Riporto sotto alcune pagine tratte dal saggio introduttivo di un mio manoscritto risalente al 2003 e che mi propongo di pubblicare dopo averlo abbandonato immeritatamente in un cassetto per dare precedenza ad altre pubblicazioni. Esso sarà intitolato Geometria del diritto naturale. La morale come oblio della giustizia. Dall'antichità ad oggi.
Nel XI secolo i maggiori centri di cultura teologica e
filosofica furono le scuole annesse alle cattedrali di Parigi (dove insegnò
Abelardo) e di Chartres. Successivamente agli inizi del XIII secolo emerse
l’Università di Parigi, dove insegnarono anche S. Bonaventura, francescano e di
indirizzo agostiniano e S.Tomaso, domenicano e di indirizzo prevalentemente
aristotelico. In Inghilterra l’Università di Oxford fu nel XIII secolo un
centro propulsore di studi filosofici, scientifici e teologici, principalmente
con Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, Ruggero Bacone, francescano, mentre tra fine dello stesso secolo e
l’inizio del successivo nel XII secolo troviamo a Oxford, dopo avere insegnato
a Parigi, uno dei maggiori filosofi del Medioevo che fu Duns Scoto, francescano.
Tutto il Medioevo è percorso negli studi giuridici dal diritto naturale,
conforme alla tradizione facente capo al concetto di legge naturale dedotto
principalmente dalla filosofia stoica e recepita nel diritto romano dai quattro
grandi giureconsulti Modestino, Papiniano, Paolo ed Ulpiano (III secolo).
Ma già nel XIV
secolo gli studi filosofici incominciano a spostarsi anche fuori delle
Università, come dimostra la filosofia del maggiore filosofo di quel secolo,
Guglielmo di Ockham, francescano. Si può dire che il Medioevo, anche in campo
teologico fu una scuola di liberalismo e di pluralismo, nonostante le varie
dispute tra gli stessi ordini religiosi, che avevano il monopolio della
cultura, finissero talvolta con accuse reciproche di eresia. Ma non vi fu
alcuna persecuzione fisica da parte dei papi nei confronti di coloro che
sembravano far prevalere la ragione sulla fede. Al contrario, si pensi che
Stefano Tempier, arcivescovo di Parigi, domenicano come S. Tomaso, nel 1277,
condannando le tesi del filosofo arabo Averroè - secondo cui il mondo è eterno
e l’anima umana, nella sua interpretazione di Aristotele, mortale - poteva
affermare l’infinità del mondo contro tutta la tradizione precedente del
cristianesimo. Tesi che nel XV secolo verrà ripetuta dal cardinale Nicola Cusano,
che aggiungerà il moto rotatorio della Terra intorno al suo asse. Nonostante
varie proibizioni l’everroismo continuò ad essere insegnato a Parigi. I
professori appartenenti ad ordini religiosi sembravano difensori della ragione
più di quanto non lo fossero quelli secolari. Nonostante varie proibizioni la
filosofia di Ockham, che, presupponendo il primato della ragione naturale,
sosteneva la netta distinzione tra ragione e fede, al contrario di quella di S,
Tomaso, che sosteneva il loro accordo, si diffuse anche nelle Università,
lasciando privi di giustificazione, non soltanto i dogmi religiosi. ma anche
tutte le dimostrazioni dell’esistenza di Dio.
Ammessa la possibilità di un universo infinito come meglio corrispondente all’infinità di Dio, ed escluso che si potesse dimostrare che il mondo fosse stato creato nel tempo, invece che essere eterno, veniva demolita la configurazione aristotelica di un mondo finito in cui il movimento era concepito come stato innaturale di un corpo, per divenire un modo naturale di esso. Sulla base di queste premesse Giovanni Buridano, rettore dell’Università di Parigi, poteva affacciarsi al principio di inerzia, errando però con l’estenderlo anche ai movimenti dei cieli per evitare di fare ricorso ad intelligenze celesti. E Nicola di Oresme, vescovo di Lisieux, che aveva studiato teologia all’Università di Parigi, partendo dalle stesse premesse di Ockham, affermò, incrinando così l’astronomia e la fisica geocentrica di Aristotele, che non era impossibile attribuire il movimento rotatorio alla Terra, invece che ai cieli, Oresme introdusse in matematica le coordinate geometriche che furono riprese da Cartesio.
Sugli stessi presupposti della fisica di Ockham, che liberava il movimento dalla concezione aristotelica dei luoghi naturali e dalle cause finali, per cui il movimento veniva considerato come tendente naturalmente a raggiungere lo stato di quiete, sviluppò a Oxford, presso il Merton College, la scuola dei calculatores, che avviò lo studio della caduta dei gravi, che verrà ripreso, con continuità, nell’età moderna. a cui si ricongiunge direttamente la scienza moderna. Le tesi di Ockham, condannate nel 1473 dal re di Francia Luigi XI, non dal papa, vennero poi riabilitate nel 1481.
Sembra paradossale che la filosofia medievale, così intimamente ispirata o, comunque, dipendente dalle questioni teologiche, e rappresentata sommamente da pensatori appartenenti ad ordini religiosi, abbia espresso una concezione della natura che, rispettandone l’autonomia nelle sue leggi fisiche, evitasse il prevalente antropocentrismo rinascimentale. Ma ciò si spiega proprio sulla base della stessa concezione teologica cristiana, che faceva prevalere la natura come manifestazione della gloria di Dio, andando anche oltre la concezione biblica di una natura al servizio dell'uomo, che si esprime nella cultura umanistica o nel naturalismo panteistico che antropomorfizza la natura. Il Digesto, in cui si racchiude il diritto dei massimi giureconsulti romani del III secolo, esprime una concezione della legge di natura che è dedotta dallo stoicismo. La ripresa dello stesso tema sin dalla filosofia medievale, in particolare di S. Tomaso, ha costituito la base storica su cui si sono confrontate sul piano politico le dispute sulla legittimità del potere, dando origine a riforme o a rivoluzioni alimentate dalle opposte tesi circa l’interpretazione del rapporto tra potere spirituale e potere temporale, nonché del fondamento dello stesso potere temporale. Il pensiero politico di Marsilio da Padova, consigliere dell’imperatore Ludovico il Bavaro, servì a giustificare, sulla base di un diritto naturale inteso come diritto della ragione, l’autorità della legge considerata come espressione del potere legislativo, che è del popolo tramite i suoi rappresentanti, e Guglielmo di Ockham offrì anch’egli argomenti giuridici a Ludovico il Bavaro contro il dispotismo del papato avignonese, che voleva usurpare funzioni legislative nell’ambito del potere temporale, rafforzando la concezione laica dell’Impero con il sottrarre alla Chiesa l’investitura dello stesso imperatore alla luce del principio della reciproca indipendenza.[1] Il Rinascimento, nella sua prima fase, quella degli studi umanistici, può essere considerato una fase di involuzione nel pensiero filosofico, per il suo racchiudersi in una concezione prevalentemente antropocentrica, che, pur nella ripresa di una concezione neoplatonica, come in Marsilio Ficino,[2] propone l’immagine del macrocosmo-microcosmo, dove l’uomo, microcosmo, appare anche spiritualmente al centro di un mondo chiuso e dominato da forze astrali, per l’espandersi di una concezione astrologica in cui le forze fisiche sono anche spirituali, dando così alimento alla magia, di cui si nutre, per esempio, l’alchimia di Paracelso. In una seconda fase prevale la concezione naturalistica degli elementi e delle forze fisiche, ma in una concezione di fondo che rimane antropomorfica - come quella di Bernardino Telesio, di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella - per il suo confondersi con una visione panpsichistica della natura, che attribuisce un sensibilità, e quasi un grado di conoscenza, a tutti gli enti naturali, organici e inorganici. Il Rinascimento fu anche, per molti aspetti, un regresso culturale rispetto alla razionalità medievale.[3] Esso fu un lungo intervallo di immagini antropocentriche del mondo alimentate da concezioni magiche della natura che ritardarono di almeno due secoli la rivoluzione scientifica del ‘600, sia che prevalesse il neoplatonismo, come nell’Accademia fiorentina di Marsilio Ficino, sia che prevalesse l’indirizzo aristotelico, come in Pomponazzi. La cultura umanistica favorì certamente uno spirito mondano nelle corti dei principi, ma non arricchì il sapere scientifico a causa di una visione prevalentemente morale della natura, secondo principi animistici e vitalistici che favorivano una confusione della natura con lo spirito, estranea alla concezione medievale della separazione di Dio, causa del mondo, dalle leggi naturali intese come cause seconde, autonome. L’opera di Copernico (De revolutionibus orbium coelistium, 1543) non ebbe alcuna immediata conseguenza sulla filosofia rinascimentale, perché non mutò affatto la concezione della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo umano, posto al centro del mondo e delle sue influenze. L’evento fondamentale fu invece la Riforma protestante, espressione, da un altro punto di vista, quello teologico, di una concezione antinaturalistica dell’uomo, pur nella concordanza, alla luce della dottrina della predestinazione, con la concezione astrologica rinascimentale, che per diverse ragioni annullava o limitava la libertà umana, salvaguardata invece dal razionalismo naturalistico della filosofia scolastica, immune da influenze magico-occultistiche. Orbene, se si scorre la storia della filosofia di questo periodo, sia in Italia che nel resto di Europa, ci si avvede che tutti i maggiori pensatori, filosofi e fisici, sia del primo che del secondo Rinascimento, stanno ormai fuori della cultura delle Università, dove continua a prevalere un insegnamento di contenuto scolastico, rifacentesi alla filosofia aristotelica, ridotta però a commentari ormai privi di elaborazione teorica.[4] In Italia, presso l’Università di Padova, sopravvive l’aristotelismo nella versione di Averroè, di cui il maggiore esponente fu Pietro Pomponazzi, e nella stessa Università insegna medicina Gerolamo Cardano, figura di mago che si nutre di una concezione del mondo in cui gli elementi naturali sono dominati da forze immateriali che sono i principi vitali del mondo, da quello celeste a quello umano. La rivoluzione astronomica è dovuta ad un canonico Nicola Copernico, che, pur avendo studiato a Bologna, a Padova e a Ferrara, visse poi in Polonia fuori da ogni ambiente accademico, curando la sua canonica. Il primato culturale dell’Italia nel Rinascimento significò l’oscurarsi del pensiero filosofico in Europa. In Italia si ebbero sempre soltanto due Facoltà, quella di diritto e quella delle arti, in cui era compresa la medicina. La teologia sino alla fine del duecento rimase confinata negli ordini religiosi. Soltanto verso la fine del trecento arrivò la filosofia aristotelica nelle Università, ma rimase legata alla logica e alla filosofia naturale, nell’ambito della quale era compresa la medicina, che con il diritto e con la retorica formava il contenuto dell’insegnamento nel Medioevo. Successivamente nelle Facoltà delle arti si aggiunsero la matematica e l’astronomia, la teologia e la metafisica, mentre la teologia non ebbe mai una sua Facoltà come in Francia e Inghilterra. Non si ebbe un insegnamento di teologia prima della metà del trecento. In Europa, durante i secoli XV e XVI l’insegnamento universitario della filosofia si basò sulla tradizione aristotelica con la composizione di commentari privi di originalità. Nelle Università gli umanisti occupavano principalmente le ambite cattedre di grammatica, di retorica e di poesia. La filosofia morale era una cattedra tenuta dagli umanisti, che si limitavano a commentare l’Etica nicomachea e la Politica di Aristotele. Gli unici professori universitari di filosofia che emersero nella storia della filosofia rinascimentale furono gli aristotelici Pietro Pomponazzi, Jacopo Zabarella e Cesare Cremonini, tutti e tre professori all’Università di Padova. La filosofia morale fuori dell’Università diede luogo a saggi morali che ripetevano la letteratura moraleggiante del Medioevo, ma con un’attenzione alla retorica. Studi umanistici e filosofia scolastica coesistettero nel Rinascimento, ma con nessun particolare contributo che andasse oltre le correnti dell’aristotelismo medievale.
Ammessa la possibilità di un universo infinito come meglio corrispondente all’infinità di Dio, ed escluso che si potesse dimostrare che il mondo fosse stato creato nel tempo, invece che essere eterno, veniva demolita la configurazione aristotelica di un mondo finito in cui il movimento era concepito come stato innaturale di un corpo, per divenire un modo naturale di esso. Sulla base di queste premesse Giovanni Buridano, rettore dell’Università di Parigi, poteva affacciarsi al principio di inerzia, errando però con l’estenderlo anche ai movimenti dei cieli per evitare di fare ricorso ad intelligenze celesti. E Nicola di Oresme, vescovo di Lisieux, che aveva studiato teologia all’Università di Parigi, partendo dalle stesse premesse di Ockham, affermò, incrinando così l’astronomia e la fisica geocentrica di Aristotele, che non era impossibile attribuire il movimento rotatorio alla Terra, invece che ai cieli, Oresme introdusse in matematica le coordinate geometriche che furono riprese da Cartesio.
Sugli stessi presupposti della fisica di Ockham, che liberava il movimento dalla concezione aristotelica dei luoghi naturali e dalle cause finali, per cui il movimento veniva considerato come tendente naturalmente a raggiungere lo stato di quiete, sviluppò a Oxford, presso il Merton College, la scuola dei calculatores, che avviò lo studio della caduta dei gravi, che verrà ripreso, con continuità, nell’età moderna. a cui si ricongiunge direttamente la scienza moderna. Le tesi di Ockham, condannate nel 1473 dal re di Francia Luigi XI, non dal papa, vennero poi riabilitate nel 1481.
Sembra paradossale che la filosofia medievale, così intimamente ispirata o, comunque, dipendente dalle questioni teologiche, e rappresentata sommamente da pensatori appartenenti ad ordini religiosi, abbia espresso una concezione della natura che, rispettandone l’autonomia nelle sue leggi fisiche, evitasse il prevalente antropocentrismo rinascimentale. Ma ciò si spiega proprio sulla base della stessa concezione teologica cristiana, che faceva prevalere la natura come manifestazione della gloria di Dio, andando anche oltre la concezione biblica di una natura al servizio dell'uomo, che si esprime nella cultura umanistica o nel naturalismo panteistico che antropomorfizza la natura. Il Digesto, in cui si racchiude il diritto dei massimi giureconsulti romani del III secolo, esprime una concezione della legge di natura che è dedotta dallo stoicismo. La ripresa dello stesso tema sin dalla filosofia medievale, in particolare di S. Tomaso, ha costituito la base storica su cui si sono confrontate sul piano politico le dispute sulla legittimità del potere, dando origine a riforme o a rivoluzioni alimentate dalle opposte tesi circa l’interpretazione del rapporto tra potere spirituale e potere temporale, nonché del fondamento dello stesso potere temporale. Il pensiero politico di Marsilio da Padova, consigliere dell’imperatore Ludovico il Bavaro, servì a giustificare, sulla base di un diritto naturale inteso come diritto della ragione, l’autorità della legge considerata come espressione del potere legislativo, che è del popolo tramite i suoi rappresentanti, e Guglielmo di Ockham offrì anch’egli argomenti giuridici a Ludovico il Bavaro contro il dispotismo del papato avignonese, che voleva usurpare funzioni legislative nell’ambito del potere temporale, rafforzando la concezione laica dell’Impero con il sottrarre alla Chiesa l’investitura dello stesso imperatore alla luce del principio della reciproca indipendenza.[1] Il Rinascimento, nella sua prima fase, quella degli studi umanistici, può essere considerato una fase di involuzione nel pensiero filosofico, per il suo racchiudersi in una concezione prevalentemente antropocentrica, che, pur nella ripresa di una concezione neoplatonica, come in Marsilio Ficino,[2] propone l’immagine del macrocosmo-microcosmo, dove l’uomo, microcosmo, appare anche spiritualmente al centro di un mondo chiuso e dominato da forze astrali, per l’espandersi di una concezione astrologica in cui le forze fisiche sono anche spirituali, dando così alimento alla magia, di cui si nutre, per esempio, l’alchimia di Paracelso. In una seconda fase prevale la concezione naturalistica degli elementi e delle forze fisiche, ma in una concezione di fondo che rimane antropomorfica - come quella di Bernardino Telesio, di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella - per il suo confondersi con una visione panpsichistica della natura, che attribuisce un sensibilità, e quasi un grado di conoscenza, a tutti gli enti naturali, organici e inorganici. Il Rinascimento fu anche, per molti aspetti, un regresso culturale rispetto alla razionalità medievale.[3] Esso fu un lungo intervallo di immagini antropocentriche del mondo alimentate da concezioni magiche della natura che ritardarono di almeno due secoli la rivoluzione scientifica del ‘600, sia che prevalesse il neoplatonismo, come nell’Accademia fiorentina di Marsilio Ficino, sia che prevalesse l’indirizzo aristotelico, come in Pomponazzi. La cultura umanistica favorì certamente uno spirito mondano nelle corti dei principi, ma non arricchì il sapere scientifico a causa di una visione prevalentemente morale della natura, secondo principi animistici e vitalistici che favorivano una confusione della natura con lo spirito, estranea alla concezione medievale della separazione di Dio, causa del mondo, dalle leggi naturali intese come cause seconde, autonome. L’opera di Copernico (De revolutionibus orbium coelistium, 1543) non ebbe alcuna immediata conseguenza sulla filosofia rinascimentale, perché non mutò affatto la concezione della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo umano, posto al centro del mondo e delle sue influenze. L’evento fondamentale fu invece la Riforma protestante, espressione, da un altro punto di vista, quello teologico, di una concezione antinaturalistica dell’uomo, pur nella concordanza, alla luce della dottrina della predestinazione, con la concezione astrologica rinascimentale, che per diverse ragioni annullava o limitava la libertà umana, salvaguardata invece dal razionalismo naturalistico della filosofia scolastica, immune da influenze magico-occultistiche. Orbene, se si scorre la storia della filosofia di questo periodo, sia in Italia che nel resto di Europa, ci si avvede che tutti i maggiori pensatori, filosofi e fisici, sia del primo che del secondo Rinascimento, stanno ormai fuori della cultura delle Università, dove continua a prevalere un insegnamento di contenuto scolastico, rifacentesi alla filosofia aristotelica, ridotta però a commentari ormai privi di elaborazione teorica.[4] In Italia, presso l’Università di Padova, sopravvive l’aristotelismo nella versione di Averroè, di cui il maggiore esponente fu Pietro Pomponazzi, e nella stessa Università insegna medicina Gerolamo Cardano, figura di mago che si nutre di una concezione del mondo in cui gli elementi naturali sono dominati da forze immateriali che sono i principi vitali del mondo, da quello celeste a quello umano. La rivoluzione astronomica è dovuta ad un canonico Nicola Copernico, che, pur avendo studiato a Bologna, a Padova e a Ferrara, visse poi in Polonia fuori da ogni ambiente accademico, curando la sua canonica. Il primato culturale dell’Italia nel Rinascimento significò l’oscurarsi del pensiero filosofico in Europa. In Italia si ebbero sempre soltanto due Facoltà, quella di diritto e quella delle arti, in cui era compresa la medicina. La teologia sino alla fine del duecento rimase confinata negli ordini religiosi. Soltanto verso la fine del trecento arrivò la filosofia aristotelica nelle Università, ma rimase legata alla logica e alla filosofia naturale, nell’ambito della quale era compresa la medicina, che con il diritto e con la retorica formava il contenuto dell’insegnamento nel Medioevo. Successivamente nelle Facoltà delle arti si aggiunsero la matematica e l’astronomia, la teologia e la metafisica, mentre la teologia non ebbe mai una sua Facoltà come in Francia e Inghilterra. Non si ebbe un insegnamento di teologia prima della metà del trecento. In Europa, durante i secoli XV e XVI l’insegnamento universitario della filosofia si basò sulla tradizione aristotelica con la composizione di commentari privi di originalità. Nelle Università gli umanisti occupavano principalmente le ambite cattedre di grammatica, di retorica e di poesia. La filosofia morale era una cattedra tenuta dagli umanisti, che si limitavano a commentare l’Etica nicomachea e la Politica di Aristotele. Gli unici professori universitari di filosofia che emersero nella storia della filosofia rinascimentale furono gli aristotelici Pietro Pomponazzi, Jacopo Zabarella e Cesare Cremonini, tutti e tre professori all’Università di Padova. La filosofia morale fuori dell’Università diede luogo a saggi morali che ripetevano la letteratura moraleggiante del Medioevo, ma con un’attenzione alla retorica. Studi umanistici e filosofia scolastica coesistettero nel Rinascimento, ma con nessun particolare contributo che andasse oltre le correnti dell’aristotelismo medievale.
In sostanza, i professori universitari di
filosofia del Rinascimento non lasciarono rilevanti tracce nella storia della
filosofia. L’apertura del mondo verso l’infinito, che si era avuta nel XIV
secolo si chiude. Viene ripresa, ma in termini di effusione antropomorfica e
antropocentrica, dal panteismo di Giordano Bruno, con cui si perde il concetto
medievale di autonomia della natura, su cui si era fondato il diritto naturale,
che nel Rinascimento subisce una quasi totale eclisse, che si interrompe con
Campanella,[5] che,
benché morto nel 1639, appartiene culturalmente al Rinascimento per il
prevalere nel suo naturalismo di una concezione della natura non ancora
estranea a forze magiche che vanno oltre il pampsichismo di Telesio.
[1] Cfr. di O. von Gierke, Les théories politiques du Moyen
Age, Libr. De la soc. du Recueil Sirey, Paris 1914.
[2] Scrive Marsilio Ficino nella
Teologia platonica, XV, iv
(Zanichelli 1965, vol. I pp.292-96) che
“vi è uno spirito separato dalla materia, razionale e incorruttibile, qual è
l’angelo, e vi è uno spirito unito alla
materia, irrazionale e corruttibile, quale è l’anima delle bestie...Quindi è
necessario che nel corpo vi sia uno spirito medio tra gli estremi, il quale sia
razionale e incorruttiboile...che si armonizzi propriamente con l’angelo in
quanto è immortale; che si armonizzi propriamente con la bestia in quanto è
congiunto”. E tuttavia in altro luogo (IV, i,
Zanichelli, vol. I, p. 274 ) Ficino scrive che “è necessario che la
stessa anima della terra sia razionale dal momento che perfino certi animali
terrestri non sono privi di ragione”. Ma aggiunge che, in quanto “i corpi delle
bestie e degli uomini ” vivono staccati dall’anima della terra, sono mortali.
E’ veramente arduo concepire un’anima della terra impersonale ed immortale che
produce animali che, in quanto corpi, sono mortali. Solo gli uomini si
separano, come anime dall’anima della terra.
E’ evidente che il cristianesimo ha fatto perdere al neoplatonismo
antico la circolarità della natura, che presuppone l’immortalità di tutte le
forme di vita tramite la reincarnazione e la metempsicosi. Cfr. Uomo
e natura nella filosofia del Rinascimento (a cura di Carlo Combero),
Loescher 1992.
[3] Nella rassegna bibliografica
del testo abbiamo dovuto contrastare le tradizionali esposizioni elogiative del
Rinascimento. Valga in questa sede, come esempio massimo della concezione morale, e perciò antropocentrica,
del mondo espressa dal Rinascimento quanto scrive Giannozzo Manetti nel De
dignitate et excellentia hominis : “Nostre sono le terre, nostri gli agri,
nostri i campi, nostri i monti…Nostri sono i cavalli, i muli, gli asini, i
bovi… Nostri sono i cieli, gli astri, i pianeti e ciò che di mirabile si vede”.
E’ questo il vertice parossistico della hybris
(o arroganza) umana., che esprime il vero spirito, anche se non uniforme,
del Rinascimento, che lo pone agli antipodi di un umile approccio scientifico
allo studio della natura, quale si era già espresso nel Medioevo, che nello
spirito è più vicino allo scienziato dell’età moderna. Vero è che lo stesso Garin, pur
complessivamente aderente, nei suoi classici studi all’immagine del Rinascimento
come età che prelude alla modernità per lo spostarsi dell’interesse sulla
creatività umana, non ha mancato ( in Rinascite e Rivoluzioni. Movimenti culturali
dal XIV al XVII secolo, Laterza
1976, pp. 135 sgg.) di presentare Leon Battista Alberti come un umanista
consapevole della miseria dell’uomo e della sua arroganza derivante dal fatto
di credere di avere libertà su ogni cosa. Ma rimane anche l’adesione di Garin (L’educazione in Europa, 1400-1600,
Laterza1957, p. 272) alla tesi di P. Hazard (La crise de la conscience européenne, 1680-1715, Paris 1933)
secondo cui il Rinascimento si salda al Seicento per la stessa fiducia
nell’umano come slancio vitale di una natura che non è più opera di un
creatore. Si tratta di vuote formule che non tengono conto del diverso
atteggiamento della scienza moderna di
fronte alla natura, dettato, al contrario, da un decentramento, astronomico e morale, dell’uomo nel riferire
la sua razionalità alla ragione naturale che si esprime nella conoscenza
scientifica.Non mancano gli studiosi che
riconoscono al pensiero politico medievale il maggiore contributo al pensiero
politico moderno: Q. Skinner, Le origini
del pensiero politico moderno, Il Mulino 1989; H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano,
La Nuova Italia 1970; P.O. Kristeller, Concetti
rinascimentali dell’uomo e altri saggi, La Nuova Italia 1978.
[4]
Sui contenuti dell’insegnamento universitario nel Rinascimento cfr. Paul Oskar
Kristeller, La tradizione classica nel pensiero del
Rinascimento (1955), La Nuova Italia 1965,
[5] Anche nel caso di Campanella si deve notare
come il significato di diritto naturale, che, pure, discende, da una concezione
naturalistica in cui tutte le forme di vita hanno un’eguale origine, venga poi circoscritto, per il prevalere di una
concezione cristiana, alla natura umana.
Da una parte scrive che “bisogna dunque affermare che il mondo sia un animale
tutto senziente, eche godano tutte le parti della comune vita” (Del senso delle
cose e della magia, I, ix, Laterza 1925,
p. 26),; dall’altra scrive : “essendo tutte le cose per l’uomo e l’uomo per
nessun’altra cosa, ne consegue che egli sia partecipe della divinità e sia il
fine di tutte le cose, mentre Dio è il suo fine” (Metaphysica, XI, vi, 4, Zanichelli 1967, vol. III, p. 28.
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