Di fronte a certi fatti orribili di sangue soltanto dei cervelli malati possono continuare a condannare la pena di morte. Bisogna liberarsi dei subanimali che con ferocia uccidono. Subanimali perché i predatori non uccidono per crudeltà ma per motivi di sopravvivenza nei rapporti interpsecifici. In quelli intraspecifici gli animali non umani sono migliori di molta umanità. Episodi che spesso superano i film dell'horror. Poi si troveranno i soliti avvocati puttani che si vendono alle cause più sbagliate, o gli psicologi che troveranno argomenti per attenuare la colpa con il solito motivo: incapace di intendere e volere. Ma subito dopo l'assassino riacquista la piena capacità di intendere e volere. Nel caso esaminato questi due orribili assassini avevano già programmato con piena lucidità il loro terrbile delitto. Cercavano qualcuno da uccidere. Debbono perciò meritare la morte, che per essi sarebbe una sofferenza minore rispetto a quella subita dalla loro vittima prima di morire.
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E il padre che si permette di dire che il figlio era un ragazzo modello. Il padre avrebbe dovuto richiedere la pena di morte per l'efferato delitto di quel mostro che fece nascere. Ho tratto occasione da questo tremendo delitto che supera la fantasia del peggiore film horror per riportare quanto scrissi nel 2006 nel mio libro Scontro tra culture e metacultura scientifica.
Sul diritto
naturale si
fonda la giustificazione della pena di morte. La condanna della
pena di morte
discende dalla solita confusione tra morale e diritto, che porta
lo Stato a
sostituirsi alla vittima innocente che non avrebbe voluto
moralmente perdonare,
con la conseguenza contraddittoria che l’assassino avrebbe un
diritto naturale
alla vita maggiore rispetto a quello della vittima. Coloro che,
“allignando
nella palude dell’emotivo”,[1]
gonfi di sentimento, ma privi di ragione, attribuiscono
ipocritamente alla pena
una funzione rieducativa (come si desume dall’art. 27 della
Costituzione
italiana), e non afflittiva, ritengono barbari i sostenitori
della pena di
morte.
Tra questi
barbari
dovrebbero essere inclusi allora anche il fondatore del
cristianesimo, S. Paolo
(che nell’Episola ai
Romani riconobbe
al governo, anche pagano, l’jus gladii,
cioè il diritto di spada), nonché il maggiore Padre della
Chiesa, S. Agostino,
il maggiore dottore di essa, S. Tomaso, il padre del liberalismo
moderno,
Locke, il maggiore filosofo dell’Illuminismo, Kant, sino a
giungere a Pio XII,
che, proposto per la beatificazione da Giovanni Paolo II, difese
una concezione
vendicativa della pena e giustificò la pena di morte vedendo nel
disprezzo
dell’ordine pubblico un’opposizione a Dio (Acta
Apostolicae Sedis 47, 1955). Pio XII. l’ultimo grande
papa. Dopo di lui il
caos nella Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, facendo visita
ad un carcere,
invitò i carcerati a sopportare la loro croce, come se i
delinquenti di ogni
specie potessero essere considerati vittime e non carnefici. Il
buonismo che
uccide la giustizia.
Platone nel Protagora afferma che è
comando divino
l’uccidere gli individui incapaci di giustizia, in quanto sono
una piaga
sociale. E nelle Leggi
(L. IX) è
prevista la pena di morte per gli omicidi volontari e l’esilio
per due o tre
anni per quelli involontari, essendo ritenuti tali quelli
causati da uno stato
d’ira motivato, che, tuttavia, non non vale come attenuante nel
caso di
patricidio o matricidio. Aristotele (Etica
nicomachea, V, 5), pur sfiorando soltanto l’argomento,
scrive che “alcuni
ritengono che la legge del taglione sia assolutamente il giusto;
e così
affermarno i Pitagorici: essi infatti definirono in senso
assoluto il giusto
come il rendere agli altri il contraccambio. Ma la legge del
taglione non si
accorda con la giustizia distributiva né con quella
regolatrice”, cioè
compensativa del danno subito. Infatti subito dopo Aristotele
spiega che è più
grave colpire un magistrato perché in tal caso chi lo colpisce
dovrà non
soltanto essere colpito, ma anche punito. Dunque Aristotele,
benché non accenni
espressamente alla pena di morte, chiarisce che la legge del
taglione è la base
della giustizia. ||||Rimane sottinteso che l’assassino merita la
morte che egli
ha inflitto ad altri.
Seneca,
autore delle Lettere a
Lucilio, che possono essere
considerate il capolavoro della filosofia morale di ogni tempo,
scrive nel De clementia che
la legge nel punire i
delitti può applicare anche la pena di morte, “estirpando i
malfattori dal
corpo sociale per assicurare la tranquilla convivenza degli
altri”.
Il diritto
romano consolidò
la teoria che la giustizia dovesse ritenersi pubblica vendetta
nei confronti di
chi attentasse al bene comune, identificato con l’utilità
sociale. Nell’età
moderna il diritto romano fu elaborato da filosofi e giuristi
secondo
l’indirizzo del diritto naturale, per trovare in esso la
giustificazione della
libertà di pensiero, ma anche quella della pena di morte in
difesa dell’ordine
pubblico[2]
Nelle Lettere[3]Agostino
evidenzia
come il perdono possa avere conseguenze negative su chi, invece
di
correggere la propria condotta, incrudelisca nella sua
arroganza, oppure,
correttosi nella sua condotta, induca tuttavia altri ad
approfittare sperando
in eguale impunità. Riprendendo il pensiero di S. Paolo,
Agostino scrive: “Se
fai il male, abbi paura, poiché l’autorità non senza ragione
porta la spada;
essa infatti è strumento per infliggere punizione ai malfattori
in nome di
Dio”. Inoltre S. Agostino scrisse nel De
libero arbitrio che “se l’omicidio consiste nel
distruggere o uccidere un
uomo, talvolta si può si può uccidere senza commettere peccato;
questo vale per
il soldato col nemico, per il giudice o il ministro con coloro
che fanno del male”.
In Agostino
prevale la
teoria della prevenzione come giustificazione della pena di
morte. Una funzione
prevalentemente retributiva, oltre che emendativa e di
prevenzione, ha, invece,
la pena di morte per S. Tomaso, che nella Summa
theologica (II, II, q. 68, a.1) giustifica la pena come
vendetta che si
esercita sui malvagi in quanto questi usurpano i diritti di Dio
e nella Summa contra
Gentiles (III,
cap. 146), dopo aver scritto che la
vita del delinquente deve essere sacrificata, allo stesso modo
in cui “il
medico taglia a buon diritto e utilmente la parte malata,
aggiunge che
“uccidere un uomo che pecca può essere un bene come uccidere
un’animale nocivo.
Infatti un uomo cattivo è peggiore e più nocivo di un animale
nocivo”. Vi è
dunque da domandarsi quale credibilità possa avere oggi la
Chiesa, che,
rinnegando circa 2000 anni di dottrina, da S. Paolo ad oggi, ha
abolito nel
1999 dal Catechismo
la pena di morte.
La condanna della pena di morte vuole essere espressione di
superiorità morale
(dettata dal sentimento), ma è di fatto espressione di
inferiorità giuridica,
causata dalla corruzione del diritto da parte della morale.
Montaigne nei Saggi (1580) scrive,
giustificando la
pena di morte, che “non si corregge colui che è impiccato; si
correggono gli
altri per mezzo suo”. Tale giustificazione prescindeva da una
concezione
retributiva, e perciò da diritto naturale, perché Montaigne,
esprimendo un
relativismo culturale, faceva discendere le leggi dal costume di
un popolo,
scrivendo che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere
dalla natura,
nascono invece dal costume…Per cui accade che quello che è fuori
dai cardini
del costume lo si giudica fuori dei cardini della ragione”.[4]
Non si capisce pertanto come egli potesse pretendere di
impiegare la ragione
per giudicare i costumi.
Montesquieu
ne Lo spirito delle leggi
(1749),
dove si dà la prima chiara formulazione della divisione dei
poteri, scrive che
“la pena di morte è provocata dalla natura delle cose…Essa è
come il rimedio
della società malata”.
Rousseau nel
Contratto sociale
(1762) considera
la pena di morte entro una concezione retributiva sul
presupposto che il
cittadino è obbligato ad obbedire alla volontà generale (della
maggioranza)
quale condizione della conservazione del patto sociale, che
implica la
conservazione della vita dei contraenti. Ma chi vuole conservare
la vita con il
contributo degli altri deve essere anche disposto a morire dal
momento in cui
cessa di essere membro della società perché ne è divenuto nemico
con il suo
delitto. La conservazione della società in tal caso è
incompatibile con quella
del criminale.
Scrive
Rousseau nel Contratto
sociale che “è appunto per non
essere vittime di un assassino che noi consentiamo a morire se
diventiamo
tali…Ogni malfattore diviene a causa dei suoi delitti nemico
della patria;
cessa di esserne membro; a questo punto la conservazione dello
Stato è
incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca”.
Ha scritto
Kant: “Se poi
egli ha ucciso, deve morire. Qui non esiste alcun altro
surrogato che possa
soddisfare la giustizia. Non c’è alcuna omogeneità tra una vita
per quanto
penosa e la morte; e di conseguenza non esiste altra eguaglianza
tra il delitto
e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al
criminale” (Metafisica dei
costumi, parte II, sez.
I, nota). [5]
E
Schopenhauer, utilizzando
contro Kant la seconda forma dell’imperativo categorico dello
stesso Kant
(“agisci in modo da trattare sempre l’umanità, tanto nella tua
persona quanto
nella persona di tutti gli altri, anche come fine, mai soltanto
come mezzo”,
osservava, rincarando la dose, che essa era infondata alla luce
della
giustificazione della pena di morte: “A quella formula ci
sarebbe da obiettare
che il delinquente condannato a morte è trattato, e giustamente,
soltanto come
mezzo e non come fine, come mezzo indispensabile per confermare
alla legge, se
attuato, la forza deterrente, nella quale appunto consiste il
suo fine”.[6]
In sostanza, per Schopenhauer l’assassino non fa parte
dell’umanità, e
dunque la sua vita cessa di essere un fine per diventare solo un
mezzo della
forza deterrente della legge. Ma, in effetti, Kant era alieno da
qualsiasi
concezione utilitaristica della pena, come quella di
Schopenhauer, che vedeva
nella pena un mero mezzo per ottenere un bene per la società.
Per Kant è lo
stesso delitto che richiede una proporzionata pena come
imperativo categorico
non potendo il condannato a morte essere utilizzato come esempio
che serva da
deterrente. Si può dire che per Kant la pena di morte si
giustifica sulla base
della considerazione che l’uomo, anche quando è un criminale,
non può mai essere
considerato un mezzo, per cui lo stesso criminale dovrebbe
richiedere per sé la
pena di morte per riscattarsi come uomo.
Verso la fine
del ‘700
Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) in Genesi
del diritto penale (1791), considerando che il diritto
penale trova la sua
giustificazione nella difesa della società e nella salvaguardia
dei cittadini,
ritenne che la pena giusta fosse quella che meglio garantisse la
conservazione
dei cittadini. Pertanto qualsiasi pena era giustificata. E in Memoria sulle pene capitali
(1830)
scrisse che “non si tratta più di vedere se esista il diritto di
punire sino
alla morte: ma bensì se esiste il bisogno di esercitare
questodiritto…Chi
commette un delitto commette un’azione senza diritto…Dunque il
male irrogato
per difesa necessaria al facinoroso è un fatto di diritto.
Dunque se questo
male dovess’essere spinto fino alla morte del facinoroso, questa
morte sarebbe
data con diritto…Voler poi negare indefinitivamente questo
bisogno sarebbe lo
stesso come dire in chirurgia non potersi dar il caso di dover
fare
l’amputazione di un membro”. Romagnosi riteneva
che la galera, pur senza lavoro, fosse per molti non un
castigo ma un
premio.
Hegel vide
nel delitto il
prevalere della volontà del singolo sulla volontà universale,
per cui la pena
consiste nel rovesciare la volontà del reo restaurando la
volontà universale,
che non significa recuperare il delinquente.[7]
In Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Hegel
espose, come Kant,
una concezione retributiva della pena, che ha la funzione di
restaurare
l’ordinamento violato. Criticando anch’egli, come Kant,
Beccaria, ricononobbe
allo Stato il diritto di applicare la pena di morte, giacché
“l’annientamento
del diritto è taglione, senza per questo essere vendetta”.[8]
L’abolizionista
si trova in
compagnia di Robespierre, che, prima di cambiare idea pochi anni
dopo, scriveva
nei Discorsi sulla pena di
morte, avvalendosi
dell’argomento del possibile errore giudiziario, che la pena di
morte era un
eccesso di severità, e precisava: “un vincitore che tagli la
gola ai suoi
prigionieri è definito un barbaro”. Egli
si poneva contro il Codice penale approvato dall’Assemblea
costituente nel
1791, che riconfermava la pena di morte prevista dalle leggi
dell’ancien regime.
L’abolizionista si trova
in compagnia anche dell’anarchico Max Stirner, che nell’opera L’unico e la sua proprietà
[9]
concepiva il diritto come come legato all’arbitrio del singolo,
sì da poter
scrivere: “Se tu riconduci il diritto alla sua origine, in te,
esso diventerà
il tuo diritto, e sarà giusto ciò che per te è giusto”. La
conseguenza è che
per Stirner il crimine esiste soltanto perché esiste il dominio
della legge che
si ammanta di sacralità, e non viceversa, e la punizione si
giustifica soltanto
perché lo Stato si arroga il diritto di esercitare una vendetta
chiamata punizione.
Si può vedere come il ragionamento degli abolizionisti nasconda
le stesse
premesse di una concezione anarchica dello Stato, il cui diritto
di punire si
fonderebbe unicamente su una pretesa sacralità della legge.
Stirner non si
avvide che, partendo dalla sua concezione anarchica
dell’individuo, a difesa
dell’unicità della vita, intesa come espressione di solo
egoismo, avrebbe
dovuto ritenere normale l’omicidio, e innaturale l’intervento
della legge a
difesa della vita dello stesso egoista. L’assolutizzazione
dell’individuo porta
a giustificare, contraddittoriamente, il suo annullamento sulla
base di una
concezione della legge intesa come espressione della forza, e
non come difesa
del diritto naturale all’autoconservazione.
Il famoso Dei delitti e delle pene
(1764) di
Beccaria nell’escludere la pena di morte esprime una concezione
contrattualistica e utilitaristica della legge,[10]
e pertanto non può che escludere una concezione retributiva
della pena. Secondo
Beccaria dal contratto sociale non deriva il diritto dello Stato
di applicare
la pena di morte perché gli uomini non possono avere contrattato
ciò, dando
agli altri il potere di ucciderli. Ma si noti come
l’affermazione di Beccaria
sia, oltre che illogica, soltanto una petizione di principio.
Infatti gli
uomini che avessero escluso la pena di morte sin dalla fase del
contratto
sociale per timore di essere uccisi avrebbero ammesso di aderire
contraddittoriamente
(perché in malafede) al contratto, avendo già d’allora intenzione di uccidere,
mentre il contratto
nasceva perché nessuno potesse più rimanere vittima degli altri.
Chi non avesse
avuto intenzione di uccidere non avrebbe avuto paura di
richiedere allo Stato
la pena di morte, per maggiore tutela della propria vita, ma, al
contrario,
l’avrebbe impedita chi avesse avuto in animo di uccidere, pur
aderendo al
contratto. Perciò l’esempio di Beccaria giustifica solo la
malafede.
Per Beccaria
la pena ha la
funzione di distogliere gli altri dal commettere eguale reato,
mentre gli è
estranea una concezione emendativa della pena, che serva al reo
per redimersi.
Ma si tratta di una giustificazione logicamente insostenibile,
giacché 1) o
tutti si dovrebbero sentire distolti; 2) o la pena non serve a
tutti quelli che
non si siano sentiti distolti, mentre per tutti gli altri
sarebbe inutile.
La pena serve
soltanto a
quelli che non si sentano distolti. Ma questa è una tautologia
che non spiega
alcunché.
Le
argomentazioni di
Beccaria contro la pena di morte sono dunque risibili. Egli
scrive: “Qual può
essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i
loro simili?
Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le
leggi…Non è dunque la
pena di morte un diritto…ma è una guerra della nazione con un
cittadino, che
giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere”. Quale
enorme
confusione di idee! Da una parte un assassino viene considerato
moralisticamente simile alla vittima innocente, dall’altra si
presenta come
negativo ciò che è positivo, che lo Stato, come in una guerra,
ritenga
necessario o utile usare le armi da guerra contro il nemico.
L’argomentazione
di Beccaria si rivolge contro di lui. Ma lungi da qualsiasi
considerazione
filosofico-umanitaria l’illuminista Beccaria è indotto a
chiedere per il
carcere perpetuo “una schiavitù perpetua! “fra ceppi o le
catene”, in cui “il
disperato non finisce i suoi mali”, come, invece, con la pena di
morte.
Beccaria condanna lo Stato che compra le delazioni e impone
taglie: “Chi ha la
forza di difendersi non cerca di comprarla. Di più, un tal
editto sconvolge
tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo vento
svaniscono
nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo
puniscono…Invece
di prevenire un delitto, ne fa nascere cento. Questi sono gli
espedienti delle
nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee
riparazioni di un
edificio rovinoso che crolla da ogni parte”.[11] D’altra parte, Beccaria (Dei delitti e delle pene, cap. XXVII) continuò a
giustificare la pena
di morte se “la morte di qualche cittadino diviene necessaria
quando la nazione
ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia,
quando i disordini
tengon luogo di leggi”.
Bisognerebbe
dunque
concludere che Beccaria non sarebbe oggi contrario alla pena di
morte almeno
per i delitti di mafia, in cui “i disordini tengon luogo di
leggi”, o
contro i trafficanti di droga, cioè di morte, siano collegati o
non con la
mafia. La mafia non può essere combattuta democraticamente, ma
sospendendo
nelle regioni mafiose ogni forma di rappresentanza politica,
esposta localmente
ai ricatti mafiosi, e ogni forma di garanzia costituzionale nei
confroni delle
famiglie mafiose, a cui soggiace anche tutto l’apparato
giudiziario, dalle
guardie carcerarie ai direttori delle carceri sino ai magistrati
che dovrebbero
giudicare i criminali mafiosi, i quali smetterebbero di
comandare e ricattare
anche dal carcere soltanto se venissero giustiziati con la pena
di morte.
Soltanto da morti non potrebbero più comandere e ordinare altre
uccisioni. Si
sa quali sono le famiglie mafiose, e quando si peschi dentro di
esse si pesca
sempre bene, senza andare per il sottile. Uno Stato che non
voglia intendere
ciò è o buffone o connivente con questa feccia di specie
soltanto
biologicamente umana. Merito principale di Beccaria è l’avere
evidenziato la
necessità di “una proporzione tra i delitti e le pene”. Ma
proprio tale
proporzione sarà rivendicata da Kant contro Beccaria per
giustificare la pena
di morte.
Oggi nella
dottrina penale
americana prevale una concezione retributiva della pena che
giustifica la
posizione di Kant basata sul principio di eguaglianza. La legge
del taglione (lex talionis)
raccomanda di “fare agli
altri ciò che questi hanno fatto a te”, come rafforzativa della
regola aurea secondo cui bisogna “fare
agli altri ciò che
vorresti fosse fatto a te” (norma evangelica). In base alla lex talionis si
ripristina l’eguaglianza
che è stata turbata dal crimine E’ questa la tesi di J. H.
Reiman.[12]
In base a tale principio il crimine è un attacco alla sovranità
dell’individuo
che pone il criminale in una posizione di illegittima sovranità
su un altro. La
vittima ha il diritto, e la società il dovere, di rettificare la
posizione del
criminale riducendone la sovranità nello
stesso grado. La vittima avrebbe avuto il diritto, ma non
il dovere, di
perdonare a chi ha attentato al suo diritto naturale, ma
rispettando il principio
che la vita della vittima non possa essere valutata come
inferiore rispetto a
quella del suo uccisore. Una pena alternativa come l’ergastolo
(che in Italia
non esiste più) non sarebbe in accordo con il principio di
umanità della pena e
dell’ipocrita funzione rieducativa di essa. E’ stato anche
scritto: “Chi non
avverte che vi è qualcosa di macabro e di beffardo in un
processo nel quale la
vittima non può più udire la propria voce?…Ma vi è di più, chi
uccide con il
suo delitto diminuisce in tutti il valore della vita, togliendo
a ognuno un po’
di sicurezza di vivere, il che è come dire che lo priva di una
parte della sua
vitalità…L’esclusione della pena di morte per omicidio è un
portato di maggiore
civiltà o non è invece il segno di una minore sensibilità morale
e di una meno
chiara percezione del vero?…Chi con deliberato proposito uccide
un uomo deve
essere a sua volta ucciso dalla società costituita, che non può
sottrarsi al
suo obbligo senza macchiarsi di una colpa…E’ forse giusto che
chi uccida non
venga a sua volta ucciso? E che gli si infligga invece una pena
di carcere che
sarà mite in ragione di come saprà difendersi contro un morto”,[13]
grazie ad avvocato prezzolato o al solito psicologo o sociologo
di turno pronto
a trovare tutte le attenuanti generiche e specifiche? Si vuole
spesso
dimostrare che l’assassino nel momento del crimine fosse
incapace di intendere
e volere. Ma poi riacquista sempre la lucidità! Si pretende
assurdamente che il
criminale si riconcili con la società senza tenere in alcun
conto la vita
dell’ucciso. Gli abolizionisti sono proprio coloro che
ipocritamente o disonestamente
tengono in minor valore la vita umana, stando a difesa degli
assassini. Questo
discorso vale anche per Amnesty International,
che, come
direbbe Hegel, alla ragione sostituisce la “brodaglia del cuore”
(Lineamenti di filosofia
del diritto, pref.
): associazione di saccenti presuntuosi e arroganti che credono
di avere un
cervello migliore di quello di tutti i pensatori che abbiamo
citato. E, a parte
la giustizia che bisogna rendere alla vittima, anche se morta,
vi è un
superiore interesse della società a liberarsi degli assassini
che a ritenere
“sacra”, come stupidamente si dice, anche la vita di un
criminale.
T. Sellin[14]volle
dimostrare
con un’indagine statistica che la pena di morte negli Stati
Uniti
non aveva un’influenza frenante sugli indici di morte per
omicidio. Gli rispose
Isaac Ehrlich,[15]
che scrisse che i metodi statistici erano inattendibili, mentre,
avvalendosi di
diverse ipotesi, si poteva affermare che durante il periodo
1935-69 ciascuna
esecuzione capitale aveva prevenuto il verificarsi di sette o
otto omicidi in
più. Infatti il criminale, in base alle offerte di mercato,
conforma la sua
condotta al desiderio di massimizzare il suo guadagno e di
minimizzare i costi
personali. Quando tra i possibili costi vi è la pena di morte
diminuisce il
desiderio di massimizzare il profitto. Ma questi sono argomenti
utilitaristici
che non scalfiscono minimamente il principio secondo cui la vita
dell’assassino
non deve valere più di quella della sua vittima. .
Chi è
favorevole alla pena
di morte ormai non ha più il coraggio di dirlo pubblicamente o
non trova
spazio, in Europa, soprattutto in Italia, per affermarne la
giustezza perché i mass
media, operando una dispotica
censura, hanno deciso che i favorevoli alla pena di morte sono
dei barbari, che
non debbono corrompere i civili. La
condanna della pena di morte vuole essere espressione di
superiorità morale, ma
è di fatto soltanto espressione di inferiorità giuridica. Da
notare come
gli stessi mass media,
essendo
totalmente privi di alcuna capacità o volontà di discutere sul
piano razionale,
essendo capaci di fare soltanto affermazioni moralistiche ed
emotive contro la
pena di morte, gonfi di sentimento e vuoti di ragione,
confermino che la morale
nasce soltanto dal sentimento e non dalla ragione, perché non
trovano altro
mezzo di persuasione, giocando sui sentimenti, che impiegare la
telecamera per
far vedere il condannato che soffre o l’ambiente della camera
della morte,
approfittando del fatto che non vi è mai una telecamera pronta a
riprendere
l’assassino quando infierisce impietosamente sulla vittima
innocente. E se le
immagini dell’assassino all’opera esistessero, ipocritamente non
verrebbero
fatte vedere con la scusa di non turbare la sensibilità dello
spettatore. Inoltre gli abolizionisti non vogliono misurarsi con
il gran numero di
sostenitori della morte facendo finta che non esistano o
impediscono un pubblico
confronto, certamente timorosi di scoprirsi in minoranza. Essi
sono anche dei
disonesti arroganti, e pretendono di essere rappresentanti del
progresso
civile, sapendo solo demonizzare verbosamente come incivili chi
ha seri
argomenti contro di essi.
Sia almeno riconosciuto ad ognuno il diritto di
dichiarare se sia
disposto a perdonare il suo eventuale assassino, perché lo
Stato non si
sostituisca alla volontà della vittima innocente.[16]
E’ contraddittorio che ognuno per legittima difesa possa
anticipare il suo
aggressore armato uccidendolo, mentre si riconosce allo stesso
aggressore che
abbia anticipato la vittima il diritto di continuare a vivere.
La legittima
difesa presuppone che nel momento dell’aggressione la vita
dell’aggressore non
disponga più della tutela della legge e che esso si ponga in uno
stato di
natura, ponendo la sua vita alla mercé dell’aggredito. Non si
capisce dunque
perché lo Stato restituisca la tutela alla vita dell’assassino
soltanto perché
questo è riuscito ad anticipare la vittima.[17]
Vi sono pubblici ministeri, garantisti senza cervello, capaci
ormai di
incriminare per omicidio o per eccesso di difesa chi previene un
rapinatore
uccidendolo, certamente convinti che l’aggredito debba prima
rischiare di farsi
uccidere. La giustizia è in mano anche a questi individui, con
la loro cultura
del buonismo che uccide la giustizia. Essi sanno scioperare
soltanto contro
qualsiasi controllo di merito del loro operato, non perché la
giustizia abbia
tempi brevi e chi la richiede non debba invecchiare o morire
prima di una
sentenza.
Se si
prendesse spunto dal
pensiero dei filosofi esistenzialisti – che hanno mancato di
trattare la
questione della pena di morte – si dovrebbe riconoscere che,
essendo l’uomo,
come essi dicono, una possibilità autocostitutiva, come
esistenza e non come
essenza (o specie), il valore dell’esistenza umana non è dato
dal fatto di
essere umana, ma dal fatto di esprimere una possibile esistenza,
da valutare in
relazione ad un progetto che è la stessa singolarità
dell’esistenza. Pertanto
il criminale non può essere sottratto alla pena di morte dalla
sua essenza
umana, che esiste soltanto biologicamente. Già Pico della
Mirandola nell’Oratio de
dignitate hominis immaginava
che Dio dicesse all’uomo: “Tu dominerai la tua natura secondo il
tuo
arbitrio…non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né
immortale, perché
di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti
scolpissi nella
forma che avresti prescelto”. Sta all’uomo, secondo Pico,
scegliere se essere
soltanto un animale o di natura divina. Egli è responsabile del
suo progetto di
vita.
La morale ha persino corrotto il
significato del
termine “vendetta” dandole un significato negativo, se non
dispregiativo,
mentre in realtà essa dovrebbe continuare ad essere espressione,
come lo fu
nell’antichità greca, di giustizia, in relazione ad una
responsabilità
oggettiva, come la intese Platone nelle Leggi.
Che fa lo Stato, con l’infliggere una pena, se non vendicare la
vittima e la
stessa società di cui è stato violato l’ordine? Da notare come si
tratti
soltanto di una questione di attribuzione, perché la vendetta, se
è attuata
dallo Stato, è giustizia, mentre non lo è se è attuata dalla
vittima o da chi
per lui.
[1] Carlo Nicoletti, Sì,
alla pena di morte?, Cedam 1997, p. 60.
L’autore soltanto
per ragioni di
cautela ha preferito aggiungere il punto interrogativo al
titolo del suo testo.
Egli ritiene che la concezione emendativa, cioè quella che
pone come scopo
della pena il recupero del colpevole, sia profondamente
utopica e ipocrita
perché non tiene conto delle condizioni e dei luoghi di
pena, per cui “una
carceraria città del sole costituisce niente di più che una
contraddizione in
termini” (p.9). Tale
concezione è
soltanto una dichiarazione di intenti, in quanto “il
ravvedimento è sempre e
comunque un fatto individuale” (p.11). Quanto alla
concezione della
pena come prevenzione, essa è
cinica, perché, prescindendo da ogni implicazione
morale, ha come fine quello di isolare chi costituisce un
attentato all’ordine
sociale. ||Tuttavia l’autore||, professore di diritto
processuale civile a
Cagliari, ritiene che quest’ultima concezione
“è quella che perfettamente si attaglia alla pena di
morte” ||(p. 16)||,
quando pare, invece, evidente che sia la concezione
retributiva, per la
corrispondenza che essa richiede tra il delitto e la sua
punizione. L’autore
precisa che la pena non può essere assimilata alla vendetta
perché quest’ultima
può essere accompagnata dal piacere di restituire il male.
Ma allora dovrebbe
escludersi anche il piacere della giustizia.
[2] Sulla
pena di
morte nella storia occidentale cfr. di Alberto Bandolfi Pena e pena di morte. Temi etici nella storia,
Edizioni Dehoniane
1985; di Italo Mereu La
morte come pena.
Saggio sulla violenza legale, Donzelli 1982. L’esame
che quest’ultimo testo
fa di tutti gli
eccessi, non escluse
diverse forme di tortura,
nell’applicazione della pena di morte come uso politico per
sbarazzarsi degli
avversari non deve essere confuso con il discorso sui
principi.
[3] Agostino, Lettere,
II, Città Nuova, 1971, pp. 541-47.
[4] Saggi, Adelphi,
1982, p. 150.
[5] Kant (ibid.) accusò Beccaria di “affettato
sentimentalismo”.
[6] Il fondamento della
morale, op. cit., p.
164.
[7] Filosofia dello spirito
jenese, Laterza
1984, p. 139
[8] E’ evidente che Hegel, distinguendo la legge
del
taglione dalla vendetta, considera quest’ultima soltanto
come espressione di una
punizione privata, che può non rispettare la proporzionalità
tra delitto e
pena. Ma in sostanza anche la pena comminata dallo Stato non
può non essere
considerata anch’essa una vendetta, se la pena
rientra in una concezione retributiva come quella di
Hegel.
[9] In Gli anarchici, a
cura di G.M Bravo,
Adelphi 1970, pp. 510 sgg.
[10]Il
contrattualismo non implica necessariamente
l’utilitarismo come negazione di un diritto
naturale. In Hobbes,
per esempio, la concezione contrattualistica si accorda con
quella
utilitaristica, ma anche con una concezione
giusnaturalistica che vede la legge
naturale non dipendere dal contratto ma precederlo. Così in
Locke la concezione
contrattualistica si accorda con il diritto naturale alla
libertà e alla
proprietà (Secondo
Trattato del governo
civile (a cura di Luigi Pareyson) , Utet 1982, pp.
229-63.
[11]Oggi il
riferimento fa all’impiego, da parte dello Stato, dei
cosiddetti “pentiti”,
premiati per le loro “confessioni”. E’ il risultato, direbbe
Beccaria, di uno
Stato che, non avendo la forza di difendersi, a causa del
suo garantismo nei
riguardi delle organizzazioni criminali, cerca di comprarla,
mandando in rovina
l’edificio dell’ordinamento giuridico, fondato sulla
proporzionalità della pena
al delitto.
[12]Justice, Civilation and
the Death Penalty,
Justice 1991.
[13]Carlo
Cetti, Della pena di morte. Confutazione a Beccaria,
Como 1960, pp.
12-13.
[14]The Death Penalty,
The American Law
Insitute, Philadelphia 1959.
[15]The deterrent
effect of punishment: a question of life and death, American
Economics Reviw,
65, 1975.
[16]In questo
senso si può ritenere ampliata la
considerazione svolta da Platone nelle
Leggi (IX, 869), dove è previsto che in caso di
patricidio (o matricidio) –
il delitto ritenuto più grave da Platone – il padre (o la
madre) possa avere il
tempo, prima di morire, di perdonare il figlio. In tal caso
il patricidio (o
matricidio) sarà ritenuto involontario e il colpevole dovrà
soltanto
purificarsi.
[17]Il nostro
ragionamento trova riscontro in Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1781-88), che,
riprendendo il pensiero
di Locke sullo stato di natura, in cui ognuno ha il diritto
di punire i delitti
(II Trattato del
governo, II,
11), osserva, contro Beccaria (Dei
delitti e delle pene, 1764), che nello stato di natura
si perde il diritto
alla vita quando la si toglie ad altri, perché ognuno ha il
diritto di uccidere
il suo ingiusto aggressore, e, se rimane ucciso, il suo
diritto si trasferisce
da lui alla società. D’altra parte, non si aggiunge mai che
Beccaria continuò a
giustificare la pena di morte per quei delitti che minano
l’ordine
sociale. Riferimento
odierno potrebbero
essere le organizzazioni a delinquere come la mafia, contro
cui si devono usare
leggi di guerra, non di pace, sospendendo le garanzie
costituzionali, conservando
le quali si ha soltanto uno Stato imbelle e buffone, se non
colluso. Combattere
la mafia (che impiega la pena di morte) con il garantismo
delle leggi di pace,
e senza applicare la pena di morte, significa cercare di
contrastare un
esercito dotato di artiglieria pesante con un esercito
equipaggiato al massimo
con fucili da caccia. Poiché è impossibile estirpare la
mafia con metodi
democratici, nell’attuale “democrazia” il sud d’Italia si
merita soltanto l’autogoverno
della mafia, senza aiuti economici da parte di altre
regioni. Ha scritto
Aristotele (Politica)
che ogni popolo
ha il governo che si merita. I capi mafia continuano a
comandare dal
carcere ricattando guardie e direttori del carcere. La pena
di morte
impedirebbe ai mafiosi di continuare a dare ordini. E’
altrettanto
inconcepibile che non si applichi la pena di morte nei
confronti dei
trafficanti di droga, cioè di morte. Ritenere che la loro
vita sia degna di
rispetto significa corrompere lo stesso concetto di
giustizia. Essi minano
anche l’ordine sociale, per cui, dallo stesso punto di vista
di Beccaria,
dovrebbero essere eliminati senza pietà.
10 commenti:
professore,
io la vedo così.
oggi nessuno vuole assumersi le proprie responsabilità.
perché è faticoso e comporta rischi.
il giudice fa buoni tutti, perdona ( giuridicamente assolve ) tutti. è amico di tutti. della vittima e del carnefice. e insieme a loro magari vorrebbe farsi una bevuta.
può darsi che il giudice umanamente capisca che un pedofilo assassino non può essere rieducato, tanto meno in galera, e quindi sarebbe giusto dare una pena esemplare, come diceva Montaigne, se non per lui, per monito verso altri uguali a lui. ma chi glielo fa fare di condannare ? a morte poi ? troppa responsabilità !
questo buonismo è indice della dissolutezza morale, del volere le cose facili, del decadimento dei costumi.
saluti,
marco
Che gente sarà mai questa? Rifiuti.
Come quei due degenerati che hanno ucciso quella professoressa in Piemonte, che ora si scaricano le colpe a vicenda, e già si ventila per uno dei due (il più giovane) la perizia psichiatrica.
O Maso, il veronese che uccise anni fa i genitori a sprangate con dei complici, che ora si rammarica di non aver a suo tempo "finito" il lavoro ammazzando anche le sorelle.
Costui è almeno stato giudicato capace di intendere.
La scappatoia del non intendere è uno dei buchi neri della giustizia, in realtà pochissimi sono i soggetti che effettivamente lo sono.
Mettiamoci anche Izzo, uno dei tre mostri del famigerato delitto del Circeo,che negli ani 70 costò la vita a una ragazza, e l'altra riuscì a scampare solo fingendosi morta.
Izzo fu poi, qualche anno fa, rimesso in libertà limitata inserendolo in un programma di recupero con una cooperativa...cazzo, era così guarito che non appena ebbe lo stimolo, uccise due donne (madre e figlia).
Non cambiano. Sono degenerati, non pazzi ma "solo" CATTIVI E SADICI.
Cecilia
Professore, questi degenerati sono i peggiori di cui abbia mai sentito in vita mia, quando ho appreso la notizia ho avvertito dentro di me un senso di orrore fortissimo: tra l'altro uno dei due degenerati era anche gay, e ciò avvalora la tesi secondo cui un disturbo della sessualità produce anche altri disturbi, questi gay sono potenzialmente antisociali e deviati dentro.Essi stessi hanno ammesso che già prima avevano sentito il desiderio di far del male a qualcuno, quindi erano corrotti dentro. Non ci si può più fidare di nessuno in questo mondo di merda, quel ragazzo non aveva nessun motivo per sospettare di quegli individui (non persone), e questa situazione nasce proprio dal buonismo della giustizia, incapace di punire davvero chi lo merita.
Caro professore,
secondo lei nella Russia di Putin questi soggetti che vanno in giro ad ammazzare per divertimento che fine farebbero?
Io una mezza idea ce l'avrei...
Buongiorno professore, scusi il fuori tema ma desideravo segnalarle questa notizia:
http://www.repubblica.it/cronaca/2016/03/09/news/sardegna_parroco_vende_rolex_per_comprare_agnelli_pasquali_ai_poveri-135096024/
magari ci scappa un suo commento...
Saluti Paolo
professore,
il delitto di cui parla è significativo. ti fa capire chi sono i giovani d'oggi. non credo si tratti di un caso isolato. quanti giovani oggi vivono una vita senza senso ? sbandati, drogati, il cui unico scopo è il piacere e il piacere è la morte, propria o altrui ?
di questo passo dovremo rivalutare lo stile di vita degli immigrati, come dice la boldrini...
saluti,
marco
Favorevolissima alla pena di morte. Certe persone non si redimono perché sono deviate, ma non provo pena per loro in quanto consapevoli della loro malvagità. Attaccarsi all'uso di droghe significa scaricare la responsabilità della propria vita e del proprio comportamento su altri fattori. Non ci sono scuse per certi atti, e spesso come abbiamo visto la prigione non li cambia. Quando ne escono non hanno imparato la lezione, e il motivo è che la detenzione non è una vera lezione. Molti in prigione ci stanno anche bene, mangiano dormono e aspettano. Perché devo passare la mia vita a lavorare per mantenere a sbafo questi elementi schifosi? Ci sono persone bisognose e invalide che sono abbandonate dallo stato il quale però garantisce un tetto e un pasto a gente che ha ammazzato e stuprato. Levare il marcio dalla faccia della terra è un favore all'umanità, e un monito per tutti.
Sono un po' sorpreso dalla perentorietà dei giudizi, compreso quello del prof. Melis. Io sono stato sempre contrario alla pena di morte, ma riconosco che in alcuni casi può essere giustificata, come del resto tutta la tradizione greco-giudeo-cristiana l'ha giustificata, compresa la Chiesa cattolica che adesso si fa mosca cocchiera per l'abolizione (quant'è buono papa Francesco!). Lo stesso Beccaria riconosce che in certi casi è necessaria.
Ci sono crimini così odiosi, come quello in questione, che meritano la pena di morte, come argomenta bene Kant. Oggi va di moda la "redenzione" del reprobo, si dice che la società non deve "vendicarsi", ma mirare al recupero del delinquente. In realtà, come dice Eva, in prigione molti ci stanno benissimo (forse meno in Italia, ma sicuramente nelle prigioni-albergo a cinque stelle olandesi, svedesi, finlandesi ecc.). Alcuni studiano e addirittura si laureano in prigione (lo Stato li premia pure per i loro delitti).
C'è però un ma, secondo me. Noi tutti che scriviamo qui, che probabilmente non faremmo male a una mosca, siamo brave o normali persone non per nostro merito (predisposizioni, ambiente, educazione, fortuna ecc. hanno fatto di noi dei soggetti inclini al rispetto dell'ordine, ai buoni sentimenti). Noi non abbiamo bisogno di rubare e ammazzare o drogarci. Siamo perfettamente allineati, ben educati. Purtroppo però ci sono anche soggetti refrattari all'educazione, alle regole imposte dalla callettività. Poi bisogna anche chiedersi da dove vengano certi comportamenti, l'inaudito sadismo di taluni (chissà cosa succede attualmente in Siria, la guerra sembra giustificare tutto). Gesù, che ogni tanto ci azzeccava (non sempre!), ha detto: "Non giudicate se non volete essere giudicati." Anche questa affermazione è ambigua perché nega il diritto, dovremmo rinunciare alla legge, ai tribunali. Però Gesù con quella affermazione invita alla prudenza. Non conosciamo tutte le cause di certi comportamenti.
Nononstante il buonismo dilagante (e dolciastro, perverso) la questione della pena di morte resta aperta. Ci sono buoni argomenti a favore. Vorrei infine aggiungere che chi è a favore deve essere anche disposto ad eseguire la condanna capitale, non delegando la bisogna a terzi: sarebbe un dovere civico per tutti, come il servizio militare o la partecipazione alla giuria popolare dei tribunali.
@SergiodiSennwald: Io sono cristiana ma sono perfettamente in grado di capire quando si può perdonare, date talune circostanze, e quando no. Mi viene in mente il caso del piccolo Tommaso Onofri, ucciso a badilate perché durante il sequestro a scopo di estorsione, qualcosa andò storto. Ecco Signor Sennwald, io non sono madre, ma gli occhi di quella madre distrutta li ho veduti... Non ci sono scuse per questo delitto, nessuna attenuante. L'indifferenza per la vita di un piccino bello come il sole merita la morte. Ed io sono coerente con ciò che sostengo, a differenza di molti: chiamate me, e il coraggio di mandare a morte per mia mano quell'assassino Raimondi e la sua compagna, la Conserva, due esseri immondi.... Io il coraggio ce l'ho. Non ho paura di ammazzarli. E stia sicuro che non me ne pentirò mai.
@ Eva de Molay
Sennwald è il paese in cui abito ... Credo che a caldo quasi tutti siano capaci di reazioni omicide. Se sono aggredito mi difenderò, anche la morale cattolica riconosce il diritto alla legittima difesa, anche se questa può significare la morte dell'aggressore (a dir la verità in Italia bisogna fare attenzione perché si può essere condannati per "eccesso di legittima difesa").
Poi in guerra si uccide senza farsi il minimo scrupolo. Quindi ci sono circostanze in cui anche una persona pacifica e piena di buoni sentimenti può, si vede costretta ad uccidere. Ma si tratta di situazioni eccezionali (aggressione, guerra). È chiaro che gli assassini del povero bambino fanno orrore e schifo a tutti e "meriterebbero" la pena capitale. Ho messo meriterebbero tra virgolette perché non conosciamo la vita di questi assassini. Chissà cosa hanno subito anche loro per essere diventati dei mostri.
Il mio non è buonismo, non voglio dimostrare comprensione. Però è un fatto che tanti strani, orribili, incomprensibili comportamente hanno delle cause, persino delle cause precise e identificabili in alcuni casi. Per questo il detto di Gesù ha avuto tanta fortuna: non giudicate se non volete essere giudicati. Non conosciamo mai tutta la verità. È vero che questo detto è contraddittorio, non praticabile: dovremmo perdonare tutto e tutti e chiudere tutti i tribunali, nessuno potrebbe ergersi a giudice. Però quel detto invita - secondo me - alla prudenza perché non conosciamo mai tutta la verità e - tout se tient, dicono i francesi. Cioè c'è una concatenazione di tutti i fenomeni dell'universo, cause ed effetti.
Ripeto: a caldo ci si vendica subito senza rimorsi di un grande torto. Io per es. ho sempre desiderato d'impiccare Condoleeza Rice, la vera anima nera del governo Bush, che l'ha spinto ad invadere l'Iraq, con tutto ciò che è seguito (comprese la Libia e la Siria oggi). Una grandissima troia questa donna, degna appunto di essere impiccata come Saddam Hussein. Ma poi non so se, a freddo, avrei davvero il coraggio di infilarle il cappio al collo e di aprire la botola ... Sono incoerente? Forse.
Visto che sei cristiana dovresti però capirmi (e chiederti come mai Gesù si espresse così). Il prof. Melis anche lui si dice dispostissimo ad eseguire sentenze capitali di schifosi assassini. Mah, non so, sì e no.
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