Se poi egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro surrogato che possa soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una vita per quanto penosa e la morte; e di conseguenza non esiste altra eguaglianza tra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale” (Metafisica dei costumi, parte II, sez. I, nota). 5

E Schopenhauer, utilizzando contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello stesso Kant (“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto come mezzo”, osservava, rincarando la dose, che essa era infondata alla luce della giustificazione della pena di morte: “A quella formula ci sarebbe da obiettare che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente, soltanto come mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile per confermare alla legge, se attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il suo fine”.6 In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte dell’umanità, e dunque la sua vita cessa di essere un fine per diventare solo un mezzo della forza deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da qualsiasi concezione utilitaristica della pena, come quella di Schopenhauer, che vedeva nella pena un mero mezzo per ottenere un bene per la società. Per Kant è lo stesso delitto che richiede una proporzionata pena come imperativo categorico non potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio che serva da deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte si giustifica sulla base della considerazione che l’uomo, anche quando è un criminale, non può mai essere considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe richiedere per sé la pena di morte per riscattarsi come uomo.

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